Corriere della Sera, mercoledì 6 febbraio 2002, 28 giugno 2013
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I cinquant’anni di regno di Elisabetta II (articolo del 6/2/2002)
Corriere della Sera, mercoledì 6 febbraio 2002
Pare accertato, o almeno molto probabile, che io sia l’unico giornalista italiano vivente, oltre a Mario Ciriello, che abbia «coperto» la grande cerimonia dell’incoronazione di Elisabetta II, il 2 giugno del 1953; e ciò sembra impormi il compito di rievocare, come meglio posso, quella giornata, e quei tempi. Il trascorrere degli anni ha annebbiato o cancellato talune impronte della memoria. Altre sembrano essere divenute più vivide, e forse anche più care. Feci allora la radiocronaca dell’incoronazione per la Voce di Londra e per la Rai; come l’avevo fatta, il 15 febbraio del 1952, dell’ultimo atto, al castello di Windsor, dei solenni, sobri e struggenti funerali di Re Giorgio VI, che si era spento il 6 febbraio («in pace, nel sonno, di prima mattina», disse poi il comunicato ufficiale), all’età di 56 anni, nel sedicesimo anno di regno. Con la sua morte ebbe inizio, cinquant’anni fa, il regno della seconda Elisabetta: «L’alta e potente Principessa Elizabeth Alexandra Mary», proclamata quel giorno stesso al palazzo di San Giacomo, in sua assenza (era in visita di Stato nel Kenya), «per grazia di Dio Regina di questo Regno e degli altri suoi Regni e Territori, Capo del Commonwealth e Difensore della Fede». Elisabetta, 50 anni fa un sorriso tranquillo per i sogni di riscatto.
A Westminster il mio racconto da un’impalcatura: una cerimonia che volle ridare fiducia agli inglesi. I suoi vassalli, giurandole «fedeltà e costante obbedienza», pregarono «il Signore, grazie al quale i Re e le Regine regnano», di concederle «lunghi e felici anni di Regno». La preghiera non è stata inascoltata. Sognarono e dissero allora gli Inglesi che si era all’inizio di una «nuova era elisabettiana». Era un sogno che esprimeva con forza la voglia di uscire dagli anni tremendi della guerra, dagli anni duri del dopoguerra. L’Inghilterra che salutò l’ascesa al trono di Elisabetta II era ancora l’Inghilterra della austerity, abituata ad affrontare grandi sacrifici. Aveva vissuto, nella guerra, i suoi giorni migliori, nei quali aveva messo in luce tutte le sue insuperate virtù civili. Ma l’esistenza quotidiana soffriva ancora di un grigiore che gli Inglesi sembravano incapaci di scrollarsi di dosso. Ora era giusto che l’orgoglio della vittoria impossibile, conquistata da Re e popolo uniti, e le memorie della secolare grandezza, facessero sognare una nuova stagione di gloria, a cui faceva da quadro la pompa delle cerimonie regali. Alla Regina e al suo popolo la storia non ha poi voluto concedere una nuova era elisabettiana. Ha riservato anni di grandi successi civili (fu qui che nacque il welfare State, modello della democrazia moderna) e politici; ma anche un annus horribilis, e forse più di uno, come la stessa Elisabetta stessa ebbe un giorno a dire.
In questo cinquantennio, la monarchia inglese si è scontrata, e ne ha riportato dolorose ferite, con i mutati costumi del nostro tempo. L’Inghilterra ha cessato di essere una dominatrice della storia. Credo che si debba rendere omaggio a Elisabetta II per avere conservato intatta la dignità del suo ufficio, per avere preservato come un bene prezioso il senso del dovere, che hanno reso grande la sua Casa Reale e il suo Regno. In questo lungo arco di tempo abbiamo assistito alla fine dell’Impero Britannico, e al riluttante ingresso del Regno Unito in quella nuova istituzione politica, fra internazionale e sovranazionale, che ha oggi nome di Unione Europea. L’insularità istintiva della Nazione che ha dato vita alla «madre di tutti i Parlamenti», e che ha sempre trovato naturale guardare lontano, oltre gli oceani, alla ricerca del suo destino, ha ceduto lentamente all’attrazione del «Continente», cui pure la civiltà inglese appartiene in tutto e per tutto; e che oggi sembra necessario per assicurare, in un quadro globale tanto più vasto e variato, la sopravvivenza di quella che fu la grandezza dell’Inghilterra. Altre nazioni non meno gloriose, di non meno forte identità culturale e storica, hanno indicato e percorso per prime lo stesso cammino creativo verso una nuova comune realtà politica europea, verso una nuova pace europea. Il mezzo secolo non è passato invano. Eravamo tutti giovani adulti, cinquant’ anni fa. E vivevamo tutti nella scia del ricordo della grande tragedia, che avevamo vissuto, della seconda grande guerra europea, della Seconda guerra mondiale. Elisabetta aveva portato la divisa negli anni del conflitto: quando toccò agli Inglesi il compito di salvare, con il loro coraggio e con la loro tenacia, la democrazia e la civiltà. Il primo argine al dilagante trionfo della barbarie nazista fu alzato e difeso da loro. Se l’Inghilterra fosse perita, l’Europa e il mondo sarebbero periti. Parafrasando una frase famosa di Churchill, può dirsi che mai un così piccolo popolo fece tanto per tanti grandi popoli. Dopo scesero in campo i Russi e gli Americani. La loro grande forza non sarebbe bastata se prima l’Inghilterra si fosse arresa. Non si arrese l’Inghilterra di Giorgio VI e di Winston Churchill. Credo, onestamente, che sentimenti come questi che ho rievocato fossero nella mia mente mentre raccontavo come il popolo inglese avesse accompagnato Giorgio VI, in una grigia giornata di febbraio, alla sua inumazione nella Cappella di San Giorgio al castello di Windsor, per l’eterno riposo accanto a tanti sovrani, da Enrico VI a Giorgio V; e come, un anno e mezzo dopo, in una splendida giornata di giugno, avesse festeggiato con eguale pompa e partecipazione popolare l’incoronazione della seconda Elisabetta. Restano incise nella memoria immagini che sembrano quadri. Toccò a me di raccontare la giornata dell’Incoronazione dall’esterno, arrampicato, con tanti altri giornalisti e telecronisti, sulle impalcature che erano state costruite per noi, addossate alla facciata del palazzo vittoriano che ha di fronte la grande facciata dell’Abbazia. Raccontai nella mia cronaca come nove diversi cortei confluissero verso l’ingresso alla storica Westminster Abbey. Al corteo di cocchi del Lord Mayor che rappresentava la City di Londra, ammesso quel giorno a varcare i confini con la City contrapposta di Westminster, sede della monarchia e del Parlamento, ne seguirono altri assai pittoreschi: quello dello Speaker della Camera dei Comuni, quello dei Sovrani stranieri, quello dei Primi Ministri di Sua Maestà, quello dei Principi e Principesse di Sangue Reale, quello della Regina Madre, oggi centenaria, e che Dio la benedica, per finire con il grande cocchio da favola, tutto oro e cristalli, della Regina e del Duca di Edimburgo, trainato da otto «grigi», preceduto e seguito da mille ufficiali e soldati della Brigata delle Guardie e da vari pittoreschi personaggi, che il programma descriveva come «cappellani e cappellani onorari, medici e cerusici onorari», aiutanti di campo, Lord del Mare, Generali e Marescialli della RAF.
All’interno dell’Abbazia, Elisabetta e il Duca, lei sorridente e composta, col gran manto di velluto rosso bordato di ermellino sulle giovani spalle, lui splendido nella grande uniforme di Ammiraglio, furono accolti da una esplosione di colori e di suoni. Nel descrivere una tal cerimonia, occorreva trasmettere all’ascoltatore – non ricordo se e come vi riuscii – la sensazione che non stavamo assistendo a una «cerimonia in costume d’epoca», come sarebbe una Giostra della Quintana o simili feste oggi in uso a beneficio dei turisti, ma a una autentica Sacra Rappresentazione, quali ancora sopravvivono ed avvengono con grande naturalezza in Vaticano e in pochissime altre auguste sedi dove si esercita da secoli o millenni un potere antico e sempre vivo. L’emozione che ne deriva è incomparabilmente più grande, in queste occasioni si sente il battito della storia. Lo sentiva quel giorno, sicuramente, la giovane Regina, rigidamente educata al senso del dovere, consapevole, con l’Amleto di Shakespeare, che «un Re è suddito dalla sua nascita: non può, come persone volgari, fare a modo suo, poiché dalla sua scelta dipende la sicurezza e la salute di tutto lo Stato». Elisabetta lo sapeva allora e non lo ha mai dimenticato. Ciò dovrebbe dirsi in verità di ogni uomo dotato di grande potere, sia che esso gli sia stato conferito dalla nascita, o dalla volontà del popolo. Ma sentirsi e comportarsi da suddito, essendo Re, è facile a dirsi, assai più che a farsi. Beato il popolo che ha un tal Re per guidarlo.
Pare accertato, o almeno molto probabile, che io sia l’unico giornalista italiano vivente, oltre a Mario Ciriello, che abbia «coperto» la grande cerimonia dell’incoronazione di Elisabetta II, il 2 giugno del 1953; e ciò sembra impormi il compito di rievocare, come meglio posso, quella giornata, e quei tempi. Il trascorrere degli anni ha annebbiato o cancellato talune impronte della memoria. Altre sembrano essere divenute più vivide, e forse anche più care. Feci allora la radiocronaca dell’incoronazione per la Voce di Londra e per la Rai; come l’avevo fatta, il 15 febbraio del 1952, dell’ultimo atto, al castello di Windsor, dei solenni, sobri e struggenti funerali di Re Giorgio VI, che si era spento il 6 febbraio («in pace, nel sonno, di prima mattina», disse poi il comunicato ufficiale), all’età di 56 anni, nel sedicesimo anno di regno. Con la sua morte ebbe inizio, cinquant’anni fa, il regno della seconda Elisabetta: «L’alta e potente Principessa Elizabeth Alexandra Mary», proclamata quel giorno stesso al palazzo di San Giacomo, in sua assenza (era in visita di Stato nel Kenya), «per grazia di Dio Regina di questo Regno e degli altri suoi Regni e Territori, Capo del Commonwealth e Difensore della Fede». Elisabetta, 50 anni fa un sorriso tranquillo per i sogni di riscatto.
A Westminster il mio racconto da un’impalcatura: una cerimonia che volle ridare fiducia agli inglesi. I suoi vassalli, giurandole «fedeltà e costante obbedienza», pregarono «il Signore, grazie al quale i Re e le Regine regnano», di concederle «lunghi e felici anni di Regno». La preghiera non è stata inascoltata. Sognarono e dissero allora gli Inglesi che si era all’inizio di una «nuova era elisabettiana». Era un sogno che esprimeva con forza la voglia di uscire dagli anni tremendi della guerra, dagli anni duri del dopoguerra. L’Inghilterra che salutò l’ascesa al trono di Elisabetta II era ancora l’Inghilterra della austerity, abituata ad affrontare grandi sacrifici. Aveva vissuto, nella guerra, i suoi giorni migliori, nei quali aveva messo in luce tutte le sue insuperate virtù civili. Ma l’esistenza quotidiana soffriva ancora di un grigiore che gli Inglesi sembravano incapaci di scrollarsi di dosso. Ora era giusto che l’orgoglio della vittoria impossibile, conquistata da Re e popolo uniti, e le memorie della secolare grandezza, facessero sognare una nuova stagione di gloria, a cui faceva da quadro la pompa delle cerimonie regali. Alla Regina e al suo popolo la storia non ha poi voluto concedere una nuova era elisabettiana. Ha riservato anni di grandi successi civili (fu qui che nacque il welfare State, modello della democrazia moderna) e politici; ma anche un annus horribilis, e forse più di uno, come la stessa Elisabetta stessa ebbe un giorno a dire.
In questo cinquantennio, la monarchia inglese si è scontrata, e ne ha riportato dolorose ferite, con i mutati costumi del nostro tempo. L’Inghilterra ha cessato di essere una dominatrice della storia. Credo che si debba rendere omaggio a Elisabetta II per avere conservato intatta la dignità del suo ufficio, per avere preservato come un bene prezioso il senso del dovere, che hanno reso grande la sua Casa Reale e il suo Regno. In questo lungo arco di tempo abbiamo assistito alla fine dell’Impero Britannico, e al riluttante ingresso del Regno Unito in quella nuova istituzione politica, fra internazionale e sovranazionale, che ha oggi nome di Unione Europea. L’insularità istintiva della Nazione che ha dato vita alla «madre di tutti i Parlamenti», e che ha sempre trovato naturale guardare lontano, oltre gli oceani, alla ricerca del suo destino, ha ceduto lentamente all’attrazione del «Continente», cui pure la civiltà inglese appartiene in tutto e per tutto; e che oggi sembra necessario per assicurare, in un quadro globale tanto più vasto e variato, la sopravvivenza di quella che fu la grandezza dell’Inghilterra. Altre nazioni non meno gloriose, di non meno forte identità culturale e storica, hanno indicato e percorso per prime lo stesso cammino creativo verso una nuova comune realtà politica europea, verso una nuova pace europea. Il mezzo secolo non è passato invano. Eravamo tutti giovani adulti, cinquant’ anni fa. E vivevamo tutti nella scia del ricordo della grande tragedia, che avevamo vissuto, della seconda grande guerra europea, della Seconda guerra mondiale. Elisabetta aveva portato la divisa negli anni del conflitto: quando toccò agli Inglesi il compito di salvare, con il loro coraggio e con la loro tenacia, la democrazia e la civiltà. Il primo argine al dilagante trionfo della barbarie nazista fu alzato e difeso da loro. Se l’Inghilterra fosse perita, l’Europa e il mondo sarebbero periti. Parafrasando una frase famosa di Churchill, può dirsi che mai un così piccolo popolo fece tanto per tanti grandi popoli. Dopo scesero in campo i Russi e gli Americani. La loro grande forza non sarebbe bastata se prima l’Inghilterra si fosse arresa. Non si arrese l’Inghilterra di Giorgio VI e di Winston Churchill. Credo, onestamente, che sentimenti come questi che ho rievocato fossero nella mia mente mentre raccontavo come il popolo inglese avesse accompagnato Giorgio VI, in una grigia giornata di febbraio, alla sua inumazione nella Cappella di San Giorgio al castello di Windsor, per l’eterno riposo accanto a tanti sovrani, da Enrico VI a Giorgio V; e come, un anno e mezzo dopo, in una splendida giornata di giugno, avesse festeggiato con eguale pompa e partecipazione popolare l’incoronazione della seconda Elisabetta. Restano incise nella memoria immagini che sembrano quadri. Toccò a me di raccontare la giornata dell’Incoronazione dall’esterno, arrampicato, con tanti altri giornalisti e telecronisti, sulle impalcature che erano state costruite per noi, addossate alla facciata del palazzo vittoriano che ha di fronte la grande facciata dell’Abbazia. Raccontai nella mia cronaca come nove diversi cortei confluissero verso l’ingresso alla storica Westminster Abbey. Al corteo di cocchi del Lord Mayor che rappresentava la City di Londra, ammesso quel giorno a varcare i confini con la City contrapposta di Westminster, sede della monarchia e del Parlamento, ne seguirono altri assai pittoreschi: quello dello Speaker della Camera dei Comuni, quello dei Sovrani stranieri, quello dei Primi Ministri di Sua Maestà, quello dei Principi e Principesse di Sangue Reale, quello della Regina Madre, oggi centenaria, e che Dio la benedica, per finire con il grande cocchio da favola, tutto oro e cristalli, della Regina e del Duca di Edimburgo, trainato da otto «grigi», preceduto e seguito da mille ufficiali e soldati della Brigata delle Guardie e da vari pittoreschi personaggi, che il programma descriveva come «cappellani e cappellani onorari, medici e cerusici onorari», aiutanti di campo, Lord del Mare, Generali e Marescialli della RAF.
All’interno dell’Abbazia, Elisabetta e il Duca, lei sorridente e composta, col gran manto di velluto rosso bordato di ermellino sulle giovani spalle, lui splendido nella grande uniforme di Ammiraglio, furono accolti da una esplosione di colori e di suoni. Nel descrivere una tal cerimonia, occorreva trasmettere all’ascoltatore – non ricordo se e come vi riuscii – la sensazione che non stavamo assistendo a una «cerimonia in costume d’epoca», come sarebbe una Giostra della Quintana o simili feste oggi in uso a beneficio dei turisti, ma a una autentica Sacra Rappresentazione, quali ancora sopravvivono ed avvengono con grande naturalezza in Vaticano e in pochissime altre auguste sedi dove si esercita da secoli o millenni un potere antico e sempre vivo. L’emozione che ne deriva è incomparabilmente più grande, in queste occasioni si sente il battito della storia. Lo sentiva quel giorno, sicuramente, la giovane Regina, rigidamente educata al senso del dovere, consapevole, con l’Amleto di Shakespeare, che «un Re è suddito dalla sua nascita: non può, come persone volgari, fare a modo suo, poiché dalla sua scelta dipende la sicurezza e la salute di tutto lo Stato». Elisabetta lo sapeva allora e non lo ha mai dimenticato. Ciò dovrebbe dirsi in verità di ogni uomo dotato di grande potere, sia che esso gli sia stato conferito dalla nascita, o dalla volontà del popolo. Ma sentirsi e comportarsi da suddito, essendo Re, è facile a dirsi, assai più che a farsi. Beato il popolo che ha un tal Re per guidarlo.
Arrigo Levi