27 giugno 2013
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Appunti sulla morte di Marta Russo
Delitto Venerdì 9 maggio 1997, alle 11.42, in un viale fra le facoltà di Scienze statistiche e Scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, Marta Russo, di anni 22, studentessa del terzo anno di Giurisprudenza, si accascia al suolo davanti agli occhi dell’amica Jolanda Ricci che le cammina a fianco. È stata colpita da un proiettile che le è penetrato nella testa perforandole l’encefalo e lasciandole un buco piccolo piccolo all’altezza dell’orecchio. Marta viene trasportata d’urgenza al Policlinico Umberto I, nel piccolo reparto di neurochirurgia. Morirà alle 22 del 13 maggio 1997 dopo cinque giorni di coma. La famiglia deciderà di donare i suoi organi per salvare cinque vite. Sull’asfalto della Sapienza lascia macchie di sangue.
Ospedale A seguirla in Ospedale, il rettore della Sapienza Giorgio Tecce che chiede incessantemente notizie ai medici che rispondono con tono perentorio: «È grave, dobbiamo aspettare». [Cds 10/5/1997]
Commissariato «Siamo l’unica università al mondo che ha un commissariato all’interno. Dopo pochi attimi, infatti, le volanti sono arrivate e gli agenti non hanno perso tempo nella ricerca di chi ha sparato a Marta» (il rettore dell’università La Sapienza di Roma). [Cds 10/5/1997]
Ambulanza/1 «Sono arrivate verso mezzogiorno e cinque, la ragazza era sdraiata in terra e accanto a lei c’erano due medici con i camici, uno le faceva la respirazione bocca a bocca e l’altro le sentiva il polso. Qualcuno si lamentava che da circa venti minuti l’ambulanza ancora non arrivava. La ragazza aveva una piccola ferita dietro l’orecchio sinistro, ma non usciva molto sangue» (Giuseppe Fabiano, 21 anni, studente di Giurisprudenza). [Cds 10/5/1997]
Ambulanza/2 «Dalla prima chiamata all’arrivo dell’ambulanza sono trascorsi 10-12 minuti» (il dottor Pietro Pugliese, responsabile di turno del 118 al momento dell’agguato).
Cianotica «Ero accanto a lei, l’ho vista diventare cianotica, mentre i minuti correvano via» (una studentessa).
Jeans «Di quel giorno ricordo due cose: la Digos che suonava a casa per dirmi che Marta era in coma. E i vestiti che mia sorella indossava quando le hanno sparato: erano miei, una camicetta, un paio di jeans e degli occhiali di gran moda. Le piacevano, glieli avevo prestati» (Tiziana Russo, sorella di Marta). [Daniele Mastrogiacomo, Rep. 19/12/2011]
Pul.Tra Il 12 maggio 1997 la polizia trova nel magazzino della ditta di pulizie “Pul.tra” due proiettili inesplosi a salve. La sera stessa le abitazioni dei dipendenti vengono perquisite e alcuni di loro interrogati: «Alla sapienza si trovò un armamentario e un poligono di tiro. C’erano P38, silenziatori, pistole giocattolo, munizioni e tracce di polvere da sparo. Undici giovanotti dell’azienda delle pulizie si divertivano a fare il tiro a segno nei magazzini e nei sotterranei dell’università». [Giuseppe D’Avanzo, Sette n. 51/52/1998]
Morte Alla mezzanotte del 13 maggio 1997, un comunicato della direzione sanitaria del Policlinico ha annunciato la morte cerebrale della giovane studentessa. Da una ventina di ore l’elettroencefalogramma era piatto. Già alle 22 sera era stata attivata la commissione medico legale, prevista dalla legge sulla donazione di organi, che nelle successive sei ore ha avuto il compito di accertare definitivamente la morte cerebrale per poter dare poi il via libera all’immediato espianto degli organi, «rispettando in questo anche la volontà della paziente stessa».
Organi/1 «Pochi giorni fa, di fronte alle polemiche nate a Napoli sul trapianto di organi, Marta mi aveva detto di non capire perché la gente sia così indifferente e ostile... Perciò quando lei è stata dichiarata morta, donare i suoi organi è stato naturale. Ora spero solo che Marta diventi un simbolo. Nel futuro mi auguro di poter incontrare le persone che ora affrontano una nuova vita grazie a lei» (Tiziana Russo, sorella di Marta). [Cds 15/5/1997]
Organi/2 Già il 14 maggio il cuore di Marta Russo batteva nel petto di Domenica Virzì, una casalinga siciliana di 38 anni ricoverata nel Policlinico di Catania. Dal pomeriggio il suo fegato è stato trapiantato su un diciassettenne ricoverato al Policlinico Umberto I di Roma, M. G., anche lui di origini siciliane. I reni invece sono stati dati a due pazienti laziali, Massimo Alfonsi di 26 e F. G. di 31 anni, che erano in attesa del trapianto dal 1994 e dal 1990 mentre le cornee hanno permesso a un ragazzo romano e a un giovane romeno di riacquistar la vista.
Politico Il 14 maggio alle 11.30 cinquemila studenti alla Sapienza sfilano in un corteo silenzioso, senza bandiere né simboli: «È l’indizio di uno stato d’animo di solidarietà che va al di là delle divisioni politiche» (il rettore Tecce). In testa lo striscione degli universitari, con su scritto «Per Marta», su un altro si legge: «Non ci sono parole per esprimere il nostro dolore» e su un’altro ancora: «Non è giusto». Uno studente universitario impegnato politicamente a sinistra afferma: «Questa manifestazione parla da sola: è la migliore risposta a chi insinua l’esistenza di una pista politica, che nasce da contrasti tra gli universitari della Sapienza». [Cds 15/5/1997]
Volantino Su un volantino distribuito durante il corteo del 14 maggio si legge: «Lacrime di coccodrillo, come fare uso politico di una tragedia». [Cds 15/5/1997]
Funerali Il 16 maggio 1997 si svolgono i funerali di Marta Russo: la camera ardente, aperta dalle 8.30 del mattino è allestita all’Istituto di medicina legale, alle 10 parte il corteo funebre e alle 10.30, nella cappella Universitaria della Sapienza padre Gian Giacomo Rotelli e don Enzo Zoino (sacerdote del Tuscolano) celebrano i funerali della ragazza davanti a diecimila persone. Tra i presenti: il rettore Giorgio Tecce, il presidente della Camera Luciano Violante, il sindaco di Roma Francesco Rutelli, il ministro Luigi Berlinguer, il prefetto Giorgio Musio. Il presidente del Consiglio Prodi aveva preferito rendere omaggio alla salma nella camera ardente. Anche il Papa ha mandato un messaggio nel quale si auspica che «il generoso gesto del dono degli organi da parte della giovane contrasti con l’odio folle che l’ha uccisa e valga a rinsaldare in tutti l’impegno di diffondere cultura, amore e fraterna solidarietà». Donato Russo: «È mancato soltanto il Presidente della Repubblica, che non ha ritenuto opportuno fare neanche un telegramma. Ma la sensibilità se non c’è non si può inventare...». [Cds 17/5/1997]
• Al termine della cerimonia Blowing in the wind nella versione italiana.
• Seppellita al Verano, nel Riquadro 85, cappella uno, primo piano, loculo 41 (Aurelia, la madre di Marta, vedendolo, sviene). Sulla parete di fronte tra le altre tombe, spicca quella di Alfredino Rampi, con una fotografia lo ritrae sorridente, con la maglietta bianca a righe blu.
• Riquadro 85. È un angolo remoto del cimitero monumentale del Verano, dove il terreno torna a scendere verso la Tiburtina. Qui il Comune si riserva ancora un po’ di spazio.
Marta Marta Russo, nata a Roma il 13 aprile 1975, da Donato, professore di educazione fisica al liceo e maestro di scherma, e Aureliana, una sorella, Tiziana, di tre anni più grande.
• Una ragazza tranquilla, educata, calma ed elegante, senza altri impegni che non fossero lo studio o la scherma. Abitava in via Cerreto di Spoleto, al Tuscolano, un grande amico, Andrea («con il quale poteva parlare per ore sul marciapiede sotto casa» dice un conoscente) e un fidanzato, Luca («la loro storia, che è iniziata da poco, è pulitissima» afferma un amico di Marta). Ha fatto le elementari alla Rodari e si è diplomata al liceo Cavour di Roma. Appassionata di scherma: già a 11 anni conquista il titolo regionale del Lazio a Frascati e nel 1985, vince a Roma il Gran premio Giovanissimi (il campionato italiano dei ragazzi) nella categoria bambine.
Aula 6 Il 19 maggio, i Ris scoprono «tracce significative» di polvere da sparo (ci sono una particella di antimonio e bario e un’altra di piombo e antimonio) sul davanzale della finestra dell’aula 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto della facoltà di Scienze Politiche. Le indagini vengono estese ai dipendenti di questa facoltà. La finestra dell’Aula 6 è compatibile con la traiettoria del proiettile. [Giuseppe D’Avanzo, Cds 18/4/1998]. Il 2 giungo l’esame del puntamento laser confermerà che il colpo è partito dall’aula 6 (conclusione balistica che poi verrà contestata).
Indagati Il 20 maggio gli inquirenti fanno sapere che le persone indagate per omicidio sono 15, il 24 salgono a 40, tutte legate all’Ateneo: sono per lo più docenti, assistenti e amministrativi che lavorano all’Istituto di Filosofia del Diritto.
Inchiesta L’inchiesta viene affidata al pm Carlo Lasperanza, un è un magistrato di non grande esperienza che però ha a disposizione un pool formato da circa 80 investigatori, tra squadra mobile, scientifica e Digos.
Arresto/1 Il 12 giugno il professor Bruno Romano, direttore dell’Istituto di Filosofia del diritto viene messo ai domiciliari con l’accusa di favoreggiamento nei confronti dello sparatore: «Avrebbe fatto pressioni sui testimoni perché non rivelassero chi era presente il 9 maggio nell’Aula 6». Alla sua assistente Maria Chiara Lipari avrebbe detto di andarci «cauti con le dichiarazioni agli inquirenti e non rovinare il buon nome dell’istituto». Romano nega. Ad accusarlo anche una testimone: Gabriella Alletto, 45 anni, segretaria dell’istituto. Romano verrà prosciolto da ogni accusa dopo un settimana.
Arresto/2 Il 14 giugno il gip Guglielmo Muntoni emette tre ordini di custodia cautelare: per gli assistenti Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone e uno per l’usciere Francesco Liparota. Ferraro viene preso nella sua abitazione in via Pavia, mentre Scattone in un ristorante all’aperto al Foro Italico nell’ambito di una manifestazione dell’estate romana, dove cenava con alcuni amici (erano stati pedinati). Liparota era ancora negli uffici di polizia. Alle 23 erano tutti in questura.
• L’Ansa: «Alla mezzanotte del 14 giugno è tutto concluso, pochi minuti dopo magistrati e investigatori escono con tre auto a tutto velocità: destinazione un ristorante nei pressi di piazza Mazzini». [Ansa 15/6/1997]
Testimone È Gabriella Alletto, segretaria, la testimone chiave del caso Marta Russo: con le sue dichiarazioni mette «il timbro “colpevoli”» al fascicolo che conteneva i nomi di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Tra le 14 e le 15 del 14 giugno la Alletto comincia a dire qualcosa «un pezzo alla volta, con pianti e ripensamenti – dice un investigatore – con un forte conflitto emotivo». «Dopo un lavorio di diverse ore, con flash sulla scena che man mano si allargano”. Alla fine alle 20 la Alletto (alla presenza del suo difensore visto che era indagata per favoreggiamento) ha delineato il quadro e le persone che lo componevano». La Alletto era stata ascoltata anche la notte precedente in una testimonianza a confronto con la Lipari e Liparota. Grande sconcerto perché in una videocassetta trasmessa anche in tv (il 19 luglio 1997) la si vede che giura di non aver visto nulla.
Ricattabile Il 28 giugno 1997 comincia l’udienza del Tribunale del Riesame. I due imputati si dicono estranei ai fatti. I difensori dei due assistenti mettono in guardia il tribunale sulla personalità di Gabriella Alletto, sostenendo: «Non deve sfuggire l’enorme efficacia persuasiva che deve aver avuto la serie impressionante di interrogatori, in orario diurno e notturno, inflitti alla Alletto nonché alla utilizzazione di una indebita indagine parallela relativa alla presunta sua illecita assunzione». In altre parole la Alletto sarebbe ricattabile.
Violento «Sto’ procuratore era proprio... insomma è stato a tratti violento... sì insomma psicologicamente, verbalmente... è una tragedia (...) Questo diceva “sputtano lei, sputtano suo padre eccetera”» (Maria Chiara Lipari in una intercettazione telefonica del 22 maggio).
Accuse Il 31 luglio la Alletto conferma tutto: «Scattone era nell’aula 6 e aveva una pistola in mano». Ferraro invece «Era scostato dalla finestra, non poteva vedere quello che succedeva di sotto». L’8 agosto in un interrogatorio segreto Maria Chiara Lipari ricorda: «Nell’aula 6 c’era Ferraro, forse Scattone. Ho sentito un rumore sordo, un tonfo». Il 7 ottobre i periti nominati dai gip sostengono che ci sono tracce di polvere da sparo nella borsa di Ferraro e sulla camicia di Scattone.
Imputati Il 9 gennaio 1998 sono nove le richieste di rinvio a giudizio presentate dalla procura di Roma a conclusione dell’inchiesta. Omicidio volontario e porto illegale di armi sono i reati contestati a Giovanni Scattone, Salvatore Ferraro e Francesco Liparota. Il reato di favoreggiamento riguarda il direttore dell’Istituto di Filosofia del diritto Bruno Romano, il direttore della biblioteca Maurizio Basciu, la segretaria Maria Urilli, Gabriella Alletto (che è anche la supertestimone dell’inchiesta) e l’amica di Ferraro, Marianna Marcucci. Il rinvio a giudizio è chiesto anche per il bibliotecario della facoltà di Lettere Rino Zingale, al quale la procura contesta i reati di falso, abuso e violazione sulla legge sulle armi.
Processo Il 20 aprile 1998 nell’aula bunker del Foro italico di Roma inizia il processo. Presidente Francesco Amato, giudice a latere Giancarlo De Cataldo, noto scrittore. Si concluderà il 29 maggio 1999 dopo 70 udienze. Sentenza: la Corte d’Assise condanna Giovanni Scattone a 7 anni di reclusione per il reato di omicidio colposo; 4 anni a Salvatore Ferraro per favoreggiamento personale. I due vengono immediatamente scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Assolti tutti gli altri imputati. Evidente la sconfitta della procura di Roma che per i due principali imputati aveva chiesto una condanna a 18 anni per omicidio volontario. Per Liparota erano stati chiesti 5 anni e 9 mesi (assolto). Per il prof. Romano addirittura 4 anni (assolto). Al processo di Appello il procuratore generale Luciano Infelisi conferma le richieste di condanna per Scattone e Ferraro: 22 anni per il primo imputato; 16 per Ferraro, oltre a 4 per Liparota. Sentenza: Prima corte d’Appello condanna Giovanni Scattone a otto anni di reclusione per omicidio colposo e due milioni di euro di multa. Salvatore Ferraro a sei anni e a una multa di due milioni di euro; Francesco Liparota a quattro anni di reclusione per il reato di favoreggiamento personale. Inoltre Ferraro e Scattone dovranno rifondere le spese sostenute in questo processo dalle parti civili: 20 milioni all’Università La Sapienza; circa 61 milioni al padre; circa 71 milioni alla madre e circa 67 milioni alla sorella di Marta Russo. Ma il 6 dicembre 2001 la Cassazione annulla la sentenza con rinvio ad altra corte d’Appello. Il 29 novembre 2002 la seconda Corte d’Appello di Roma condanna Giovanni Scattone a sei anni di reclusione per omicidio colposo, Salvatore Ferraro a 4 anni e 6 mesi per favoreggiamento e Francesco Liparota a 2 anni, sempre per favoreggiamento. Il 15 dicembre 2003, la V sezione penale della Cassazione condanna definitivamente Scattone a 5 anni e 4 mesi di reclusione; Ferraro a 4 anni e 2 mesi; assolve Liparota. Eliminata la interdizione dai pubblici uffici. Lo stesso giorno Scattone viene arrestato e condotto in carcere. Con il carcere preventivo Ferraro ha già scontato la pena.
Processo/2 «Non c’è l’arma del delitto. Il proiettile, che ha colpito Marta poco sopra l’orecchio, frantumandosi in undici schegge, è un calibro 22 del peso di 2,6 grammi. Ma quale arma l’ha esploso e soprattutto da dove? Alla Sapienza si trovò un armamentario e un poligono di tiro. C’erano P38, silenziatori, pistole giocattolo, munizioni e tracce di polvere da sparo. Undici giovanotti dell’azienda delle pulizie si divertivano a fare il tiro a segno nei magazzini e nei sotterranei dell’università. Spararono loro? Spararono dalla toilette riservata agli handicappati dove furono rintracciati sedimenti di polvere da sparo? Era una traccia che conduceva al nulla: in quel bagno poteva essere entrato chiunque. Inquirenti e investigatori cambiarono allora strategia. Partirono dal foro d’entrata del proiettile. Marta camminava (...) nel vialetto della Sapienza (...) era girata verso sinistra con il capo leggermente piegato verso il basso. Se la testa era in quella posizione (ma lo era?), il bagno degli handicappati non c’entrava nulla perché il colpo era venuto dall’alto, alle spalle di Marta. “Quindi” dall’Aula 6, dall’aula degli assistenti di Filosofia del Diritto. Sul davanzale di quell’aula, si rintracciano antimonio e bario. Non sono sufficienti per dire che sono tracce di uno sparo (manca il piombo). Occorrono dunque testimoni che affermino: in quell’aula hanno sparato; in quell’aula c’erano Tizio, Sempronio e Caio. Io li ho visti sparare. Passano i giorni (dodici) e i testimoni saltano fuori. Comincia Chiara Lipari che, il 9 maggio, entra nell’Aula 6 alle 11,44 (due minuti dopo lo sparo). Dice: “Quando sono entrata nella sala assistenti per chiamare mia madre, avevo la finestra di fronte che era illuminata dall’esterno, ma non ho visto nessuno vicino a essa. Ho avuto la sensazione netta che nella stanza ci fosse una forte tensione nell’aria... Nella stanza c’erano due o tre persone, due certamente di sesso maschile, una probabilmente di sesso femminile...”. Probabilmente la persona di sesso femminile è Gabriella Alletto, impiegata di segreteria. La interrogano in modo perverso e la minacciano di arresto. Lei si difende: “Non ero lì”, confida (intercettata) a un ispettore di polizia, suo cognato. Alla fine, dopo tre giorni, cede: “Sono stati loro. Scattone ha sparato dalla finestra, Ferraro si è messo le mani nei capelli”. Il processo contro Scattone e Ferraro è questo» (Giuseppe D’Avanzo). [Sette n. 51/52/1998]
Innocente «Sono innocente. (…) Non c’è l’arma del delitto. Non c’è un movente. E anche nella testimonianza decisiva dell’Alletto ci sono molte contraddizioni. (…) Più volte hanno cercato di politicizzare il nostro processo. Diversi avvocati “politici” si sono offerti di difendermi, ma io ho sempre detto di no, qui la politica non c’entra» (Giovanni Scattone). [Ferruccio Sansa, Rep 16/12/2003]
Innocente/2 «Se fossi stato io, l’avrei confessato subito, risparmiandomi mesi di carcere. In assenza di qualsiasi movente, l’unica tesi credibile sarebbe stata quella di un incidente: confessare l’omicidio colposo avrebbe significato, tra patteggiamento e condizionale, uscire dopo pochi giorni. Mi sarebbe convenuto confessare. Anche nell’ipotesi assurda del delitto “gratuito”. Se avessi detto che mi era partito involontariamente un colpo, sarei stato sicuramente creduto o comunque nessuno mi avrebbe potuto smentire. Ancora più assurda, se fossi stato io a sparare, sarebbe stata la posizione di Salvatore Ferraro. Accusandomi, sarebbe uscito subito e definitivamente dal carcere» (Giovanni Scattone). [Giuseppe D’Avanzo, Sette n. 51/52/1998]
Verità «Marta è morta. È stata uccisa da una pallottola. C’è la sua tomba, ci sono i suoi ricordi, c’è la sua figura in tante iniziative pubbliche. Ma ad ucciderla è stato Giovanni Scattone con la complicità di Salvatore Ferraro. Questa è la verità. Storica e processuale. Una verità grande come la memoria di una studentessa, assassinata per gioco all’università» (Tiziana Russo, sorella di Marta).
Matrimonio Giovanni Scattone ha sposato nel 2001 Cinzia Giorgio, detta Giò, caschetto nero, minuta, decisa, originaria di Venosa, Potenza, laureata in Lettere all’Università di Napoli. Lei, invaghitasi di Scattone nel 1998, seguì tutto il processo e, quando lui si fece i diciotto mesi di carcere preventivo a Regina Coeli era una delle tante fan che gli scrivevano: tra le lettere, lunghe poesie su Napoli. Lei ricorda: «Un mio amico, che all’epoca difendeva Salvatore Ferraro, mi parlò di quei due ragazzi che, a suo dire, erano stati ingiustamente accusati. Ho iniziato a scrivere a Giovanni, poi c’è stato il colpo di fulmine».
Milione Il 5 maggio del 2011 il giudice della tredicesima sezione del tribunale civile di Roma, Roberto Parziale, riduce le somme che Scattone e Ferraro dovranno risarcire ai familiari di Marta Russo: da 199 milioni ad un solo milione di euro. [Cds 6/5/2011]
Cavour Nel novembre del 2011 Scattone va a insegnare storia e filosofia al liceo scientifico Cavour di Roma, lo stesso dove si diplomò la ragazza uccisa. Diede le dimissioni dopo una settimana: «Io non lo sapevo che in quel liceo aveva studiato Marta Russo. Quando l’ho saputo era ormai troppo tardi, s’è scatenato un pandemonio, dei ragazzi di estrema destra si sono presentati davanti scuola con uno striscione enorme: “Scattone assassino”. Insomma, impossibile continuare a insegnare, al Cavour come in un’altra scuola. Così, l’unica strada responsabile era rinunciare alla cattedra, almeno per quest’anno... Io non ho ucciso Marta Russo, la sua famiglia però da 14 anni non vuole credermi e io non ci posso più fare niente. Però ho pagato, ho scontato la mia pena e da sei anni faccio supplenze nei licei romani. Anzi mi sento di ringraziare tutte quelle famiglie e quei ragazzi che comunque mi sono stati vicini. Al Cavour facevo nove ore alla settimana di supplenza per meno di 800 euro al mese. Con quelle io e mia moglie Cinzia tiravamo avanti: ora lei proverà a chiedere di fare la commessa in un negozio. Io cercherò di trovare un altro lavoro. Insomma, ci arrangeremo». Già polemiche nell’ottobre 2005 quando fu nominato supplente di Storia e filosofia al liceo scientifico Primo Levi di Roma. Lui si giustificò: «Devo lavorare per risarcire i genitori di Marta Russo».
Risarcimento Salvatore Ferraro dovrà pagare tutte le spese del giudizio e della detenzione carceraria, circa 300 mila euro: fanno parte della pena, e del resto può lavorare come avvocato e pagare una cifra che, seppure alta, non compromette il recupero e l’inserimento sociale. Lo ha stabilito la Cassazione, rigettando il suo ricorso contro l’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Roma che confermava il suo debito di 300.468 euro. Il giudice aveva ritenuto che Ferraro, condannato in via definitiva a 4 anni e 2 mesi, non fosse indigente, anzi disponesse di «un’attività lavorativa idonee a garantirgli una certa agiatezza». [il Fatto Quotidiano 19/4/2013]