Repubblica.it, sabato 10 novembre 2001, 27 giugno 2013
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Maradona dà l’addio al calcio (articolo del 10/11/2001
Repubblica.it, sabato 10 novembre 2001
Non è un addio al dieci del mondo nel giorno 10, in cui nessuno trova le parole. È il funerale di un faraone che vuole portare tutti con sé nella tomba, facendo un gran casino, con la gente che dice sì, portaci, ti seguiremo e batte i piedi, canta, suona i tamburi. Ha perso la testa anche il cielo: un po’ di sole, un po’ di nuvole, un po’ di pioggia, un po’ di vento.
«Oggi siamo tutti numeri 10», grida la gente. È un popolo che non vuole essere abbandonato, che non vuole seppellire la sua ascia da guerra. Evita da lassù capirà. Dicevano che la crisi che morde il paese avrebbe svuotato lo stadio, la gente non aveva i soldi per il biglietto «perché il mio popolo quanto a sofferenze viene solo dopo quello afgano» e invece il Boca, la casa di Diego, è strapiena. Come se oggi ci si giocasse la vita. Con tutta la passione, la retorica e gli slogan dell’addio: «Tutto quello che Diego ha fatto, lo ha fatto pensando a voi, è arrivato il momento per noi di pensare a lui». «Non ritirate la maglia numero 10, ritirate per sempre il pallone». «Pelé il re Diego è dio». Cantano i gruppi moderni, quelli dalla vita spericolata, che piacciono tanto a Maradona, come Juanse, dei Ratones Paranoicos, dei Topi Paranoici.
Non è solo calcio rozzo o troppo zucchero filato per gente che non ha nient’altro. I libri di Maradona e su Maradona stanno in tutte le librerie importanti, in bella mostra tra quelli di Cortazar, Sabato e Casares. Si vede che si può pensare e scrivere bene anche con i piedi. È stata tradotta anche una vecchia e scherzosa pagella di Gianni Mura dove Maradona vince su Platini che lo batte solo alle voci: frequentazioni gastronomiche, destro, ironia. Diego gioca con la sua Nazionale, con Veron, Samuel, Sorin, Zanetti, di fronte al Resto del Mondo con Ferrara, Francescoli, Suker, Cantona, Matthaeus. E tutto lo stadio canta l’inno e improvvisamente vien fuori il sole e Diego, che è arrivato un’ora prima, trascinando i piedi, con il passo e la faccia stanca, sembra uno appena uscito dal sepolcro. Eroe di un paese tragico e antico, dove gli scrittori come Osvaldo Bayer, costretto all’esilio dalla dittatura, hanno fatto i marinai «perché non sei degno di raccontare se non sei andato per mare, peccato che mi abbiano sbarcato appena ho organizzato uno sciopero». Dove Carlos Monzon che già si era fatto sparare da una donna, strangolò e spaccò la testa alla sua amata Alicia Muniz, e sempre per amore mandò dei compari all’obitorio per reciderle i muscoli del collo. Dove Hugo Orlando Gatti detto il Pazzo, portiere del Boca e della Nazionale, con la sua aria da playboy appena uscito da Saint Tropez, andava tra i pali portandosi una bottiglia di whisky, perché aveva paura e soffriva il freddo. «Ciccione, dove credi di andare?» chiese la prima volta a Maradona e Diego gliene fece quattro.
L’ha detto anche Zagallo, vecchio e glorioso ct del Brasile: «Diavolo non venite a dirmi che un tappo come lui è nato per il calcio, per questo Maradona va onorato, è stato eccezionale». Il livore degli spagnoli quando Diego nell’82 arrivò a Barcellona: «È un bluff, è un’invenzione degli argentini». Le risse nei bar dove gli gridavano «sudacas», terrone, quelle sul campo dove il basco Goicoechea entrò senza pietà sulla caviglia destra, l’aggressione nella finale di Coppa del Re nell’84 quando un giocatore del Bilbao gli mollò un calcio a gamba tesa sulla costole. Paga, meridionale che vieni a rubarci i soldi. Gli ottantamila a Napoli per il suo arrivo al San Paolo il 5 luglio dell’84, i cori dell’altra Italia: «Napoletani, lavatevi». E lui orgoglioso: «Credono di farmi un dispiacere chiamandomi negro? Ma io sono nato negro e ne sono onorato». Il primo scudetto nell’87, «da lavoratori, perché il Napoli lo avevamo fatto noi, dal basso». Le incomprensioni e la rottura con Ottavio Bianchi: «C’è un esercizio che voglio che lei faccia, io le tiro la palla e lei deve buttarsi a terra per spazzare con il sinistro e con il destro». La risposta di Diego. «Questo io non lo faccio, io non mi butto a terra io sono uno che viene buttato a terra dagli avversari». «Bene, avremo problemi tutto l’anno». «Bene, e tu te ne dovrai andare». I Mondiali in Italia nel ’90 quando a Milano Maradona fu fischiato dal primo minuto e i giocatori del Camerun non lo marcavano, ma lo abbattevano. E la dolce vita a Roma, prima che il ct Bilardo chiudesse il ritiro a Trigoria diventato ormai un santuario. «Da domani non entra più nessuno, né giornalisti né familiari. E se viene il Papa, beh non entra nemmeno lui». Entrò invece Osvaldo Soriano e Maradona per lui palleggiò con un’arancia, Soriano era felice.
Diego: 353 gol, solo sei con il piede destro. C’erano tutta la sua famiglia, allo stadio. I suoi gol migliori, come dice lui: le figlie Dalma Nerea e Giannina Dinorah, sua madre donna Tota, suo padre don Diego. La moglie Claudia, tradita e ritradita ma mai abbandonata, come poi lui disse a Playboy «la vidi da dietro, aveva un bel culo». Chissà chi ha ragione in un giorno così, se Diego che con la pancia che gli esce fuori incita il pubblico o Brecht, che non aveva mai seguito un mondiale, con quella sua frase limpida «beato il popolo che non ha bisogno di eroi» o Soriano che scriveva che «A Dio no le gusta el futbol. Per questo il paese va come va, di merda». E chissà se a volte comportarsi da animali libera dal dolore di essere uomini.
Finisce 6-3 per l’Argentina, ma il tempo sembra fermarsi quando al 61’ è rigore: Maradona è solo davanti a Hiuguita, ride e segna, da patriarca che non ha più conti in sospeso, ma pesa così tanto che per sollevarlo ci si mettono in sette. Si toglie la maglia della Nazionale, sotto ha quella del Boca, finirà con quella e si metterà a piangere come un bambino. Ne segnerà un altro di rigore, all’ultimo minuto, alla stessa maniera. C’è Pelé in tribuna, ma non c’è Fidel. Pelé cortese ed elegante come sempre, quello che Maradona non è mai voluto diventare, un uomo rispettabile. Pelé che a Rio quando Diego era ragazzo e doveva vincere il mondiale giovanile gli disse: «Non ti credere mai il migliore, anche se lo sei, il giorno che ti ci sentirai smetterai di esserlo». Ignorando che Diego proprio quello voleva: stare in cima, sentirsi in cima, godere senza misura di se stesso, come molti di quelli che sono nati in una famiglia numerosa, sotto un tetto di latta, due stanze e cucina. Il troppo di Diego oggi sono i chili in più, la lentezza, un cuore scassato, il passo incerto, la fatica di sentirsi vivo, una punizione che non buca la barriera. E no, spettatore, tira via quel binocolo. Così non vale. Come disse a teatro una vecchia Josephine Baker a chi la scrutava con la lente: «Non farlo, mantieni l’illusione». E come ora dice Diego in lacrime: «Il calcio è la cosa più bella del mondo, ma io mi sono sbagliato, e ho pagato». Addio Diego, a mai più.
Non è un addio al dieci del mondo nel giorno 10, in cui nessuno trova le parole. È il funerale di un faraone che vuole portare tutti con sé nella tomba, facendo un gran casino, con la gente che dice sì, portaci, ti seguiremo e batte i piedi, canta, suona i tamburi. Ha perso la testa anche il cielo: un po’ di sole, un po’ di nuvole, un po’ di pioggia, un po’ di vento.
«Oggi siamo tutti numeri 10», grida la gente. È un popolo che non vuole essere abbandonato, che non vuole seppellire la sua ascia da guerra. Evita da lassù capirà. Dicevano che la crisi che morde il paese avrebbe svuotato lo stadio, la gente non aveva i soldi per il biglietto «perché il mio popolo quanto a sofferenze viene solo dopo quello afgano» e invece il Boca, la casa di Diego, è strapiena. Come se oggi ci si giocasse la vita. Con tutta la passione, la retorica e gli slogan dell’addio: «Tutto quello che Diego ha fatto, lo ha fatto pensando a voi, è arrivato il momento per noi di pensare a lui». «Non ritirate la maglia numero 10, ritirate per sempre il pallone». «Pelé il re Diego è dio». Cantano i gruppi moderni, quelli dalla vita spericolata, che piacciono tanto a Maradona, come Juanse, dei Ratones Paranoicos, dei Topi Paranoici.
Non è solo calcio rozzo o troppo zucchero filato per gente che non ha nient’altro. I libri di Maradona e su Maradona stanno in tutte le librerie importanti, in bella mostra tra quelli di Cortazar, Sabato e Casares. Si vede che si può pensare e scrivere bene anche con i piedi. È stata tradotta anche una vecchia e scherzosa pagella di Gianni Mura dove Maradona vince su Platini che lo batte solo alle voci: frequentazioni gastronomiche, destro, ironia. Diego gioca con la sua Nazionale, con Veron, Samuel, Sorin, Zanetti, di fronte al Resto del Mondo con Ferrara, Francescoli, Suker, Cantona, Matthaeus. E tutto lo stadio canta l’inno e improvvisamente vien fuori il sole e Diego, che è arrivato un’ora prima, trascinando i piedi, con il passo e la faccia stanca, sembra uno appena uscito dal sepolcro. Eroe di un paese tragico e antico, dove gli scrittori come Osvaldo Bayer, costretto all’esilio dalla dittatura, hanno fatto i marinai «perché non sei degno di raccontare se non sei andato per mare, peccato che mi abbiano sbarcato appena ho organizzato uno sciopero». Dove Carlos Monzon che già si era fatto sparare da una donna, strangolò e spaccò la testa alla sua amata Alicia Muniz, e sempre per amore mandò dei compari all’obitorio per reciderle i muscoli del collo. Dove Hugo Orlando Gatti detto il Pazzo, portiere del Boca e della Nazionale, con la sua aria da playboy appena uscito da Saint Tropez, andava tra i pali portandosi una bottiglia di whisky, perché aveva paura e soffriva il freddo. «Ciccione, dove credi di andare?» chiese la prima volta a Maradona e Diego gliene fece quattro.
L’ha detto anche Zagallo, vecchio e glorioso ct del Brasile: «Diavolo non venite a dirmi che un tappo come lui è nato per il calcio, per questo Maradona va onorato, è stato eccezionale». Il livore degli spagnoli quando Diego nell’82 arrivò a Barcellona: «È un bluff, è un’invenzione degli argentini». Le risse nei bar dove gli gridavano «sudacas», terrone, quelle sul campo dove il basco Goicoechea entrò senza pietà sulla caviglia destra, l’aggressione nella finale di Coppa del Re nell’84 quando un giocatore del Bilbao gli mollò un calcio a gamba tesa sulla costole. Paga, meridionale che vieni a rubarci i soldi. Gli ottantamila a Napoli per il suo arrivo al San Paolo il 5 luglio dell’84, i cori dell’altra Italia: «Napoletani, lavatevi». E lui orgoglioso: «Credono di farmi un dispiacere chiamandomi negro? Ma io sono nato negro e ne sono onorato». Il primo scudetto nell’87, «da lavoratori, perché il Napoli lo avevamo fatto noi, dal basso». Le incomprensioni e la rottura con Ottavio Bianchi: «C’è un esercizio che voglio che lei faccia, io le tiro la palla e lei deve buttarsi a terra per spazzare con il sinistro e con il destro». La risposta di Diego. «Questo io non lo faccio, io non mi butto a terra io sono uno che viene buttato a terra dagli avversari». «Bene, avremo problemi tutto l’anno». «Bene, e tu te ne dovrai andare». I Mondiali in Italia nel ’90 quando a Milano Maradona fu fischiato dal primo minuto e i giocatori del Camerun non lo marcavano, ma lo abbattevano. E la dolce vita a Roma, prima che il ct Bilardo chiudesse il ritiro a Trigoria diventato ormai un santuario. «Da domani non entra più nessuno, né giornalisti né familiari. E se viene il Papa, beh non entra nemmeno lui». Entrò invece Osvaldo Soriano e Maradona per lui palleggiò con un’arancia, Soriano era felice.
Diego: 353 gol, solo sei con il piede destro. C’erano tutta la sua famiglia, allo stadio. I suoi gol migliori, come dice lui: le figlie Dalma Nerea e Giannina Dinorah, sua madre donna Tota, suo padre don Diego. La moglie Claudia, tradita e ritradita ma mai abbandonata, come poi lui disse a Playboy «la vidi da dietro, aveva un bel culo». Chissà chi ha ragione in un giorno così, se Diego che con la pancia che gli esce fuori incita il pubblico o Brecht, che non aveva mai seguito un mondiale, con quella sua frase limpida «beato il popolo che non ha bisogno di eroi» o Soriano che scriveva che «A Dio no le gusta el futbol. Per questo il paese va come va, di merda». E chissà se a volte comportarsi da animali libera dal dolore di essere uomini.
Finisce 6-3 per l’Argentina, ma il tempo sembra fermarsi quando al 61’ è rigore: Maradona è solo davanti a Hiuguita, ride e segna, da patriarca che non ha più conti in sospeso, ma pesa così tanto che per sollevarlo ci si mettono in sette. Si toglie la maglia della Nazionale, sotto ha quella del Boca, finirà con quella e si metterà a piangere come un bambino. Ne segnerà un altro di rigore, all’ultimo minuto, alla stessa maniera. C’è Pelé in tribuna, ma non c’è Fidel. Pelé cortese ed elegante come sempre, quello che Maradona non è mai voluto diventare, un uomo rispettabile. Pelé che a Rio quando Diego era ragazzo e doveva vincere il mondiale giovanile gli disse: «Non ti credere mai il migliore, anche se lo sei, il giorno che ti ci sentirai smetterai di esserlo». Ignorando che Diego proprio quello voleva: stare in cima, sentirsi in cima, godere senza misura di se stesso, come molti di quelli che sono nati in una famiglia numerosa, sotto un tetto di latta, due stanze e cucina. Il troppo di Diego oggi sono i chili in più, la lentezza, un cuore scassato, il passo incerto, la fatica di sentirsi vivo, una punizione che non buca la barriera. E no, spettatore, tira via quel binocolo. Così non vale. Come disse a teatro una vecchia Josephine Baker a chi la scrutava con la lente: «Non farlo, mantieni l’illusione». E come ora dice Diego in lacrime: «Il calcio è la cosa più bella del mondo, ma io mi sono sbagliato, e ho pagato». Addio Diego, a mai più.
Emanuela Audisio