Rolling Stone, luglio 2011, 10 giugno 2013
Tags : Fabrizio De André
Sua Santità Fabrizio De André
Rolling Stones, luglio 2011
Partiamo da tre nomi. Hendrix, Joplin, Morrison. Chi legge Rolling Stone sa a cosa alludiamo – ma proviamo a rilanciare con una triade italiana: Mina, Battisti, De André. Qui la morte non c’entra, e non solo perché Mina è ancora tra noi, ma perché i tre sono stati mito già in vita (con Celentano; gli altri, anche chi ha fatto cose eccelse o venduto pure di più, non sono muri portanti dell’edificio). Tutti e tre giunti al mito tramite un’altra forma di scomparsa: quella dal pubblico. E arduo far capire oggi quanto la cosa, a metà anni ‘70, sconvolgesse questo Paese. Peraltro in Italia i tre nomi succitati avevano una popolarità di massa che in Usa le “tre J” non avevano. Il caso di De André è il più eclatante. Perché fu sottratto al pubblico non una, ma tre volte.
La prima, per scelta. Rileggendo i giornali d’epoca si evince che la cosa faceva impazzire i media. Due esempi: nel 1971 L’Intrepido, popolarissimo settimanale a fumetti, gli dedicò alcune tavole beffarde in rima (“Or fa il timido e lo schivo, si dà arie di anti-divo, non partecipa a serate, teme forse le patate?”). Nel ’78, sul Messaggero, Dario Salvatori scriveva: “In tempi di spettacolo totale è difficile comprendere le scelte di un uomo che usa i canali di una professione pubblica senza-correre il rischio dell’esposizione. Diciamo pure una scelta furbesca, antipatica, fatta a tavolino...”. Ma si badi: De André evitava i concerti per dichiarato disagio verso il pubblico, ma non si negava ad alcun giornale: concedeva interviste alle testate più incredibili e variegate (con buona pace di certi immensi artisti contemporanei da mille cd venduti, le cui preziose minchiate gli uffici stampa concedono solo a papà Corriere, mamma Repubblica e zia Vanity).
Smentendo il frizzantello Salvatori, alla fine del 1978 De André si espose, nel celebre tour con la Pfm. Qualche mese dopo la fine della tournée, fu però sottratto al pubblico per la seconda volta, rapito da banditi in Sardegna, per quattro mesi.
Trascorsi 20 anni da quella drammatica esperienza, nel corso dell’estate del 1998 un De André molto mutato dal punto di vista personale e artistico interruppe un tour dopo un anno e mezzo denso di concerti, a causa della malattia che nel gennaio del 1999 lo sottrasse per la terza volta al pubblico. Al momento della dipartita, il lutto non fu paragonabile a quello che aveva attraversato la nazione alla morte del più popolare (nei vari sensi del termine) Lucio Battisti – tenete a mente questo nome, lo risentirete. Ma col tempo, è stato un crescendo. Al punto che, oggi, nessuno in Italia gode della reverenza tributata a Fabrizio De André. È una gara a chi meglio lo rievoca, rilegge, cita, analizza, svela... e canta. «Ognuno ha il suo De André», dice Eugenio Finardi, che lo conobbe davvero bene, «ed è giusto così».
Nel coro, poche voci controcorrente. Su tutte, una è particolarmente riconoscibile. Quella dello stesso De André. Che per anni ribadì: «Sono un bene di consumo, ormai è il mio mestiere. Raggiunto il mio stile mi sono un po’ fossilizzato. Se la gente vuole questo, non vedo perché non darglielo». [Amica, 1971]. «Con una fava pigliavamo più piccioni: facevamo gli scapigliati, i colti, i demistificatori, i protestatori, dicevamo la parola “puttana” in una canzone, lasciando poi intendere che conoscevamo la musica antica e la Storia». «Sono un piccolo borghese e faccio canzoni solo per guadagnare». [l’Unità, 1978].
Lucido nell’autocritica, ma confuso in politica. Oltre a spargere ovunque il concetto - e lo status - di “piccolo borghese” come fosse la tana che libera tutti, che giustifica ogni cosa («Mai stato un rivoluzionario, combatterei per i cioccolatini, per il superfluo come tutti i borghesi») inciampò in uscite impopolari, come: «Nella scuola pubblica mio figlio si scontrerebbe con la società reale e le sue contraddizioni, ma nella scuola privata può studiare più tranquillo e ottenere tutti gli strumenti che gli saranno necessari per sopravvivere in un mondo che diventerà un ordinato nazismo» [Domenica del Corriere, 1974]. Il suo concept album politicamente impegnato Storia di un impiegato peraltro non andò a buon fine: dopo aver detto che era il suo disco più onesto, al contrario di «Spoon River, commerciale e scontato», di fronte agli attacchi della critica militante ci ripensò: «Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di non esser riuscito a spiegarmi. Quando è uscito volevo bruciare il disco». Ma dopo l’album «anarco-insurrezionalista», anche un’iniziativa opposta ebbe reazioni acide: l’esibizione del 1975 per il pubblico chic della Bussola di Viareggio (esattamente di Focette).
Se già Giorgio Gaber si era chiesto se il collega fosse «liberale o extraparlamentare», Guccini fu tagliente: “Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni”, alludendo poi, nello stesso lp, a Marinella, che ormai faceva “la vita in balera”. De André spiegò al settimanale Bolero che voleva fare abbastanza serate da guadagnare 300 milioni di lire e costruirsi uno studio alle Maldive. A Ciao 2001 disse invece: «Non mi vergogno di chiedere cachet consumistici per cantare in locali consumistici». Poi, a Oggi confessò che doveva pagare la nuova, grande tenuta in Gallura.
Sul piano personale, negli anni ‘70 mostrò il peggio del suo carattere. Che non era mai stato squisito: alcolizzato dal 1958 al 1985 (una-due bottiglie di whisky al giorno, precisò). Un tantino peso sul piano sentimentale, «Ho tradito mia moglie. Ma è come se non l’avessi mai fatto. E lei lo sa» [Bolero, 1971]. «In Gallura io e Dori dormiamo in camere separate, così io posso andare a letto alle 4 di notte (...) Il matrimonio porta alcune delusioni. Ma tra noi c’è grande tolleranza reciproca. Penso sia già molto». [Specchio, 1990]. Quasi nietzschanamente senza freni nel comportamento: a TV Sorrisi e Canzoni nel ‘78 raccontò di quando tirava «merda di piccione nelle pentole della massaia del piano di sotto» e di come si era tolto la verginità a 11 anni con una capra. Violento, come quando da ragazzo buttò la madre contro un vetro e anche vedendola sanguinare si fece menare dal padre piuttosto che scusarsi. Greve col prossimo, come da aneddoto di Paolo Villaggio sull’automobilista che lo aiuta dopo un incidente, e per tutta gratitudine si becca un commento sul suo alito: «Ma lei ha mangiato della merda! Paolo, che cazzo ci facciamo qui con questo?».
Ma alla fine degli anni ‘70, una rigenerazione partì nel modo più brutale. Il sequestro fu una prova terribile: ammise poi di essere crollato e di essersi appoggiato a Dori Ghezzi, tenendo però sempre nascosta una latta di tonno per tagliarsi le vene. Sorvegliati da un metro, incappucciati, incatenati, i dialoghi rarefatti, al freddo, su frasche e sterpi, senza riparo dalla pioggia, con l’opportunità di far l’amore ogni tanto in modo più disperato che amoroso, si ritrovò sottomesso (parole sue, a Gente, 1980) ai rapitori, mentre Dori li mandava affanculo. Confessò poi di aver modificato in quel periodo il proprio rigido ateismo. Di certo, tornò con le idee molto più chiare, perché «uno capisce quali sono i veri valori della vita».
Il nuovo De André rimproverava al Manifesto di non occuparsi veramente dei sottoproletari. E quanto all’essere prodotto di consumo, obiettava: «Bisogna vedere se vendiamo carne fresca o carne marcia. Viaggiamo in un’economia capitalistica e speriamo che il fottuto capitalismo regga finché non ci sarà qualcosa di nuovo o diverso». E basta snobismo: «Presentiamoci anche noi cantautori a Sanremo come concorrenti, per far conoscere una canzone italiana diversa».
Negli anni ‘90 spezzò persino una lancia per il governo Berlusconi: «E giusto che il governo faccia il suo mestiere. Mi rassicura che in questo governo di destra ci sia la Lega, un movimento sicuramente democratico». Svelò un voto per Partito Sardo d’Azione e Sardigna Natzione.
Ma il cambiamento fu soprattutto musicale. Gli stilemi cantautorali e il declamare intimidatorio, i medievalismi e le orchestrone lasciarono il posto a una visione finalmente contemporanea: l’immersione nel fiume etnico in cui nel 1984 ancora pochi si erano buttati (Peter Gabriel e David Byrne, ma va riconosciuto che da noi Demetrio Stratos, Battiato e il Battisti di Anima latina c’erano arrivati pure prima). «In Creuza de ma per la prima volta nella mia vita ho deciso di non fare il cantautore ma il cantante, mi sono preoccupato soprattutto dei suoni. Ho rinunciato al bel canto per cantare come u massacàn, il muratore. Prima, era innegabile l’influsso di Brassens, uno che non concedeva assolutamente nulla alla scena né alla confezione. Per fortuna Pagani mi ha impedito di fare la solita scansione metrica brassensiana, rompicoglioni, tedesca se vogliamo».
L’incontro con Mauro Pagani completava la rivoluzione avviata dalla Pfm. Racconta Franz Di Cioccio: «Si era ritirato, non voleva più vedere i suoi dischi messi in discussione, preferiva tori e vacche. Ma nel 1978 venne a sentirci a Nuoro. Ci vide in camerino, contenti dopo il concerto. Forse provò invidia. Penso avesse paura di invecchiare nel suo eremo sardo. Una volta mi disse: “Mentre tutti facevano il ‘68, io stavo in casa”».
Ancora parole di De André: «All’epoca ero tormentato da interrogativi sul mio ruolo, il mio lavoro, l’assenza di nuove motivazioni. La Pfm mi diede una spinta verso il futuro». La Pfm (all’epoca i Quelli), putacaso, l’aveva portata via a Battisti. Proprio lui. Il suo opposto. «Quando ci propose di suonare ne La buona novella eravamo in soggezione, lui era più anziano di noi e già famoso. Noi all’epoca suonavamo nei dischi di Lucio, che era più della nostra generazione». Una strana condivisione, quella dei Quelli, perché proprio tra Battisti e De André si consuma lo scisma della musica italiana, la divisione tra chi dava preminenza al testo e chi alla musica. Se De André era un contenitore per le scelte musicali di chi si trovava lì al momento (Reverberi, Bubola, Pfm, Pagani, Fossati...), Battisti era un contenitore per i testi di Mogol e poi di Panella. Tra i due c’era poco amore. Battisti, nel ‘70 ribadì a Oggi una sentenza già di Gaber («le sue canzoni sono temini da liceali») rincarando: «Trovo i suoi testi interessanti ma piuttosto goliardici, dato che piacciono solo agli studentelli. La parte musicale poi è solo accompagnamento (...). Io più che gli italiani ascolto Bob Dylan, Ray Charles, Otis Redding, i Beatles, Donovan, i Led Zeppelin». Un anno dopo, ad Amica, De André obiettò che la musica italiana non doveva subire l’influenza anglosassone e che Battisti era un ottimo musicista e molto all’avanguardia, «ma in fondo ricalcava gli esempi di James Brown e Joe Cocker». Da notare che De André di solito aveva una parola buona e sincera curiosità per tutti i colleghi: doveva proprio soffrirlo. In ogni caso, per lui niente Led Zeppelin ma Medioevo a go-go, a causa di «un professore che al liceo ci aveva presentato quel periodo come il migliore della Storia».
Così il primo De André, pur irresistibile per gli amanti del vintage, suona datatissimo, conservatore rispetto alle spinte moderniste del pop dell’epoca; quando poi la buttava in madrigale, dando di gomito a una generazione di iscritti alla facoltà di Lettere, con la sua influenza ha appiattito troppa musica italiana smussandone ricerca e istinto. Del rock, o in genere delle novità, a lungo ebbe timore, lo si può dedurre da quanto ci dice oggi Massimo Bubola: «A differenza sua ero un chitarrista elettrico e rappresentavo un mondo di cui aveva un po’ di paura perché incognito. Non amava certo gli Stones, ma gli chansonnier... Ancor oggi i giornalisti mi chiedono quanto Faber mi abbia influenzato, ma penso sia stato il contrario».
Aggiunge Finardi, scelto da De André come robusta spalla rock e militante nella fase delle contestazioni ai cantautori: «Lui era legato alla tradizione francese, poi in genere lasciava spazio agli arrangiamenti di persone con l’inclinazione per la colonna sonora in grande stile: tipo Reverberi, o Piovani. Io ero in un’ala che ascoltava rock o anche fusion, i Weather Report; lui, il rock credo non l’abbia mai realmente ascoltato. Così non parlavamo mai di musica, ma di politica. Lui era anarchico, io del Pci. Le nostre accese discussioni colpirono suo figlio Cristiano, che a 14 anni scappò di casa per venire da me accusando Fabrizio di essere un borghese reazionario: lo chiamai e lo tranquillizzai. Politica a parte, eravamo in buoni rapporti. A lui piaceva chi lo affrontava, chi rispondeva alle provocazioni. Detestava essere trattato da sacra reliquia».
Sacra reliquia? Ci conosceva bene, De André: noi, popolo che si commuove per i vinti da lui cantati, poi vota i vincenti. E avrebbe sorriso del destino di esser di tutti: di Gabry Ponte e De Gregori, Frankie Hi-Nrg e Dolcenera, Fazio e Morgan, Grillo e Mollica, Villaggio e Pivano. Di certo, ha saputo cogliere frammenti di un mondo che avevamo nel cuore e non sapevamo esprimere con le parole” (completate pure: “Dai diamanti non nasce niente...”. “Si sa che la gente da buoni consigli...”. “Continuerai a farti scegliere...”. “E stato meglio lasciarci che..”. “Anche se vi credete assolti...”. “Duve gh’è pei...”. “Lo Stato che fa? Getta la spugna con...”). Ma musicalmente, fu un po’ - come dire? – piccolo borghese.
Partiamo da tre nomi. Hendrix, Joplin, Morrison. Chi legge Rolling Stone sa a cosa alludiamo – ma proviamo a rilanciare con una triade italiana: Mina, Battisti, De André. Qui la morte non c’entra, e non solo perché Mina è ancora tra noi, ma perché i tre sono stati mito già in vita (con Celentano; gli altri, anche chi ha fatto cose eccelse o venduto pure di più, non sono muri portanti dell’edificio). Tutti e tre giunti al mito tramite un’altra forma di scomparsa: quella dal pubblico. E arduo far capire oggi quanto la cosa, a metà anni ‘70, sconvolgesse questo Paese. Peraltro in Italia i tre nomi succitati avevano una popolarità di massa che in Usa le “tre J” non avevano. Il caso di De André è il più eclatante. Perché fu sottratto al pubblico non una, ma tre volte.
La prima, per scelta. Rileggendo i giornali d’epoca si evince che la cosa faceva impazzire i media. Due esempi: nel 1971 L’Intrepido, popolarissimo settimanale a fumetti, gli dedicò alcune tavole beffarde in rima (“Or fa il timido e lo schivo, si dà arie di anti-divo, non partecipa a serate, teme forse le patate?”). Nel ’78, sul Messaggero, Dario Salvatori scriveva: “In tempi di spettacolo totale è difficile comprendere le scelte di un uomo che usa i canali di una professione pubblica senza-correre il rischio dell’esposizione. Diciamo pure una scelta furbesca, antipatica, fatta a tavolino...”. Ma si badi: De André evitava i concerti per dichiarato disagio verso il pubblico, ma non si negava ad alcun giornale: concedeva interviste alle testate più incredibili e variegate (con buona pace di certi immensi artisti contemporanei da mille cd venduti, le cui preziose minchiate gli uffici stampa concedono solo a papà Corriere, mamma Repubblica e zia Vanity).
Smentendo il frizzantello Salvatori, alla fine del 1978 De André si espose, nel celebre tour con la Pfm. Qualche mese dopo la fine della tournée, fu però sottratto al pubblico per la seconda volta, rapito da banditi in Sardegna, per quattro mesi.
Trascorsi 20 anni da quella drammatica esperienza, nel corso dell’estate del 1998 un De André molto mutato dal punto di vista personale e artistico interruppe un tour dopo un anno e mezzo denso di concerti, a causa della malattia che nel gennaio del 1999 lo sottrasse per la terza volta al pubblico. Al momento della dipartita, il lutto non fu paragonabile a quello che aveva attraversato la nazione alla morte del più popolare (nei vari sensi del termine) Lucio Battisti – tenete a mente questo nome, lo risentirete. Ma col tempo, è stato un crescendo. Al punto che, oggi, nessuno in Italia gode della reverenza tributata a Fabrizio De André. È una gara a chi meglio lo rievoca, rilegge, cita, analizza, svela... e canta. «Ognuno ha il suo De André», dice Eugenio Finardi, che lo conobbe davvero bene, «ed è giusto così».
Nel coro, poche voci controcorrente. Su tutte, una è particolarmente riconoscibile. Quella dello stesso De André. Che per anni ribadì: «Sono un bene di consumo, ormai è il mio mestiere. Raggiunto il mio stile mi sono un po’ fossilizzato. Se la gente vuole questo, non vedo perché non darglielo». [Amica, 1971]. «Con una fava pigliavamo più piccioni: facevamo gli scapigliati, i colti, i demistificatori, i protestatori, dicevamo la parola “puttana” in una canzone, lasciando poi intendere che conoscevamo la musica antica e la Storia». «Sono un piccolo borghese e faccio canzoni solo per guadagnare». [l’Unità, 1978].
Lucido nell’autocritica, ma confuso in politica. Oltre a spargere ovunque il concetto - e lo status - di “piccolo borghese” come fosse la tana che libera tutti, che giustifica ogni cosa («Mai stato un rivoluzionario, combatterei per i cioccolatini, per il superfluo come tutti i borghesi») inciampò in uscite impopolari, come: «Nella scuola pubblica mio figlio si scontrerebbe con la società reale e le sue contraddizioni, ma nella scuola privata può studiare più tranquillo e ottenere tutti gli strumenti che gli saranno necessari per sopravvivere in un mondo che diventerà un ordinato nazismo» [Domenica del Corriere, 1974]. Il suo concept album politicamente impegnato Storia di un impiegato peraltro non andò a buon fine: dopo aver detto che era il suo disco più onesto, al contrario di «Spoon River, commerciale e scontato», di fronte agli attacchi della critica militante ci ripensò: «Era la prima volta che mi dichiaravo politicamente e so di non esser riuscito a spiegarmi. Quando è uscito volevo bruciare il disco». Ma dopo l’album «anarco-insurrezionalista», anche un’iniziativa opposta ebbe reazioni acide: l’esibizione del 1975 per il pubblico chic della Bussola di Viareggio (esattamente di Focette).
Se già Giorgio Gaber si era chiesto se il collega fosse «liberale o extraparlamentare», Guccini fu tagliente: “Colleghi cantautori, eletta schiera, che si vende alla sera per un po’ di milioni”, alludendo poi, nello stesso lp, a Marinella, che ormai faceva “la vita in balera”. De André spiegò al settimanale Bolero che voleva fare abbastanza serate da guadagnare 300 milioni di lire e costruirsi uno studio alle Maldive. A Ciao 2001 disse invece: «Non mi vergogno di chiedere cachet consumistici per cantare in locali consumistici». Poi, a Oggi confessò che doveva pagare la nuova, grande tenuta in Gallura.
Sul piano personale, negli anni ‘70 mostrò il peggio del suo carattere. Che non era mai stato squisito: alcolizzato dal 1958 al 1985 (una-due bottiglie di whisky al giorno, precisò). Un tantino peso sul piano sentimentale, «Ho tradito mia moglie. Ma è come se non l’avessi mai fatto. E lei lo sa» [Bolero, 1971]. «In Gallura io e Dori dormiamo in camere separate, così io posso andare a letto alle 4 di notte (...) Il matrimonio porta alcune delusioni. Ma tra noi c’è grande tolleranza reciproca. Penso sia già molto». [Specchio, 1990]. Quasi nietzschanamente senza freni nel comportamento: a TV Sorrisi e Canzoni nel ‘78 raccontò di quando tirava «merda di piccione nelle pentole della massaia del piano di sotto» e di come si era tolto la verginità a 11 anni con una capra. Violento, come quando da ragazzo buttò la madre contro un vetro e anche vedendola sanguinare si fece menare dal padre piuttosto che scusarsi. Greve col prossimo, come da aneddoto di Paolo Villaggio sull’automobilista che lo aiuta dopo un incidente, e per tutta gratitudine si becca un commento sul suo alito: «Ma lei ha mangiato della merda! Paolo, che cazzo ci facciamo qui con questo?».
Ma alla fine degli anni ‘70, una rigenerazione partì nel modo più brutale. Il sequestro fu una prova terribile: ammise poi di essere crollato e di essersi appoggiato a Dori Ghezzi, tenendo però sempre nascosta una latta di tonno per tagliarsi le vene. Sorvegliati da un metro, incappucciati, incatenati, i dialoghi rarefatti, al freddo, su frasche e sterpi, senza riparo dalla pioggia, con l’opportunità di far l’amore ogni tanto in modo più disperato che amoroso, si ritrovò sottomesso (parole sue, a Gente, 1980) ai rapitori, mentre Dori li mandava affanculo. Confessò poi di aver modificato in quel periodo il proprio rigido ateismo. Di certo, tornò con le idee molto più chiare, perché «uno capisce quali sono i veri valori della vita».
Il nuovo De André rimproverava al Manifesto di non occuparsi veramente dei sottoproletari. E quanto all’essere prodotto di consumo, obiettava: «Bisogna vedere se vendiamo carne fresca o carne marcia. Viaggiamo in un’economia capitalistica e speriamo che il fottuto capitalismo regga finché non ci sarà qualcosa di nuovo o diverso». E basta snobismo: «Presentiamoci anche noi cantautori a Sanremo come concorrenti, per far conoscere una canzone italiana diversa».
Negli anni ‘90 spezzò persino una lancia per il governo Berlusconi: «E giusto che il governo faccia il suo mestiere. Mi rassicura che in questo governo di destra ci sia la Lega, un movimento sicuramente democratico». Svelò un voto per Partito Sardo d’Azione e Sardigna Natzione.
Ma il cambiamento fu soprattutto musicale. Gli stilemi cantautorali e il declamare intimidatorio, i medievalismi e le orchestrone lasciarono il posto a una visione finalmente contemporanea: l’immersione nel fiume etnico in cui nel 1984 ancora pochi si erano buttati (Peter Gabriel e David Byrne, ma va riconosciuto che da noi Demetrio Stratos, Battiato e il Battisti di Anima latina c’erano arrivati pure prima). «In Creuza de ma per la prima volta nella mia vita ho deciso di non fare il cantautore ma il cantante, mi sono preoccupato soprattutto dei suoni. Ho rinunciato al bel canto per cantare come u massacàn, il muratore. Prima, era innegabile l’influsso di Brassens, uno che non concedeva assolutamente nulla alla scena né alla confezione. Per fortuna Pagani mi ha impedito di fare la solita scansione metrica brassensiana, rompicoglioni, tedesca se vogliamo».
L’incontro con Mauro Pagani completava la rivoluzione avviata dalla Pfm. Racconta Franz Di Cioccio: «Si era ritirato, non voleva più vedere i suoi dischi messi in discussione, preferiva tori e vacche. Ma nel 1978 venne a sentirci a Nuoro. Ci vide in camerino, contenti dopo il concerto. Forse provò invidia. Penso avesse paura di invecchiare nel suo eremo sardo. Una volta mi disse: “Mentre tutti facevano il ‘68, io stavo in casa”».
Ancora parole di De André: «All’epoca ero tormentato da interrogativi sul mio ruolo, il mio lavoro, l’assenza di nuove motivazioni. La Pfm mi diede una spinta verso il futuro». La Pfm (all’epoca i Quelli), putacaso, l’aveva portata via a Battisti. Proprio lui. Il suo opposto. «Quando ci propose di suonare ne La buona novella eravamo in soggezione, lui era più anziano di noi e già famoso. Noi all’epoca suonavamo nei dischi di Lucio, che era più della nostra generazione». Una strana condivisione, quella dei Quelli, perché proprio tra Battisti e De André si consuma lo scisma della musica italiana, la divisione tra chi dava preminenza al testo e chi alla musica. Se De André era un contenitore per le scelte musicali di chi si trovava lì al momento (Reverberi, Bubola, Pfm, Pagani, Fossati...), Battisti era un contenitore per i testi di Mogol e poi di Panella. Tra i due c’era poco amore. Battisti, nel ‘70 ribadì a Oggi una sentenza già di Gaber («le sue canzoni sono temini da liceali») rincarando: «Trovo i suoi testi interessanti ma piuttosto goliardici, dato che piacciono solo agli studentelli. La parte musicale poi è solo accompagnamento (...). Io più che gli italiani ascolto Bob Dylan, Ray Charles, Otis Redding, i Beatles, Donovan, i Led Zeppelin». Un anno dopo, ad Amica, De André obiettò che la musica italiana non doveva subire l’influenza anglosassone e che Battisti era un ottimo musicista e molto all’avanguardia, «ma in fondo ricalcava gli esempi di James Brown e Joe Cocker». Da notare che De André di solito aveva una parola buona e sincera curiosità per tutti i colleghi: doveva proprio soffrirlo. In ogni caso, per lui niente Led Zeppelin ma Medioevo a go-go, a causa di «un professore che al liceo ci aveva presentato quel periodo come il migliore della Storia».
Così il primo De André, pur irresistibile per gli amanti del vintage, suona datatissimo, conservatore rispetto alle spinte moderniste del pop dell’epoca; quando poi la buttava in madrigale, dando di gomito a una generazione di iscritti alla facoltà di Lettere, con la sua influenza ha appiattito troppa musica italiana smussandone ricerca e istinto. Del rock, o in genere delle novità, a lungo ebbe timore, lo si può dedurre da quanto ci dice oggi Massimo Bubola: «A differenza sua ero un chitarrista elettrico e rappresentavo un mondo di cui aveva un po’ di paura perché incognito. Non amava certo gli Stones, ma gli chansonnier... Ancor oggi i giornalisti mi chiedono quanto Faber mi abbia influenzato, ma penso sia stato il contrario».
Aggiunge Finardi, scelto da De André come robusta spalla rock e militante nella fase delle contestazioni ai cantautori: «Lui era legato alla tradizione francese, poi in genere lasciava spazio agli arrangiamenti di persone con l’inclinazione per la colonna sonora in grande stile: tipo Reverberi, o Piovani. Io ero in un’ala che ascoltava rock o anche fusion, i Weather Report; lui, il rock credo non l’abbia mai realmente ascoltato. Così non parlavamo mai di musica, ma di politica. Lui era anarchico, io del Pci. Le nostre accese discussioni colpirono suo figlio Cristiano, che a 14 anni scappò di casa per venire da me accusando Fabrizio di essere un borghese reazionario: lo chiamai e lo tranquillizzai. Politica a parte, eravamo in buoni rapporti. A lui piaceva chi lo affrontava, chi rispondeva alle provocazioni. Detestava essere trattato da sacra reliquia».
Sacra reliquia? Ci conosceva bene, De André: noi, popolo che si commuove per i vinti da lui cantati, poi vota i vincenti. E avrebbe sorriso del destino di esser di tutti: di Gabry Ponte e De Gregori, Frankie Hi-Nrg e Dolcenera, Fazio e Morgan, Grillo e Mollica, Villaggio e Pivano. Di certo, ha saputo cogliere frammenti di un mondo che avevamo nel cuore e non sapevamo esprimere con le parole” (completate pure: “Dai diamanti non nasce niente...”. “Si sa che la gente da buoni consigli...”. “Continuerai a farti scegliere...”. “E stato meglio lasciarci che..”. “Anche se vi credete assolti...”. “Duve gh’è pei...”. “Lo Stato che fa? Getta la spugna con...”). Ma musicalmente, fu un po’ - come dire? – piccolo borghese.
Paolo Madeddu