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 2013  maggio 30 Giovedì calendario

Così è nato il Giornale dell’Arte (int. del 26/5/2013)

Il Sole 24 ore, domenica 26 maggio 2013
Umberto Allemandi è seduto al tavolo della sala riunioni nella sede torinese della sua casa editrice, che si trova dalle parti della Gran Madre. Osserva i suoi “gioielli” posati sul tavolo: campeggia su tutti «Il Giornale dell’Arte», il cui primo numero vide la luce nel maggio 1983, esattamente trent’anni fa. Accanto sono posizionate tutte le testate del network internazionale generato in questi tre decenni dalla testata ammiraglia. Ecco The Art Newspaper, edito a Londra e New York a partire dal 1990, ecco Ta Nea Tis Technes edito in Grecia dal 1992. Accanto a loro ci sono Le Journal des Arts»edito a Parigi dal 1994, lo spagnolo El Periodico del Arte» avviato nel 1997 (ma sospeso nel 2002) e le ultime due nuove “creature”, che Allemandi prende tra le mani con uno sguardo ammiccante, The Art Newspaper Russia nato nel 2012 e The Art Newspaper China uscito questo mese a Pechino. Dottor Allemandi è soddisfatto di tutto ciò?
«Sono soddisfatto ma non sono un dottore – puntualizza sorridendo l’editore –. Molti anni fa, lavorando già dodici ore al giorno, tentai di laurearmi in Scienze politiche approfittando della benevolenza di uno dei miei professori, Norberto Bobbio, che mi fece passare un esame anche se si accorse che non avevo letto le ultime 30 pagine del suo testo: mi promosse egualmente, dietro solenne promessa che le trenta pagine le avrei lette comunque dopo l’esame».

Insomma, non praticò le Scienze politiche. Ma allora che futuro si prospettava per Umberto Allemandi?
«Forse quello di fare giornali. A cinque anni, sfollato ad Asti con la mia famiglia, ho imparato a scrivere prima di andare a scuola. E trovandomi padrone della scrittura mi chiesi che cosa farne: “Quasi quasi faccio un giornale” dissi, e così ho fatto. A cinque anni scrissi e disegnai da solo il mio giornalino, in copia unica, che facevo leggere in cambio di qualche centesimo. Ma la passione continuò negli anni: feci giornalini all’oratorio, al liceo e durante le vacanze al mare (qui pubblicavo ogni sera il resoconto delle gare di biglie sulla spiaggia)».

Ma quando il gioco giovanile di far giornali è diventato un gioco serio?
«Ci sono arrivato seguendo un itinerario. Per pagarmi gli studi, ad Asti, iniziai a lavorare alla rivista Il Dramma fondata da Lucio Ridenti. Poi si prospettò la prima grande occasione della mia vita: Armando Testa mi assunse come copyright nella sua agenzia e con lui realizzammo campagne pubblicitarie destinate a rimanere impresse nell’immaginario degli italiani, come ad esempio quelle legate al Caffè Paulista. Alla fine degli anni Cinquanta venni chiamato da Alberto Bolaffi. Da tre generazioni la sua famiglia curava l’edizione del celebre catalogo filatelico, ma Alberto Bolaffi era interessato a pubblicare nuovi cataloghi dedicati ad altri settori del collezionismo. Realizzai decine di cataloghi, tra cui i Veronelli dei vini e i Bolaffi di arte moderna. Fu un’avventura che durò 23 anni e che mi permise di conoscere tutti i massimi protagonisti dell’arte mondiale da De Chirico a Mirò, da Dalì a Man Ray, da Wahrol a Beuys. Poi Bolaffi vendette il Bolaffi Arte a Giorgio Mondadori e io mi trasferii a Milano. Qui Mario Spagnol mi voleva ai vertici della Rizzoli ma compresi che i tempi erano maturi per avviare un progetto in proprio».

E il progetto si chiamava Il Giornale dell’Arte.
«Esattamente. Avevo in mente una pubblicazione che non esisteva. Non una rivista d’arte su carta patinata, ma il primo giornale vero e proprio che contenesse tutte le notizie legate al mondo dell’arte, le mostre, i libri, il mercato, i restauri e via di questo passo. E così, nel 1982, facendo tesoro dei tanti validi esperti e collaboratori formati in anni di attività a Bolaffi Arte, decisi di fare da solo e, nella mia città, Torino, feci uscire nel maggio del 1983 il primo numero de Il Giornale dell’Arte».

Come venne accolto quell’insolito giornale?
«Benissimo. Fin dal primo anno era già in utile. Nel realizzarlo avevo in mente un modello internazionale, cioè il Times (ma il mio logo è molto torinese, perché viene da un libro trovato all’Accademia Albertina). Con grande sorpresa venni presto contattato da Hachette che mi propose di realizzare varie edizioni internazionali. L’Express voleva fare un settimanale. Bud Knapp, l’editore di AD voleva farlo in America. Era la prova dell’apprezzamento internazionale del nostro modello, ma i progetti non andarono in porto a causa di un fatto grave e imprevisto: lo scoppio della Guerra del Golfo».

Tuttavia, la vocazione internazionale della testata era in qualche modo segnata.
«Sì, è così. Grazie a Anna Somers Cocks (che poi è diventata mia moglie) si è avviata l’edizione inglese, e via via sono arrivate le altre testate internazionali, fino alla pubblicazione russa, edita lo scorso anno da Inna Bazhenova, e quella cinese di quest’anno, a cura dell’editore Thomas Shao di Pechino. Il network è basato sull’indipendenza operativa delle singole testate e dei rispettivi editori, vincolati però al rispetto del modello della casa madre italiana, ai valori etici e allo scambio dei contenuti. Nel network ciò che impressiona sono i numeri: pensi che il The Art Newspaper China viene pubblicato in abbinamento, una volta al mese, a un settimanale cinese che tira oltre un milione di copie».

Nel 1983, assieme al giornale, nasce anche la casa editrice Umberto Allemandi & C.
«Volevo una casa editrice che fosse riconoscibile sul mercato per la qualità delle opere proposte. Penso di esserci riuscito visti anche gli autori coinvolti, che sono personalità della cultura internazionale come Luigi Carluccio (autore del primo libro pubblicato), Federico Zeri, Giuliano Briganti, Francis Haskell, John Pope-Hennessy, Jean Clair e Alvar González-Palacios».

I libri Allemandi sono molto riconoscibili anche per l’uniforme colore acquamarina delle copertine.
«Armando Testa mi aveva insegnato l’importanza di attirare l’attenzione del pubblico con un elemento di identità e di riconoscimento. Il colore delle copertine mi è stato ispirato da una particolare carta da lettera inglese. Avrei voluto puntare sul nero ma prima di me era arrivato a usarlo un bravissimo editore italiano di cui sono grande ammiratore, Franco Maria Ricci. Così ho scelto l’acquamarina che è piaciuto moltissimo lo stesso».

Marco Carminati