Corriere della Sera, mercoledì 8 maggio 2013, 8 maggio 2013
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Andreotti «più papista del papa» (intervista di Oriana Fallaci)
Corriere della Sera, mercoledì 8 maggio 2013
Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché? Mi aveva ricevuto con gentilezza squisita: cordiale. Mi aveva fatto ridere a gola spiegata: arguto, e il suo aspetto non era certo minaccioso. Quelle spalle strette quanto le spalle di un bimbo, e curve. Quella mancanza quasi commovente di collo. Quel volto liscio su cui non riesci a immaginare la barba. Quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianche come candele. Quell’atteggiamento di perpetua difesa. Se ne stava tutto inghiottito in se stesso, con la testa affogata dentro la camicia, e sembrava un malatino che si protegge da uno scroscio di pioggia rannicchiandosi sotto l’ombrello, o una tartaruga che si affaccia timidamente dal guscio. A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla. A ogni domanda sgusciava via come un pesce, si arrotolava in mille giravolte, spirali, quindi tornava per offrirti un discorso modesto e pieno di concretezza. Il suo humour era sottile, perfido come bucature di spillo. Lì per lì non le sentivi le bucature ma dopo zampillavano sangue e ti facevano male. Lo fissai con rabbia. Sedeva a una scrivania sepolta sotto i fogli e dietro, sulla parete di velluto nocciola, teneva una Madonna con Bambin Gesù. La destra della Madonna scendeva verso il suo capo a benedirlo. No, nessuno lo avrebbe mai distrutto. Sarebbe stato sempre lui a distruggere gli altri. Con la calma, col tempo, con la sicurezza delle sue convinzioni. O dei suoi dogmi? Crede al paradiso e all’inferno. All’alba va a messa e la serve meglio di un chierichetto. Frequenta i papi con la disinvoltura di un segretario di Stato e guai, scommetto, a svegliare la sua ira silenziosa. Quando lo provocai con una domanda maleducata, il suo corpo non si mosse e il suo volto rimase di marmo. Però i suoi occhi s’accesero in un lampo di ghiaccio che ancora oggi mi intirizzisce. Dice che a scuola aveva dieci in condotta. Ma sotto il banco, scommetto tirava pedate che lasciavano lividi blu.
Ci sarebbe da comporre un saggio su Giulio Andreotti. Un saggio affascinante e inquietante perché tutto ciò che egli è va ben oltre il caso di un individuo. Rappresenta un’Italia. L’Italia cattolica, democristiana, conservatrice, contro cui tiri pugni che feriscono le tue nocche e basta. L’Italia di Roma col suo Vaticano, il suo scetticismo, la sua saggezza, la sua capacità di sopravvivere, sempre, di cavarsela, sempre, sia che vengano i barbari sia che vengano i marziani: tanto li porti tutti in San Pietro, a pregare. Alla politica non giunse di proposito: ignorava d’averne il talento. Al potere non giunse attraverso la lotta e il rischio: non aveva combattuto i fascisti. All’una e all’altro approdò per destino, vi rimase per volontà. La straordinaria invidiabile volontà che hanno gli sgobboni capaci di svegliarsi col buio: per lavorare. Ci comanda da circa trent’anni, cioè da quando ne aveva venticinque. Continuerà a comandarci in un modo o nell’altro, fino al giorno in cui gli impartiranno l’estrema unzione. Intimo di De Gasperi, membro della Consulta, deputato alla Costituente, alla Camera senza interruzioni, sei volte sottosegretario alla presidenza, segretario del Consiglio dei ministri, capogruppo parlamentare, ministro degli Interni, del Tesoro, due volte ministro delle Finanze e dell’Industria, sette volte alla Difesa, tre volte capo del governo. Lo sanno anche i bambini insieme alle storie che costruiscono il suo personaggio e che gli procurano tonnellate di voti: dai ricchi, dai poveri, dai giovani, dai vecchi, dai colti, dagli analfabeti. Ama il gioco del calcio, adora le corse dei cavalli, gli piace Rischiatutto, colleziona campanelli, ignora i vizi, è marito devoto e felice di una professoressa di lettere che gli ha dato quattro figli belli, buoni, studiosi. Ha un debole per l’America, per le bionde esangui e brillanti come la buonanima di Carole Lombard. Quest’ultime platonicamente, s’intende. Possiede grandi qualità di scrittore e, giustamente, i suoi libri non passano mai inosservati. Peccato che scriva solo di cose da cui si leva un profumo d’incenso.
Ecco l’intervista. Avvenne nel suo ufficio del centro studi, si svolse in tre fasi, durò cinque ore. E per cinque ore, io che fumo disperatamente, accesi un’unica sigaretta. Da ultimo. Non osai farlo prima. Non sopporta il fumo. Nessun genere di fumo, figuriamoci poi il fumo del fuoco che brucia il vecchio per costruire il nuovo. Lo combatte con una candela, il fumo e il nuovo, neanche fosse Satana.
Lei è il primo democristiano che affronto, onorevole, e sono un po’ preoccupata perché... Ecco, mettiamola così, perché non vi ho mai capito, voi democristiani. Siete un mondo così nebuloso per me, così gelatinoso. Un mondo che non riesco ad afferrare.
«Lei mi ricorda un discorso di Giannini alla Camera quando disse: “Io mi rendo conto che rappresentate una forza politica ma, se dovessi dire d’aver capito la Dc, mentirei”. Poi raccontò la storia della badessa che aveva due cardellini, e sperava di metterli insieme per fargli far coppia, ma i due cardellini non facevan mai coppia, e la povera badessa non riusciva a capire se ciò avvenisse perché i due cardellini erano dello stesso sesso. Peggio, non riusciva a capire a quale sesso appartenessero i due cardellini, se erano dello stesso sesso. E un giorno esclamò esasperata: “Alla faccia del somaro! Con lui si vede subito se è maschio o femmina!”. Raccontò proprio questa storia, Giannini, e conteneva una buona dose di verità. Perché vede, all’inizio era abbastanza chiaro cosa significasse essere democristiani: una linea di sociologia cristiana su una indiscutibile piattaforma democratica. Insomma, la linea di don Sturzo. Ma oggi non si può dire che le posizioni della Dc siano altrettanto chiare e, forse perché i problemi si aggrovigliano e cambiano, forse perché un partito non può viver di rendita... Che c’è? Desidera qualcosa?»
No, no. È che sono abituata a fumare ma so che lei non sopporta chi ha questo vizio e...
«Una volta un papa ciociaro, Leone XIII, offrì a un cardinale del tabacco da annusare. E il cardinale disse: “Grazie, non ho questo vizio”. E il papa rispose: “Se fosse un vizio, lei lo avrebbe”».
E chi sarebbe il cardinale? Io o lei?
«Dobbiamo rielaborare un programma della Dc, dicevo. Magari partendo dalla piattaforma iniziale e cioè dalla relazione Gonella del 1946 che fu per noi una specie di Magna Charta. Dobbiamo vedere quel che è stato fatto o non fatto, esaminare i problemi sopravvenuti, e poi, sulla nuova piattaforma, costruire una linea politica con un orientamento preciso. Altrimenti si finisce per lasciare l’iniziativa agli altri e subire i gol di contropiede. Un po’ il problema dei socialisti italiani: la mancanza di chiarezza rappresenta un motivo di grossa crisi anche per loro. Come loro, bisogna far marcia indietro sulle correnti, il frazionismo, gli agglomerati di carattere personale...»
Senta, Andreotti: nell’attesa di scoprire il sesso degli angeli, anzi dei cardellini, anzi dei democristiani, io vorrei dipingere il suo personaggio. Così, a ruota libera. Per esempio, e a parte il fatto che lei sia un gran bacchettone, mi piacerebbe sapere...
«Bacchettone? Io, quella del bacchettone, ecco: è vero che, quando posso, vado alla messa. È vero che, quando posso, mangio di magro il venerdì. Ma che c’entra? (...) Se un arabo non beve alcoolici e non mangia carne di maiale, tutti dicono: che bravo musulmano! Se un cattolico vive come me, tutti dicono: che bacchettone! Non religioso. Bacchettone.»
E va bene: religioso. A parte il fatto che lei sia tanto religioso, mi piacerebbe sapere perché divenne democristiano.
«Per via di De Gasperi, direi. Non ero ancora democristiano quando conobbi De Gasperi nella biblioteca della Santa Sede dov’ero andato per fare una ricerca sulla Marina vaticana e De Gasperi mi disse: “Ma lei non ha nulla di meglio da fare?”. Non ero niente, non mi ero mai posto il problema di una scelta politica. Avevo diciannove anni. Ma l’incontro con quell’uomo, De Gasperi, fu una specie di scintilla. Aveva un tale fascino, una tale capacità di convinzione. (...) Voglio dire: non mi sorse mai il dubbio di poter fare un’altra scelta: entrare nel partito socialista, ad esempio, o nel partito liberale. Per carità, mai avuto tentazioni del genere. Quanto ai comunisti, già allora ero certo della non conciliabilità tra comunismo e democrazia. C’è una lettera a Franco Rodano, 16 ottobre 1943, che lo dimostra. Rodano apparteneva al gruppo dei comunisti cattolici: gente di cui ero amico e a cui volevo bene. E il papa, Pio XII, era piuttosto allarmato da quei comunisti cattolici. Così, quando all’inizio del ‘43 furono arrestati, mi preoccupai subito che egli non li sconfessasse in un certo discorso che doveva tenere agli operai nel mese di giugno. Oltretutto ciò avrebbe portato acqua al mulino di chi lo accusava di collusione coi fascisti. E mi recai subito da lui ma non lo trovai e gli lasciai un bigliettino. “Santo Padre, ero venuto a farLe visita perché ci sono questi ragazzi in prigione e vorrei pregarLa di non toccare quel tema...”».
Un momento. E lei andava dal papa così, come io vo dal tabaccaio? Gli lasciava bigliettini così, come io li lascio alla mia segretaria?
«Ma certo. Ero presidente della Fuci, andavo spesso dal papa. I grandi rami dell’Azione cattolica avevano un’udienza fissa col papa ogni due mesi e, in quel periodo, lo vedevo ancora più spesso. Era molto gentile con me, mi trattava con grande calore. Naturalmente non dimenticavo mai che lui era il papa e io uno studente di ventiquattr’anni, però... Insomma gli lasciai questo bigliettino e lui mi ascoltò. Nel suo discorso agli operai non fece allusione al gruppo dei comunisti cattolici e, due settimane dopo, quando tornai in Vaticano per accompagnare alcuni nostri dirigenti che venivano ricevuti in udienza generale, mi disse: “Sei contento?”. Nessuno capì cosa intendeva dire ma io capii e risposi: “Molto contento”. Ah, Pio XII era un sant’uomo. Era un grande papa, il più grande di tutti. Solo a stargli accanto, a guardarlo, intuivi che era diverso: più illuminato, più ispirato, più eletto...»
C’è chi dice il contrario. E poi sembra che picchiasse i cardinali.
«Io non lo so. Se lo faceva, significa che lo meritavano».
Già. Però mi sorprende che preferisca Pio XII a Giovanni XXIII.
«Ecco, sì. Perché vede... insomma... il tipo di comunicativa che aveva Giovanni XXIII lo costringeva a scendere dal piedistallo. Una volta portai da lui i miei bambini e, per metterli a loro agio, dopo averli fatti accomodare, gli disse: “Vedete quest’armadio? Prima era tutto aperto e io ci ho messo gli sportelli perché mi sembrava una cappelliera”. Giovanni creava subito un clima familiare, si comportava con molta semplicità. Però credo che fosse una semplicità molto intelligente, cioè molto finalizzata... Per esempio: ricordo il giorno in cui a Roma, al Tuscolano, quartiere popolare, si fece dare un microfono per parlare alla gente in piazza. Non era previsto che parlasse, e gli portarono il microfono e ne venne fuori un discorso così: “Vedete, Roma è una città difficile perché è una città dove i meriti non vengono riconosciuti. Oppure dove si regalano meriti che le persone non hanno. Per esempio di me si dice che sono umile perché non voglio andare in sedia gestatoria. Ma non è che io non ci vada perché sono umile: non ci vado perché sono grasso e, sulla sedia gestatoria, ho sempre l’impressione di cadere”. La risata che scoppiò! Ce l’ho ancora negli orecchi. (...)».
Ha conosciuto bene anche lui?
«Oh, sì! Benissimo. Per ragioni di famiglia. Da giovane egli era stato amico intimo di uno zio di mia moglie (...)».
Perbacco! Conosce bene anche Paolo VI?
«Oh, sì, certo! Benissimo. Era assistente della nostra organizzazione universitaria cattolica. Però lui da qualche tempo lo vedo poco. L’ultima volta, si figuri, l’ho visto il 2 gennaio scorso in udienza generale, accompagnando un gruppo di ciociari per il settimo centenario di San Tommaso d’Aquino. In genere evito di recarmi da lui. Sa, per non confondere il sacro col profano. Per ragioni politiche, mi spiego? Direi che in Vaticano ci andavo di più prima. Del resto, anche allora ci andavo con parsimonia. Oh, i nostri contatti col Vaticano sono minori di quanto la gente creda. Voglio dire: nelle grandi cose... negli interessi comuni come il Concordato... si capisce che... Ma per il resto... Pensi, in tutto il periodo di Pio XII, De Gasperi è stato in udienza solo due volte. Le altre volte ci è andato per partecipare a qualche manifestazione. Ad esempio per L’Annonce faite à Marie di Claudel. No, col Vaticano non abbiamo tutti i rapporti che crede.»
Ah! Su questo mi permetta d’essere incredula. Specialmente nel suo caso. Lo sanno anche i bambini che se in Italia v’è un uomo legato agli ambienti ecclesiastici, questi è Andreotti. Papi a parte.
«Rapporti personali, sì. Legami, sì. Ma la maggior parte di questa gente io la conosco da tempi in cui pensavo a tutto fuorché alla politica. E, comunque, il mio non è un rapporto clericale (...)».
Senta, Andreotti: ha mai pensato di farsi prete?
«È difficile dirlo. Forse avrei potuto, non so. Se ciò può darle un’idea, da ragazzo passavo sempre le vacanze insieme a due coetanei e uno di questi, ora, è nunzio apostolico: l’altro è arcivescovo a Chieti. Però mi son sempre trovato benissimo nella mia locazione di marito e padre di famiglia, mi è piaciuta sempre di più e non ho mai avuto rimpianti. Forse perché sono stato fortunato e ho avuto un’ottima moglie, ragazzi normali e studiosi... Comunque non posso dire d’aver mancato alla vocazione di prete. La mia sola vocazione mancata è quella di medico. Oh, fare il medico mi sarebbe piaciuto moltissimo. Ma non potevo permettermi sei anni di medicina. Non ero ricco. Mio padre, un maestro elementare, era morto quando ero appena nato: appena iscritto all’università, dovetti mettermi a lavorare. Mi iscrissi a legge, mi laureai con l’idea di fare il penalista. Con enorme rimpianto, però. Sì, enorme. Infatti ce l’ho ancora. Pazienza, ormai è andata. Il bello è che nessuno dei miei figli ha voluto studiar medicina. Uno si è laureato in filosofia, uno si laurea adesso in ingegneria, il terzo in legge, e la quarta fa il secondo anno di archeologia».
Bè, se avesse fatto il medico, oggi non sarebbe uno degli uomini più potenti d’Italia. Non vorrà negare infatti che, nel suo caso, la politica è sinonimo di potere.
«Io direi di no. Nel mio caso non assocerei affatto la parola politica con la parola potere perché guardi: io, quando scrivo o partecipo a una discussione, mi sento più entusiasta politicamente di quando ho responsabilità di potere formale e concreto. La cosa che mi ha dato più soddisfazione in questi venticinque anni è stata fare il capogruppo alla Camera. Certo, bisogna stabilire la definizione di potere. Per la stampa, ad esempio, il potere è quello che si vede nel suo aspetto esterno. Se uno è ministro delle farfalle e dice che oggi è venerdì, subito riportano le sue parole con ossequio: “Il ministro delle farfalle ha dichiarato che oggi è venerdì”. Se invece elabora una teoria o esprime un’idea, ha difficoltà a metterla in circolazione. In altre parole, se per potere si intende avere un dato peso e far valere certe idee, indurre gli altri a tenerne conto, allora mi sento abbastanza uomo di potere. Anche se a volte mancano gli strumenti del comando...»
A chi? A lei?!? Lei che ha tanta influenza sulla polizia, sull’esercito, perfino sulla magistratura? Lei che è stato amico di tre papi, che fa di mestiere il ministro e possiede i dossier di tutti i politici italiani?!?
«Queste sono leggende assolute. Se vuole consultare il mio archivio, glielo faccio vedere. È a sua disposizione, veramente. Certo, quando uno è stato per anni ministro della Difesa, conosce molta gente. E io conosco molta gente: non v’è dubbio. Ma non ho mai ritenuto che il potere consistesse nel farsi i fascicoli per ricattare. Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra: mai meno di una cartellina. Se per caso una sera ho mal di testa e non scrivo, il giorno dopo riempio subito il vuoto. Così, se devo fare un articolo su qualcosa che accadde venti anni fa, consulto il mio diario e trovo cose che non troverei certo sui giornali. Certo, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all’infuori di me e son cose che tengo solo per me. Quello nessuno deve leggerlo all’infuori di me. È proprio segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno in cui morrò. Ma i miei fascicoli, creda, consistono solo in ritagli di giornale. Se vuole consultarne uno glielo do. Avanti, dica un nome. Lo dica».
Fanfani. Detto anche il padrone d’Italia. Non è il suo grande nemico, Fanfani? Non è forse vero che può ringraziare Andreotti per non essere diventato presidente della Repubblica?
«No, non è vero. I voti del nostro gruppo li ebbe, salvo piccolissimi margini. La Democrazia cristiana i voti glieli dette. Ma da sola, si sa, la Democrazia cristiana non può eleggere il presidente della Repubblica (...)».
Non mi riesce farla arrabbiare. Ma lei è sempre così controllato, così imperturbabile, così marmoreo?
«Sì perché non vale la pena dar soddisfazione a chi ti fa arrabbiare. A che serve fare il cerino che s’accende e salta su? Del resto la gente che alza la voce e addirittura dice brutte parole mi dà un tale fastidio! Secondo me, è indice di scarse convinzioni. Se uno è convinto di qualcosa non ha mica bisogno di battere i pugni sul tavolo, sudare, eccitarsi! Sono ridicoli quelli che si arrabbiano e magari offendono. Poi devono far mille storie per scusarsi, eccedono nell’altro senso, si umiliano... In Italia c’è una tradizione di polemica clamorosa, gridata. Ma io sono romano e preferisco non drammatizzare oltre il necessario: esser romano aiuta molto a ridimensionare i problemi ed è un vero peccato che Roma non sia quasi mai riuscita ad essere governata da romani. Se pensa che prima di me non c’era mai stato un presidente del Consiglio romano, che erano stati sempre sudisti o nordisti... Il che include i toscani perché per noi la Toscana è già nord... Comunque guardi: anche quando vado alle partite di calcio, che mi divertono tanto, io resto calmo. E così quando vado alle corse dei cavalli. Sì, le corse dei cavalli mi piacciono ancora di più. Il movimento delle persone, il gioco dei colori, la suspense, la scommessa... Che vinca o che perda, nessuno si accorge se sono eccitato o nervoso. A parte il fatto che vinco quasi sempre perché son fortunato. Gioco poco, scommetto poco, ma in genere vinco».
Parla dei cavalli o della politica?
«Non che i cavalli siano la mia sola evasione. Io mi diverto anche al cinematografo, o a guardar Rischiatutto, o a scrivere libri. Scrivere mi scarica, mi disintossica, mi fa dimenticare i decreti legge e gli ordini del giorno. Comunque tutti questi piaceri hanno un denominatore comune: calmarmi e aiutarmi a rinsaldar l’equilibrio. Sa, a me piace molto stare con gente che non si occupa di politica. Le racconto una cosa. Io per tanti anni ho fatto la cura a Montecatini. La prima volta che ci andai ero sottosegretario alla presidenza e il direttore delle terme venne a prendermi dicendo: “La accompagno allo stabilimento per mostrarle dove mettiamo i deputati e i senatori”. E io risposi: “Bravo, mi ci porti subito, me lo indichi con grande esattezza, così io vado in un altro stabilimento”. E così feci. Non per evitare i miei colleghi ma per non alimentare una specie di congregazione. La politica è una cosa che arrugginisce e guai a restarne anchilosati: si finisce per non vedere più nulla al di fuori di quella e con l’essere pessimi interpreti di chi ci elegge.»
È questa la sua definizione della politica?
«Io... guardi... io darei molto per definirla come gliel’hanno definita i miei colleghi: la politica è cultura, è morale, è missione, è storia dell’arte eccetera. Ma non ci riesco. D’altronde è come se chiedesse a un pesciolino di definire l’acqua in cui sta. Un pesce non sa definire l’acqua in cui sta, sa solo che la sua vita è quella. Le ho già detto, credo, che se m’avessero vaticinato la carriera politica quand’ero al liceo, io mi sarei messo a ridere. E, ancora oggi, essa non mi ha schematizzato. Infatti non appartengo al genere di coloro che si perdono in astrazioni e ad esempio dicono “il lavoratore non vuole la proprietà della casa, vuole il diritto di superficie”. Cosa significa? Perché parlano così? Hanno forse paura di non sembrare colti? Oppure hanno idee così poco chiare che non sanno esprimersi? Spesso sono quelli che dicono noi-che-siamo-vicini-ai-lavoratori: espressione stupenda perché sono sempre vicini e non lavorano mai. Oh, ha ragione mia madre quando afferma che, a sentirli parlare alla televisione, non si capisce nemmeno la metà di ciò che dicono. A me il vocabolario politico dà una noia mortale. D’accordo: la teoria deve esistere sennò si lavora sulla sabbia, però bisogna tener conto della gente che non trova il sale e lo zucchero e non vuole essere aggredita quando va a riscuotere la pensione... che c’è? Desidera qualcosa?».
No, no. Cercavo automaticamente una sigaretta senza ricordare la storia di Leone XIII e del cardinale.
«Mah! Se vuole proprio fumare, fumi. Guardi, accendo la candela. Vede, ho una candela apposta, speciale. Depura l’aria e mi evita il mal di testa. Non è ch’io non sopporti chi fuma: non sopporto il fumo. Alimenta il mio mal di testa e io soffro di mal di testa feroci, che mi mettono fuorigioco per tre o quattro ore. Non ho mai capito da cosa vengano. Forse, da un’eredità strutturale. Ne soffriva mio padre, e anche mia madre. O forse sono di natura reumatica. Però si manifestano anche quando sono stanco, quando mi sento teso, quando prendo umidità. Ma se proprio vuol fumare, fumi».
Dopo quel che mi ha detto? No, no. Continui, la prego.
«Si parlava della politica vista come concretezza. Ebbene, da noi c’è sempre stato un disprezzo per chi dà peso alle cose di ordinaria amministrazione ma una delle cose che mi hanno soddisfatto di più nella mia vita è successa proprio in tema di ordinaria amministrazione, quand’ero ministro delle Finanze. C’era un enorme contrabbando di petrolio e io, invece di piagnucolare, feci una commissione. Poi chiamai un comandante delle guardie di Finanza e gli dissi: “Voglio un giovane capace, sveglio”. E lui mi dette un capitano che ora è colonnello. Il capitano si fece assumere come operaio in una raffineria e gli ci vollero appena sei mesi per scoprire la verità. Intorno a ogni raffineria c’è una grande apparecchiatura per portare l’acqua in caso di incendio. E loro, invece di portare dentro l’acqua, portavano fuori il petrolio. A un chilometro fuori del cancello non c’era più la Finanza, non c’era più controllo, così potevano caricare il petrolio sulle autocisterne e via. Feci un decreto legge con cui stabilivo che nessuno può portare la benzina su un’autocisterna se non ha un pezzo di carta che dica dove l’ha caricata e dove la scarica e... sa che quell’anno incassammo ventotto miliardi in più di imposta? Ah, se perdessimo meno tempo a farci lotta nei congressi, nei precongressi, nelle sezioni, nelle correnti, e ci occupassimo di più delle cose essenziali!».
Scusi, Andreotti: ma se lei capisce queste cose, come mai ha combinato tanti guai col suo governo? Il crollo della lira, l’aumento dei prezzi...
«A me sembra molto ingiusto dire quello che lei dice. Un governo è sempre figlio del governo che lo precede, padre del governo che lo segue, e il mio governo nacque perché era fallito il centrosinistra. Era una vita quasi impossibile: avevamo margini così piccoli. Al Senato, per esempio, bisognava rifare i conti ogni giorno e questo ostacolava anche un minimo di programmazione. Dentro il governo di coalizione nei primi sei mesi, ci fu una certa compattezza: ma in gennaio una parte notevole dei ministri si mise a pensare più al futuro che al presente. E questo ci indebolì. Però certe decisioni furono prese coi piedi per terra: quelle sul doppio corso della lira, quelle per non far uscire nemmeno un grammo d’oro... Non è assolutamente vero che io sia il responsabile del crollo della lira. Al contrario, la lira sarebbe crollata se il mio governo non avesse preso certe decisioni. Non dimentichiamo i problemi internazionali: da parte di un paese produttore di petrolio subimmo speculazioni che, in un solo giorno, influirono sul prezzo della lira per un ammontare di duecento miliardi di lire. Se avessimo accettato la norma comunitaria per cui le transazioni valutarie fra i vari paesi della Cee devono esser pagate metà in oro e metà in moneta europea, entro un mese non avremmo più avuto né un grammo d’oro né un dollaro. E che se ne sarebbe fatta, l’Europa, di un’Italia distrutta finanziariamente?»
Son portata a darle ragione ma questo governo dice che non fa che riparare ai guasti del governo Andreotti...
«Mi sembra un discorso molto presuntuoso da parte loro. E gli rispondo così. Quand’ero bambino passavo l’estate in una casa di campagna dove le tubature dell’acqua versavano giorno e notte. E non veniva mai l’idraulico sebbene avere un idraulico, allora, non fosse difficile come lo è oggi. E si stava sempre con queste gocce d’acqua per terra. Poi, un giorno, arrivò l’idraulico. E ci fu gran festa, si levarono esclamazioni di gratitudine e gioia. E l’idraulico si mise al lavoro, circondato dalla nostra gratitudine e gioia, e... sfasciò tutto. Allagò la casa. Dunque non vorrei che gli attuali restauratori combinassero ciò che combinò quell’idraulico. Oh, non esistono soluzioni di centrosinistra o di centrodestra o di centro. Esistono soluzioni valide e basta. Oggigiorno, tre quarti dei problemi hanno dimensioni così internazionali che non si rimedia alle gocce per terra con una martellata. Certo, se si va avanti così, se non si aumenta la produttività, se non si ottiene più valuta stimolando ad esempio il turismo...»
Come? Coi cinema e i teatri che chiudono a mezzanotte, coi ristoranti che ti cacciano prima delle undici, con le domeniche senza automobile, col razionamento della benzina?
«Io non voglio fare il Pierino della situazione ma, in questo, do ragione a lei. Non è certo bloccando le automobili la domenica che si risolve il problema. Nella percentuale globale della consumazione del greggio, ciò che si consuma per circolare in automobile raggiunge appena il 15%. Ma per circolare sette giorni su sette, non la domenica e basta».
Oppure si potrebbe stimolare il turismo con un bollettino plurilingue sui nostri scandali, magari sostituendo l’attrazione del latin lover con quella del politico corrotto.
«Forse non è ancora sera e bisogna aspettare la sera per arrivare a giudizi troppo catastrofici. Non vorrei apparire come l’eterno mediatore ma certe cose finiscono spesso con l’avere una funzione positiva e riequilibrare ciò che è storto. Insomma, potrebbe anche darsi che questo terremoto riassestasse molte faccende. Il mio timore è che serva soltanto alle speculazioni di parte: finché non c’è un processo e un verdetto e un appello e una sentenza definitiva non si può dire che una persona abbia violato la legge. No, non è giusto che nello spazio di una settimana un uomo si trovi già giudicato dal clamore di un’accusa. Perché dopo, anche se viene assolto con formula piena, la sua onorabilità è compromessa. E così quella del sistema. Noi abbiamo avuto casi formidabili di procedimenti contro personaggi politici che in sede d’appello, e perfino d’istruttoria, si sono risolti con tante scuse. Il fatto è che ci vuole un maggior rispetto del segreto istruttorio: in Italia, invece, il segreto istruttorio è una beffa. Ognuno dà conferenze stampa: dal questore al magistrato. E poi, magari, si dà la colpa al giornalista: ma-lei-come-fa-a-scrivere-questo. E gliel’ha detto il questore o il magistrato (...)».
D’accordo. S’è visto con Valpreda. «Ecco l’assassino» scrissero sulla copertina di un settimanale che si presenta come progressista. Ma io...
«Lei sa che durante il mio governo uno degli atti che furono accusati di debolezza fu proprio la legge che consentì a Valpreda d’essere scarcerato? E quando alcuni vennero a dirmi “allora tu sei per Valpreda”, risposi: “Io non so se Valpreda sia responsabile o no. Non spetta a me saperlo e si vedrà al processo. Ma se tuo figlio fosse in carcere con l’incertezza di un’imputazione, saresti contento se restasse lì due o tre anni ad aspettare che i giudici si mettano d’accordo su chi deve giudicarlo?”. Mah! Forse deriva da un tipo di educazione, anzi di maleducazione. Forse ci manca una cultura basata sul rispetto della gente. Comunque sia, il nostro è un sistema che incita al linciaggio. E non tanto al linciaggio fisico quanto al linciaggio morale. Quello che c’è stato anche nel caso di Valpreda (...)».
Sì, sì, sì. Verità sacrosante. Ma ciò non cambia l’indiscutibile vergogna che esista una gran corruzione in Italia. Lei ha sviato il discorso. Lo scandalo esiste ed anche i partiti ne sono rimasti coinvolti.
«Ho detto che non è ancora sera. Per esempio, dei comunisti non s’è parlato ancora ma anche loro come vivono finanziariamente? Che ricevano aiuti dall’estero non è una malignità: è un fatto. E tra i personaggi che potrebbe interpellare c’è Eugenio Reale che è stato loro amministratore. Forse qualcosina potrebbe dirgliela. Via, scopriamo l’America a dire che ogni partito riceve aiuti esterni! O si arriva davvero al finanziamento statale... Ma è il caso di crederci al finanziamento statale? De Gasperi, ad esempio, non ci credeva. Diceva che l’opinione pubblica non lo avrebbe accettato o vi avrebbe reagito con grande disagio: “Non suona bene dare i soldi dello Stato ai partiti”. Forse, se si potesse convincerli davvero a rendere pubblico il loro bilancio e a non avere segreti sulle entrate e sulle spese... Ma i partiti non rivelano mai i loro bilanci. Nemmeno agli iscritti. Io faccio parte della direzione della Dc e, in trent’anni, non ho mai visto un bilancio. Negli altri partiti credo che avvenga lo stesso (...)».
Andreotti, poco fa lei m’ha detto che questo terremoto potrebbe assestare le cose. Però dovrebbe saperlo che i terremoti, in Italia, non assestano nulla perché, dopo il fracasso iniziale, non se ne parla più.
«Forse perché si mette troppa roba al fuoco in una volta sola. Nell’enorme calderone che ne consegue, si perdono di vista le cose essenziali. Vede, ogni governo parte con un programma che non basterebbero quindici anni per attuarlo. Non si fa più come Nitti che faceva un governo per nazionalizzare le assicurazioni sulla vita e basta. Era un programma limitato, certo, ma era anche un programma chiaro e consentiva di controllare i risultati. Non si fa più come De Gasperi che buttava sul tappeto la riforma agraria, ne tirava fuori una legge e l’applicava. Oppure come Vanoni che fece la riforma tributaria, e la gente brontolò, però quando si vide in mano il modulo Vanoni concluse che in bene o in male aveva fatto qualcosa. Oggi c’è un dialogo astratto tra i partiti, io-sono-più-avanzato-di-te, no-sono-io-più-avanzato-di-te, io-son-più-bello-di-te, tu-sei-più-brutto-di-me... non in senso fisico, s’intende, giacché in quel senso resteremmo tutti buscherati... Comunque non si parla più delle cose pratiche. I governi non hanno il tempo di fare nulla perché, quando un governo nasce, non si sa mai se il giorno dopo ci sarà. Prenda l’intercettazione telefonica...»
Ha il telefono controllato anche lei?!
«Non lo so. Spero di no. Ma non lo so mica. Perché, ha mai visto la copertina dell’elenco telefonico di Roma 1972-73? Eccola, guardi. Proprio in copertina: “Detective privato Tony Ponzi. Premio Maschera d’oro. Opera personalmente per controlli, indagini industriali e private, anche con apparecchiature elettroniche miniaturizzate. Ovunque”. D’altronde, se uno fa il quarantotto perché il suo telefono è controllato, la malignità comune può dire: sarà-che-non-voglia-farsi-sentire-perché-ha-qualcosa-da-nascondere?».
Bel discorso. Ma lei, quand’era al governo, cosa fece contro questo schifo del telefono controllato?
«Io, come stavo per dirle, denunciai il problema e incaricai i miei ministri di tirar fuori un progetto. Il progetto fu preparato ma poi dovemmo andarcene e... si torna al ragionamento di prima: come si fa a fare le cose se non ci danno il tempo? Bisognerebbe dire a un governo, qualsiasi governo: “Tu rimani in carica due anni. Se alla fine dei due anni non hai realizzato nemmeno due o tre cose fondamentali, se non ci sei riuscito, ti mando a spasso e ti interdico. Per dieci anni non potrai più partecipare a un governo”. Invece accade quello che accade, senza contare che il capo del governo deve passar la giornata a occuparsi del prezzo del miglio o della conferenza di Copenaghen. E la giornata dura soltanto ventiquattr’ore.
Impiegatele meglio le vostre ventiquattr’ore. Non occupatevi del prezzo del miglio. Non ci andate alla conferenza di Copenaghen. Ben per questo non funziona nulla in Italia e rischiamo di assistere al suicidio della libertà.
«Forse lei esagera. Non voglio negare che vi sia qualche fondamento in ciò che lei afferma un po’ brutalmente ma non è giusto dire che in Italia non funziona nulla. Anzitutto, se si pretende di far funzionare tutto, si chiede una ricetta che non esiste. E poi non potrebbe darsi che si vedesse solo ciò che non funziona ignorando ciò che funziona? Qualcosa funziona. C’è un numero notevole di persone che fanno il proprio dovere, che lavorano regolarmente, che studiano regolarmente e si laureano bene. Bisogna stare attenti a non distruggere tutto. Può condurre non dico ai colonnelli ma a un Giannini, cioè a uno stato di scontentezza perenne che non rafforza la democrazia. Non possiamo dire di trovarci all’anno zero (...). La democrazia è un sistema faticoso: pieno di lentezze, di trabocchetti. Richiede pazienza e anche errori».
È vero. Ma l’autocompiacimento è il sale delle dittature, la critica è il sale della democrazia. E le chiedo come uomo di potere, come classe politica dirigente, può affermare d’aver la coscienza tranquilla?
«Ecco, la coscienza tranquilla uno non può averla mai perché pensa sempre che avrebbe potuto far meglio e di più. E poi il gioco politico non è mai un gioco individuale: come al football, si lavora in squadra (...)».
Non ho detto Giulio Andreotti e basta. Ho detto Giulio Andreotti come rappresentante del potere e della classe politica dirigente.
«Allora mi lasci dir questo: come classe politica, noi siamo partiti da una grande inesperienza. Se vent’anni fa avessimo potuto impostare la ricostruzione dell’Italia con l’esperienza che abbiamo oggi, avremmo fatto meno errori e il triplo di cose buone. Suvvia, non sapevamo nemmeno parlare in pubblico! Eravamo così impreparati! (...). Se giudica tutto dalle piccole cose, dalle nostre miseriole, dai nostri sbagli quotidiani, ha ragione a dire che siamo con le gomme a terra. Ma, se guarda in prospettiva storica, deve concludere che non ce la caviamo male. Io sono ottimista».
Beato lei.
«Sì perché non guardo mai le cose con uno stato d’animo eccitato. Non serve ed è pericoloso. Ed anche se sono preoccupato mantengo un certo distacco. Per esempio: nelle altre interviste lei ha discusso il fatto che gli italiani siano fondamentalmente anarchici. Lo sono. Ciascuno di noi è una piccola culla del diritto, ciascuno di noi rifiuta di stare al posto suo: i sindacati vogliono occuparsi del referendum, le regioni vogliono occuparsi del Vietnam... E, sebbene la Costituzione parli di diritti e di doveri, ognuno parla di diritti e mai di doveri. È considerato antidemocratico parlare di doveri. Siamo bambini in quel senso. Però... siamo anarchici e andiamo a votare più che in qualsiasi altro paese. Siamo anarchici e, quando ci viene chiesto di non usare l’automobile, andiamo a piedi. Non ci piace l’ordine e ci scandalizziamo per il disordine... Insomma non ritengo, come lei, che la nostra libertà sia in pericolo. Oh, lo so che rischio di sembrare melenso ma prenda l’esempio di Italia Nostra. Sembrava che tutti si sentissero autorizzati a deturpare il paesaggio come volevano e invece Italia Nostra ha riequilibrato la situazione».
Andreotti, io parlo di libertà e lei mi parla di paesaggio. Se avvenisse un golpe in Italia...
«Non credo a queste cose complicate. Certe cose presuppongono un letargo e in Italia non c’è affatto letargo. C’è una grande vitalità delle istituzioni».
Se lo dice lei, mi sento più tranquilla. Perché sa qual è la voce che corre? È che se avvenisse un golpe in Italia, il primo a saperlo sarebbe lei.
«Io penso di no. Io penso che sarei tra i primi ad essere arrestato. E, comunque, le ripeto che al golpe non ci credo. La mia paura è un’altra: è che la gente perda la sensazione che questo sistema, il sistema democratico, garantisce una vita tranquilla e normale. La posta che non arriva, la criminalità che aumenta... Al farmacista vicino a casa mia, stanotte, hanno svaligiato il negozio e certo lui non è contento dello status quo. Comunque non credo ch’io sarei il primo a sapere una cosa brutta come quella che dice lei».
Anche questo mi solleva. Senta, Andreotti: lei lo sa, vero, che la definiscono uomo di destra. Rifiuta o no tale definizione?
«Direi che la rifiuto perché la qualifica uomo-di-destra in Italia non viene data per collocare una persona ma per metterle il piombo alla sella, per crearle ostacoli. Il nominalismo è un’altra malattia degli italiani e v’è una tale ipocrisia nelle parole destra e sinistra. Preferisco che mi chiamino conservatore. In molti sensi, e sia pure in termini di preoccupazione democratica, sono un conservatore. Infatti mi accorgo che, quando si vogliono cambiare le cose, si finisce quasi sempre per cambiarle in peggio. Quindi è meglio tenersele così come sono (...). Le riforme? Se sono buone, piacciono anche a me ma spesso sono una chiacchiera e basta. Ottengono solo di peggiorare le cose, come la riforma ospedaliera, o di lasciare il tempo che trovano. Io posso anche fare una riforma perché lei diventi regina d’Inghilterra. Ma poi non lo diventa».
Non voglio diventare regina d’Inghilterra, non mi piace Filippo. E io alludevo ad altre cose, Andreotti. Al suo abbraccio col maresciallo Graziani, per esempio.
«Gliela racconto subito quella storia. C’era stato un convegno del Msi ad Arcinazzo, e Graziani era presidente del Msi. Ciò mi aveva preoccupato perché in Ciociaria non v’era famiglia che non avesse ricevuto da Graziani un piccolo favore e non mi piaceva che Graziani raccogliesse voti. Così indissi una specie di controraduno democristiano e, appena giunsi, trovai il questore pallidissimo: “Tra la folla c’è il maresciallo Graziani!”. Risposi che non me ne importava nulla e feci il mio comizio spiegando che la democrazia non si discuteva. Finito il comizio, si alzò un vocione: “Posso parlare?”. Ed è lui. “Prego, parli pure. Siamo in democrazia”, gli dico. E lui viene al microfono e dice: “Ah, io non m’intendo di politica ma devo ammettere che se si è fatto opera di rimboschimento su queste montagne, su queste vallate, lo si deve a De Gasperi”. Roba da operetta (...). L’abbraccio non ci fu in nessun senso: né fisico né morale (...)».
E poi alludevo all’accusa secondo cui, in diverse occasioni, lei avrebbe accettato i voti dei missini.
«È un’altra fandonia. Cifre alla mano. Noi della Dc facemmo l’azione contro Almirante proprio nel momento in cui ci opprimeva una scarsezza di voti. Per arrivare al suo processo, io personalmente mandai una lettera al mio gruppo parlamentare. No, non è vero che i missini mi abbiano dato i loro voti (...)».
Andreotti, le rivolgo una domanda che ho rivolto anche a Malagodi: non rimpiange di non aver fatto, in gioventù, un antifascismo attivo?
«Io sì. Certamente. Una delle radici anzi la radice di quel che s’è fatto bene in Italia nei primi dieci anni di democrazia consiste proprio nella spinta morale di coloro che fecero un antifascismo attivo. La battaglia del 1948 ad esempio non fu un rozzo scontro frontale: fu il recupero di una capacità di battersi democraticamente. E quella capacità ci venne anche dal Cln. Il Cln fu una gran cosa (...)».
Allora le chiedo un’altra cosa che chiedo spesso a chi non è fascista. Ma lei riesce a parlarci coi missini?
«Guardi, quando uno sta venticinque anni in Parlamento e vede sempre le stesse persone, finisce col parlarci e magari bere insieme un caffè. E quando va alla partita di calcio nella tribuna dei deputati, come fa a negare un buongiorno? M’è capitato di parlare con Almirante, ovvio. Niente discorsi approfonditi ma... Del resto, parlare agli avversari non è una caratteristica di ogni parlamentare civile? Io parlo con chiunque. Senza repulsione, senza disagio. Scambiarsi idee o informazioni non significa mica tendersi trabocchetti o fare del proselitismo. È lo stesso pei comunisti. Io, quando si discuteva la legge sul divorzio, ho avuto incontri molto approfonditi coi comunisti (...). Vi sono comunisti con cui è piacevolissimo stare. Pensi a Pajetta. Pensi a Bufalini».
E Berlinguer?
«Lui lo conosco poco. Appartiene a una generazione più giovane della mia. Conoscevo meglio suo padre che era del Partito d’Azione e poi socialista. Però so che è un giovane molto riservato, un buon padre di famiglia, e questo conta molto per me. Rappresenta un elemento di equilibrio. Guardi, il mio rapporto coi comunisti è abbastanza chiaro. Infatti rispetto moltissimo il patrimonio di sacrificio che hanno accumulato, la dedizione che dimostrano nel lavoro, il loro stesso metodo di lavoro. È vero che sono seri. In parlamento non li trovi mai impreparati, la loro presenza è più diligente della nostra, hanno gruppi di studio che funzionano bene, hanno fede... Come oppositori, inoltre, sono straordinari. E a me dà più soddisfazione un oppositore costante e preparato che un sostenitore il quale viene lì per darti il voto e basta. Però... Ecco: però sono convinto che il comunismo sia una dittatura. Quindi bisogna impedire in maniera assoluta che abbia successo. Suvvia, la dittatura del proletariato non è mica un accessorio, non è mica una partecipazione agli utili o alla gestione delle fabbriche! È una logica come, per la Chiesa, l’esistenza di Dio. E così come un papa non può dire che all’esistenza di Dio si crede nei mesi dispari e basta, non è sufficiente che un comunista creda alla dittatura del proletariato nei mesi dispari e basta (...)».
Mi sembra di capire che lei non si presterebbe a favorire il compromesso storico, come invece sostengono alcuni.
«Eh, no! Coi comunisti ci parlo ma non per fare il Kerenski. Poi guardi: secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all’atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista (...). Il nostro sistema è impostato su vari partiti, e tra questi conta in modo particolare il Partito socialista. Il compromesso storico significherebbe non solo la liquidazione dei vari partiti ma, in modo particolare, del Partito socialista (...). Il Partito comunista è portato per sua natura a risucchiare gli altri e persegue tale obiettivo coerentemente, non per calcolo subdolo o estemporaneo. Come ogni dittatura, del resto (...). Mi fanno sorridere quelli che si scandalizzano per Solgenitsin. Non lo sapevano che in Russia non c’è libertà di pensiero e di espressione? No, non ci credo, a questo compromesso storico. Non mi piace».
Eppure non pochi democristiani ci credono.
«(...) Chi non è comunista e considera quell’opportunità, commette lo stesso errore che commisero i liberali e i popolari quando, nel 1922, si affiancarono al fascismo nell’illusione di poterlo condizionare. Durò pochi mesi quell’errore storico. Ma essi furono sufficienti a dimostrare che collaborare col dittatore è una illusione assurda. Il dittatore ti spreme e poi ti butta via. Guardi, forse tra cinquant’anni le cose andranno diversamente: però oggi stanno così e non mi sembra il caso che si faccia da cavie per formule tanto pericolose (...). L’idea di Berlinguer è stata una mossa sbagliata. E sa perché? Perché la gente semplice non abboccherà».
Speriamo. Ma la gente semplice non conta.
«Chi lo dice?».
La gente semplice.
«Nei momenti essenziali conta. Lei mi crede cinico ma in questo non sono cinico per niente. E dico: la garanzia maggiore che abbiamo nelle cose di fondo è proprio la gente semplice perché, senza saper teorizzare sulla libertà, la libertà se la difende sul serio. Io son convinto che una parte notevole dell’elettorato comunista difende un tipo di vita che nel sistema comunista non potrebbe avere».
Vedremo come la maneggerete al referendum per il divorzio, la gente semplice. Se la rispettate tanto, la gente semplice, perché non incominciate a chiederle scusa di presentarvi a quel referendum accanto ai missini?
«Noi non ne facciamo una questione di partiti. Infatti non abbiamo chiesto di abrogare la legge in Parlamento. Avremmo potuto, perché in Parlamento, dopo la caduta del Psiup, la maggioranza divorzista non c’è più (...)».
Andreotti! Se dovessimo cambiare tutte le leggi ogni volta che cambia una legislatura, staremmo freschi. La legge sul divorzio esiste, non passò per un capriccio di Satana ma per una maggioranza democratica, e la Corte costituzionale l’ha giudicata valida due volte.
«La Corte costituzionale ha detto che il divorzio non è contro il Concordato, ma la Corte costituzionale non può impedire l’abrogazione di una legge. Se la Camera vuole abrogare una legge, può farlo in qualsiasi momento. Secondo me, la legge sul divorzio è sbagliata per un mucchio di ragioni (...). A parte il fatto, s’intende, ch’io sono contro il divorzio in generale. E non solo come cattolico. Infatti, se è vero che il divorzio può sanare alcune cose, è anche vero che impallina l’istituto matrimoniale».
Senta, Andreotti: ma perché vuole imporre il suo credo cattolico a tutti? Finora non ha fatto che inneggiare alla libertà e ora vorrebbe togliere la libertà di divorziare a chi non la pensa come lei. Mi sembra una grossa incoerenza, anzi una grossa prepotenza. Se il divorzio non le piace, non lo usi! Non è mica obbligatorio, sa?
«(...)Non era opportuno introdurre il divorzio in una fase di assestamento psicologico così difficile, mentre il paese subisce il permissivismo che ha invaso il mondo. Questo permissivismo aberrante (...) Per tanti anni non abbiamo avuto il divorzio. Si poteva aspettare ancora un poco, no? Che urgenza c’era? Non era il momento giusto, no».
Ah! Non è un’argomentazione degna di lei, Andreotti. E quando viene il momento giusto per cambiare le cose?! Se stessimo ad aspettare il momento giusto, saremmo ancora nelle caverne a chiederci se è il caso di costruire la ruota!
«Non si scherza col matrimonio. Non si può dire: divorzio, faccio un altro matrimonio, e poi un altro ancora. Non si deve».
E gli annullamenti della Sacra Rota, allora? Ma se la Chiesa cattolica annulla matrimoni da cui sono nati figli! Basta avere i soldi e un nome potente.
«Secondo me, il cammino che dovrebbe fare la Chiesa è un cammino inverso. E cioè di un maggior rigore, di una minore permissività. Dovrebbe annullare meno matrimoni, la Chiesa».
Questo è proprio essere più papista del papa. Meno male che lei non ha fatto il prete e non è diventato papa. Meno male che un mucchio di democristiani la pensano come me e non come lei.
«E tanta gente democristiana la pensa come me, non come lei».
Guardi che, se mi fa arrabbiare, io accendo la sigaretta.
«E io accendo la candela».
D’accordo. Tanto il mal di testa le viene lo stesso.
«No, no. Sono meno delicatino di quanto sembri. Sembro delicatino perché ho il torace stretto. Infatti, per via del torace stretto, non mi fecero fare l’allievo ufficiale. Pensi, da giovanotto non raggiungevo neanche il minimo di circonferenza toracica. Il maggiore che mi visitò disse: “Lei non durerà sei mesi”. Eh! Eh! Quando diventai ministro della Difesa, cercai subito quel maggiore. Volevo prendermi il gusto di invitarlo a colazione per dimostrargli che ero vivo. Ma non fu possibile. Era morto lui.»
Lo avrei scommesso.
Lui parlava con la sua voce lenta, educata, da confessore che ti impartisce la penitenza di cinque Pater, cinque Salve Regina, dieci Requiem Aeternam, e io avvertivo un disagio cui non riuscivo a dar nome. Poi, d’un tratto, compresi che non era disagio. Era paura. Quest’uomo mi faceva paura. Ma perché? Mi aveva ricevuto con gentilezza squisita: cordiale. Mi aveva fatto ridere a gola spiegata: arguto, e il suo aspetto non era certo minaccioso. Quelle spalle strette quanto le spalle di un bimbo, e curve. Quella mancanza quasi commovente di collo. Quel volto liscio su cui non riesci a immaginare la barba. Quelle mani delicate, dalle dita lunghe e bianche come candele. Quell’atteggiamento di perpetua difesa. Se ne stava tutto inghiottito in se stesso, con la testa affogata dentro la camicia, e sembrava un malatino che si protegge da uno scroscio di pioggia rannicchiandosi sotto l’ombrello, o una tartaruga che si affaccia timidamente dal guscio. A chi fa paura un malatino, a chi fa paura una tartaruga? A chi fanno male? Solo più tardi, molto tardi, realizzai che la paura mi veniva proprio da queste cose: dalla forza che si nascondeva dietro queste cose. Il vero potere non ha bisogno di tracotanza, barba lunga, vocione che abbaia. Il vero potere ti strozza con nastri di seta, garbo, intelligenza.
L’intelligenza, perbacco se ne aveva. Al punto di potersi permettere il lusso di non esibirla. A ogni domanda sgusciava via come un pesce, si arrotolava in mille giravolte, spirali, quindi tornava per offrirti un discorso modesto e pieno di concretezza. Il suo humour era sottile, perfido come bucature di spillo. Lì per lì non le sentivi le bucature ma dopo zampillavano sangue e ti facevano male. Lo fissai con rabbia. Sedeva a una scrivania sepolta sotto i fogli e dietro, sulla parete di velluto nocciola, teneva una Madonna con Bambin Gesù. La destra della Madonna scendeva verso il suo capo a benedirlo. No, nessuno lo avrebbe mai distrutto. Sarebbe stato sempre lui a distruggere gli altri. Con la calma, col tempo, con la sicurezza delle sue convinzioni. O dei suoi dogmi? Crede al paradiso e all’inferno. All’alba va a messa e la serve meglio di un chierichetto. Frequenta i papi con la disinvoltura di un segretario di Stato e guai, scommetto, a svegliare la sua ira silenziosa. Quando lo provocai con una domanda maleducata, il suo corpo non si mosse e il suo volto rimase di marmo. Però i suoi occhi s’accesero in un lampo di ghiaccio che ancora oggi mi intirizzisce. Dice che a scuola aveva dieci in condotta. Ma sotto il banco, scommetto tirava pedate che lasciavano lividi blu.
Ci sarebbe da comporre un saggio su Giulio Andreotti. Un saggio affascinante e inquietante perché tutto ciò che egli è va ben oltre il caso di un individuo. Rappresenta un’Italia. L’Italia cattolica, democristiana, conservatrice, contro cui tiri pugni che feriscono le tue nocche e basta. L’Italia di Roma col suo Vaticano, il suo scetticismo, la sua saggezza, la sua capacità di sopravvivere, sempre, di cavarsela, sempre, sia che vengano i barbari sia che vengano i marziani: tanto li porti tutti in San Pietro, a pregare. Alla politica non giunse di proposito: ignorava d’averne il talento. Al potere non giunse attraverso la lotta e il rischio: non aveva combattuto i fascisti. All’una e all’altro approdò per destino, vi rimase per volontà. La straordinaria invidiabile volontà che hanno gli sgobboni capaci di svegliarsi col buio: per lavorare. Ci comanda da circa trent’anni, cioè da quando ne aveva venticinque. Continuerà a comandarci in un modo o nell’altro, fino al giorno in cui gli impartiranno l’estrema unzione. Intimo di De Gasperi, membro della Consulta, deputato alla Costituente, alla Camera senza interruzioni, sei volte sottosegretario alla presidenza, segretario del Consiglio dei ministri, capogruppo parlamentare, ministro degli Interni, del Tesoro, due volte ministro delle Finanze e dell’Industria, sette volte alla Difesa, tre volte capo del governo. Lo sanno anche i bambini insieme alle storie che costruiscono il suo personaggio e che gli procurano tonnellate di voti: dai ricchi, dai poveri, dai giovani, dai vecchi, dai colti, dagli analfabeti. Ama il gioco del calcio, adora le corse dei cavalli, gli piace Rischiatutto, colleziona campanelli, ignora i vizi, è marito devoto e felice di una professoressa di lettere che gli ha dato quattro figli belli, buoni, studiosi. Ha un debole per l’America, per le bionde esangui e brillanti come la buonanima di Carole Lombard. Quest’ultime platonicamente, s’intende. Possiede grandi qualità di scrittore e, giustamente, i suoi libri non passano mai inosservati. Peccato che scriva solo di cose da cui si leva un profumo d’incenso.
Ecco l’intervista. Avvenne nel suo ufficio del centro studi, si svolse in tre fasi, durò cinque ore. E per cinque ore, io che fumo disperatamente, accesi un’unica sigaretta. Da ultimo. Non osai farlo prima. Non sopporta il fumo. Nessun genere di fumo, figuriamoci poi il fumo del fuoco che brucia il vecchio per costruire il nuovo. Lo combatte con una candela, il fumo e il nuovo, neanche fosse Satana.
Lei è il primo democristiano che affronto, onorevole, e sono un po’ preoccupata perché... Ecco, mettiamola così, perché non vi ho mai capito, voi democristiani. Siete un mondo così nebuloso per me, così gelatinoso. Un mondo che non riesco ad afferrare.
«Lei mi ricorda un discorso di Giannini alla Camera quando disse: “Io mi rendo conto che rappresentate una forza politica ma, se dovessi dire d’aver capito la Dc, mentirei”. Poi raccontò la storia della badessa che aveva due cardellini, e sperava di metterli insieme per fargli far coppia, ma i due cardellini non facevan mai coppia, e la povera badessa non riusciva a capire se ciò avvenisse perché i due cardellini erano dello stesso sesso. Peggio, non riusciva a capire a quale sesso appartenessero i due cardellini, se erano dello stesso sesso. E un giorno esclamò esasperata: “Alla faccia del somaro! Con lui si vede subito se è maschio o femmina!”. Raccontò proprio questa storia, Giannini, e conteneva una buona dose di verità. Perché vede, all’inizio era abbastanza chiaro cosa significasse essere democristiani: una linea di sociologia cristiana su una indiscutibile piattaforma democratica. Insomma, la linea di don Sturzo. Ma oggi non si può dire che le posizioni della Dc siano altrettanto chiare e, forse perché i problemi si aggrovigliano e cambiano, forse perché un partito non può viver di rendita... Che c’è? Desidera qualcosa?»
No, no. È che sono abituata a fumare ma so che lei non sopporta chi ha questo vizio e...
«Una volta un papa ciociaro, Leone XIII, offrì a un cardinale del tabacco da annusare. E il cardinale disse: “Grazie, non ho questo vizio”. E il papa rispose: “Se fosse un vizio, lei lo avrebbe”».
E chi sarebbe il cardinale? Io o lei?
«Dobbiamo rielaborare un programma della Dc, dicevo. Magari partendo dalla piattaforma iniziale e cioè dalla relazione Gonella del 1946 che fu per noi una specie di Magna Charta. Dobbiamo vedere quel che è stato fatto o non fatto, esaminare i problemi sopravvenuti, e poi, sulla nuova piattaforma, costruire una linea politica con un orientamento preciso. Altrimenti si finisce per lasciare l’iniziativa agli altri e subire i gol di contropiede. Un po’ il problema dei socialisti italiani: la mancanza di chiarezza rappresenta un motivo di grossa crisi anche per loro. Come loro, bisogna far marcia indietro sulle correnti, il frazionismo, gli agglomerati di carattere personale...»
Senta, Andreotti: nell’attesa di scoprire il sesso degli angeli, anzi dei cardellini, anzi dei democristiani, io vorrei dipingere il suo personaggio. Così, a ruota libera. Per esempio, e a parte il fatto che lei sia un gran bacchettone, mi piacerebbe sapere...
«Bacchettone? Io, quella del bacchettone, ecco: è vero che, quando posso, vado alla messa. È vero che, quando posso, mangio di magro il venerdì. Ma che c’entra? (...) Se un arabo non beve alcoolici e non mangia carne di maiale, tutti dicono: che bravo musulmano! Se un cattolico vive come me, tutti dicono: che bacchettone! Non religioso. Bacchettone.»
E va bene: religioso. A parte il fatto che lei sia tanto religioso, mi piacerebbe sapere perché divenne democristiano.
«Per via di De Gasperi, direi. Non ero ancora democristiano quando conobbi De Gasperi nella biblioteca della Santa Sede dov’ero andato per fare una ricerca sulla Marina vaticana e De Gasperi mi disse: “Ma lei non ha nulla di meglio da fare?”. Non ero niente, non mi ero mai posto il problema di una scelta politica. Avevo diciannove anni. Ma l’incontro con quell’uomo, De Gasperi, fu una specie di scintilla. Aveva un tale fascino, una tale capacità di convinzione. (...) Voglio dire: non mi sorse mai il dubbio di poter fare un’altra scelta: entrare nel partito socialista, ad esempio, o nel partito liberale. Per carità, mai avuto tentazioni del genere. Quanto ai comunisti, già allora ero certo della non conciliabilità tra comunismo e democrazia. C’è una lettera a Franco Rodano, 16 ottobre 1943, che lo dimostra. Rodano apparteneva al gruppo dei comunisti cattolici: gente di cui ero amico e a cui volevo bene. E il papa, Pio XII, era piuttosto allarmato da quei comunisti cattolici. Così, quando all’inizio del ‘43 furono arrestati, mi preoccupai subito che egli non li sconfessasse in un certo discorso che doveva tenere agli operai nel mese di giugno. Oltretutto ciò avrebbe portato acqua al mulino di chi lo accusava di collusione coi fascisti. E mi recai subito da lui ma non lo trovai e gli lasciai un bigliettino. “Santo Padre, ero venuto a farLe visita perché ci sono questi ragazzi in prigione e vorrei pregarLa di non toccare quel tema...”».
Un momento. E lei andava dal papa così, come io vo dal tabaccaio? Gli lasciava bigliettini così, come io li lascio alla mia segretaria?
«Ma certo. Ero presidente della Fuci, andavo spesso dal papa. I grandi rami dell’Azione cattolica avevano un’udienza fissa col papa ogni due mesi e, in quel periodo, lo vedevo ancora più spesso. Era molto gentile con me, mi trattava con grande calore. Naturalmente non dimenticavo mai che lui era il papa e io uno studente di ventiquattr’anni, però... Insomma gli lasciai questo bigliettino e lui mi ascoltò. Nel suo discorso agli operai non fece allusione al gruppo dei comunisti cattolici e, due settimane dopo, quando tornai in Vaticano per accompagnare alcuni nostri dirigenti che venivano ricevuti in udienza generale, mi disse: “Sei contento?”. Nessuno capì cosa intendeva dire ma io capii e risposi: “Molto contento”. Ah, Pio XII era un sant’uomo. Era un grande papa, il più grande di tutti. Solo a stargli accanto, a guardarlo, intuivi che era diverso: più illuminato, più ispirato, più eletto...»
C’è chi dice il contrario. E poi sembra che picchiasse i cardinali.
«Io non lo so. Se lo faceva, significa che lo meritavano».
Già. Però mi sorprende che preferisca Pio XII a Giovanni XXIII.
«Ecco, sì. Perché vede... insomma... il tipo di comunicativa che aveva Giovanni XXIII lo costringeva a scendere dal piedistallo. Una volta portai da lui i miei bambini e, per metterli a loro agio, dopo averli fatti accomodare, gli disse: “Vedete quest’armadio? Prima era tutto aperto e io ci ho messo gli sportelli perché mi sembrava una cappelliera”. Giovanni creava subito un clima familiare, si comportava con molta semplicità. Però credo che fosse una semplicità molto intelligente, cioè molto finalizzata... Per esempio: ricordo il giorno in cui a Roma, al Tuscolano, quartiere popolare, si fece dare un microfono per parlare alla gente in piazza. Non era previsto che parlasse, e gli portarono il microfono e ne venne fuori un discorso così: “Vedete, Roma è una città difficile perché è una città dove i meriti non vengono riconosciuti. Oppure dove si regalano meriti che le persone non hanno. Per esempio di me si dice che sono umile perché non voglio andare in sedia gestatoria. Ma non è che io non ci vada perché sono umile: non ci vado perché sono grasso e, sulla sedia gestatoria, ho sempre l’impressione di cadere”. La risata che scoppiò! Ce l’ho ancora negli orecchi. (...)».
Ha conosciuto bene anche lui?
«Oh, sì! Benissimo. Per ragioni di famiglia. Da giovane egli era stato amico intimo di uno zio di mia moglie (...)».
Perbacco! Conosce bene anche Paolo VI?
«Oh, sì, certo! Benissimo. Era assistente della nostra organizzazione universitaria cattolica. Però lui da qualche tempo lo vedo poco. L’ultima volta, si figuri, l’ho visto il 2 gennaio scorso in udienza generale, accompagnando un gruppo di ciociari per il settimo centenario di San Tommaso d’Aquino. In genere evito di recarmi da lui. Sa, per non confondere il sacro col profano. Per ragioni politiche, mi spiego? Direi che in Vaticano ci andavo di più prima. Del resto, anche allora ci andavo con parsimonia. Oh, i nostri contatti col Vaticano sono minori di quanto la gente creda. Voglio dire: nelle grandi cose... negli interessi comuni come il Concordato... si capisce che... Ma per il resto... Pensi, in tutto il periodo di Pio XII, De Gasperi è stato in udienza solo due volte. Le altre volte ci è andato per partecipare a qualche manifestazione. Ad esempio per L’Annonce faite à Marie di Claudel. No, col Vaticano non abbiamo tutti i rapporti che crede.»
Ah! Su questo mi permetta d’essere incredula. Specialmente nel suo caso. Lo sanno anche i bambini che se in Italia v’è un uomo legato agli ambienti ecclesiastici, questi è Andreotti. Papi a parte.
«Rapporti personali, sì. Legami, sì. Ma la maggior parte di questa gente io la conosco da tempi in cui pensavo a tutto fuorché alla politica. E, comunque, il mio non è un rapporto clericale (...)».
Senta, Andreotti: ha mai pensato di farsi prete?
«È difficile dirlo. Forse avrei potuto, non so. Se ciò può darle un’idea, da ragazzo passavo sempre le vacanze insieme a due coetanei e uno di questi, ora, è nunzio apostolico: l’altro è arcivescovo a Chieti. Però mi son sempre trovato benissimo nella mia locazione di marito e padre di famiglia, mi è piaciuta sempre di più e non ho mai avuto rimpianti. Forse perché sono stato fortunato e ho avuto un’ottima moglie, ragazzi normali e studiosi... Comunque non posso dire d’aver mancato alla vocazione di prete. La mia sola vocazione mancata è quella di medico. Oh, fare il medico mi sarebbe piaciuto moltissimo. Ma non potevo permettermi sei anni di medicina. Non ero ricco. Mio padre, un maestro elementare, era morto quando ero appena nato: appena iscritto all’università, dovetti mettermi a lavorare. Mi iscrissi a legge, mi laureai con l’idea di fare il penalista. Con enorme rimpianto, però. Sì, enorme. Infatti ce l’ho ancora. Pazienza, ormai è andata. Il bello è che nessuno dei miei figli ha voluto studiar medicina. Uno si è laureato in filosofia, uno si laurea adesso in ingegneria, il terzo in legge, e la quarta fa il secondo anno di archeologia».
Bè, se avesse fatto il medico, oggi non sarebbe uno degli uomini più potenti d’Italia. Non vorrà negare infatti che, nel suo caso, la politica è sinonimo di potere.
«Io direi di no. Nel mio caso non assocerei affatto la parola politica con la parola potere perché guardi: io, quando scrivo o partecipo a una discussione, mi sento più entusiasta politicamente di quando ho responsabilità di potere formale e concreto. La cosa che mi ha dato più soddisfazione in questi venticinque anni è stata fare il capogruppo alla Camera. Certo, bisogna stabilire la definizione di potere. Per la stampa, ad esempio, il potere è quello che si vede nel suo aspetto esterno. Se uno è ministro delle farfalle e dice che oggi è venerdì, subito riportano le sue parole con ossequio: “Il ministro delle farfalle ha dichiarato che oggi è venerdì”. Se invece elabora una teoria o esprime un’idea, ha difficoltà a metterla in circolazione. In altre parole, se per potere si intende avere un dato peso e far valere certe idee, indurre gli altri a tenerne conto, allora mi sento abbastanza uomo di potere. Anche se a volte mancano gli strumenti del comando...»
A chi? A lei?!? Lei che ha tanta influenza sulla polizia, sull’esercito, perfino sulla magistratura? Lei che è stato amico di tre papi, che fa di mestiere il ministro e possiede i dossier di tutti i politici italiani?!?
«Queste sono leggende assolute. Se vuole consultare il mio archivio, glielo faccio vedere. È a sua disposizione, veramente. Certo, quando uno è stato per anni ministro della Difesa, conosce molta gente. E io conosco molta gente: non v’è dubbio. Ma non ho mai ritenuto che il potere consistesse nel farsi i fascicoli per ricattare. Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra: mai meno di una cartellina. Se per caso una sera ho mal di testa e non scrivo, il giorno dopo riempio subito il vuoto. Così, se devo fare un articolo su qualcosa che accadde venti anni fa, consulto il mio diario e trovo cose che non troverei certo sui giornali. Certo, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all’infuori di me e son cose che tengo solo per me. Quello nessuno deve leggerlo all’infuori di me. È proprio segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno in cui morrò. Ma i miei fascicoli, creda, consistono solo in ritagli di giornale. Se vuole consultarne uno glielo do. Avanti, dica un nome. Lo dica».
Fanfani. Detto anche il padrone d’Italia. Non è il suo grande nemico, Fanfani? Non è forse vero che può ringraziare Andreotti per non essere diventato presidente della Repubblica?
«No, non è vero. I voti del nostro gruppo li ebbe, salvo piccolissimi margini. La Democrazia cristiana i voti glieli dette. Ma da sola, si sa, la Democrazia cristiana non può eleggere il presidente della Repubblica (...)».
Non mi riesce farla arrabbiare. Ma lei è sempre così controllato, così imperturbabile, così marmoreo?
«Sì perché non vale la pena dar soddisfazione a chi ti fa arrabbiare. A che serve fare il cerino che s’accende e salta su? Del resto la gente che alza la voce e addirittura dice brutte parole mi dà un tale fastidio! Secondo me, è indice di scarse convinzioni. Se uno è convinto di qualcosa non ha mica bisogno di battere i pugni sul tavolo, sudare, eccitarsi! Sono ridicoli quelli che si arrabbiano e magari offendono. Poi devono far mille storie per scusarsi, eccedono nell’altro senso, si umiliano... In Italia c’è una tradizione di polemica clamorosa, gridata. Ma io sono romano e preferisco non drammatizzare oltre il necessario: esser romano aiuta molto a ridimensionare i problemi ed è un vero peccato che Roma non sia quasi mai riuscita ad essere governata da romani. Se pensa che prima di me non c’era mai stato un presidente del Consiglio romano, che erano stati sempre sudisti o nordisti... Il che include i toscani perché per noi la Toscana è già nord... Comunque guardi: anche quando vado alle partite di calcio, che mi divertono tanto, io resto calmo. E così quando vado alle corse dei cavalli. Sì, le corse dei cavalli mi piacciono ancora di più. Il movimento delle persone, il gioco dei colori, la suspense, la scommessa... Che vinca o che perda, nessuno si accorge se sono eccitato o nervoso. A parte il fatto che vinco quasi sempre perché son fortunato. Gioco poco, scommetto poco, ma in genere vinco».
Parla dei cavalli o della politica?
«Non che i cavalli siano la mia sola evasione. Io mi diverto anche al cinematografo, o a guardar Rischiatutto, o a scrivere libri. Scrivere mi scarica, mi disintossica, mi fa dimenticare i decreti legge e gli ordini del giorno. Comunque tutti questi piaceri hanno un denominatore comune: calmarmi e aiutarmi a rinsaldar l’equilibrio. Sa, a me piace molto stare con gente che non si occupa di politica. Le racconto una cosa. Io per tanti anni ho fatto la cura a Montecatini. La prima volta che ci andai ero sottosegretario alla presidenza e il direttore delle terme venne a prendermi dicendo: “La accompagno allo stabilimento per mostrarle dove mettiamo i deputati e i senatori”. E io risposi: “Bravo, mi ci porti subito, me lo indichi con grande esattezza, così io vado in un altro stabilimento”. E così feci. Non per evitare i miei colleghi ma per non alimentare una specie di congregazione. La politica è una cosa che arrugginisce e guai a restarne anchilosati: si finisce per non vedere più nulla al di fuori di quella e con l’essere pessimi interpreti di chi ci elegge.»
È questa la sua definizione della politica?
«Io... guardi... io darei molto per definirla come gliel’hanno definita i miei colleghi: la politica è cultura, è morale, è missione, è storia dell’arte eccetera. Ma non ci riesco. D’altronde è come se chiedesse a un pesciolino di definire l’acqua in cui sta. Un pesce non sa definire l’acqua in cui sta, sa solo che la sua vita è quella. Le ho già detto, credo, che se m’avessero vaticinato la carriera politica quand’ero al liceo, io mi sarei messo a ridere. E, ancora oggi, essa non mi ha schematizzato. Infatti non appartengo al genere di coloro che si perdono in astrazioni e ad esempio dicono “il lavoratore non vuole la proprietà della casa, vuole il diritto di superficie”. Cosa significa? Perché parlano così? Hanno forse paura di non sembrare colti? Oppure hanno idee così poco chiare che non sanno esprimersi? Spesso sono quelli che dicono noi-che-siamo-vicini-ai-lavoratori: espressione stupenda perché sono sempre vicini e non lavorano mai. Oh, ha ragione mia madre quando afferma che, a sentirli parlare alla televisione, non si capisce nemmeno la metà di ciò che dicono. A me il vocabolario politico dà una noia mortale. D’accordo: la teoria deve esistere sennò si lavora sulla sabbia, però bisogna tener conto della gente che non trova il sale e lo zucchero e non vuole essere aggredita quando va a riscuotere la pensione... che c’è? Desidera qualcosa?».
No, no. Cercavo automaticamente una sigaretta senza ricordare la storia di Leone XIII e del cardinale.
«Mah! Se vuole proprio fumare, fumi. Guardi, accendo la candela. Vede, ho una candela apposta, speciale. Depura l’aria e mi evita il mal di testa. Non è ch’io non sopporti chi fuma: non sopporto il fumo. Alimenta il mio mal di testa e io soffro di mal di testa feroci, che mi mettono fuorigioco per tre o quattro ore. Non ho mai capito da cosa vengano. Forse, da un’eredità strutturale. Ne soffriva mio padre, e anche mia madre. O forse sono di natura reumatica. Però si manifestano anche quando sono stanco, quando mi sento teso, quando prendo umidità. Ma se proprio vuol fumare, fumi».
Dopo quel che mi ha detto? No, no. Continui, la prego.
«Si parlava della politica vista come concretezza. Ebbene, da noi c’è sempre stato un disprezzo per chi dà peso alle cose di ordinaria amministrazione ma una delle cose che mi hanno soddisfatto di più nella mia vita è successa proprio in tema di ordinaria amministrazione, quand’ero ministro delle Finanze. C’era un enorme contrabbando di petrolio e io, invece di piagnucolare, feci una commissione. Poi chiamai un comandante delle guardie di Finanza e gli dissi: “Voglio un giovane capace, sveglio”. E lui mi dette un capitano che ora è colonnello. Il capitano si fece assumere come operaio in una raffineria e gli ci vollero appena sei mesi per scoprire la verità. Intorno a ogni raffineria c’è una grande apparecchiatura per portare l’acqua in caso di incendio. E loro, invece di portare dentro l’acqua, portavano fuori il petrolio. A un chilometro fuori del cancello non c’era più la Finanza, non c’era più controllo, così potevano caricare il petrolio sulle autocisterne e via. Feci un decreto legge con cui stabilivo che nessuno può portare la benzina su un’autocisterna se non ha un pezzo di carta che dica dove l’ha caricata e dove la scarica e... sa che quell’anno incassammo ventotto miliardi in più di imposta? Ah, se perdessimo meno tempo a farci lotta nei congressi, nei precongressi, nelle sezioni, nelle correnti, e ci occupassimo di più delle cose essenziali!».
Scusi, Andreotti: ma se lei capisce queste cose, come mai ha combinato tanti guai col suo governo? Il crollo della lira, l’aumento dei prezzi...
«A me sembra molto ingiusto dire quello che lei dice. Un governo è sempre figlio del governo che lo precede, padre del governo che lo segue, e il mio governo nacque perché era fallito il centrosinistra. Era una vita quasi impossibile: avevamo margini così piccoli. Al Senato, per esempio, bisognava rifare i conti ogni giorno e questo ostacolava anche un minimo di programmazione. Dentro il governo di coalizione nei primi sei mesi, ci fu una certa compattezza: ma in gennaio una parte notevole dei ministri si mise a pensare più al futuro che al presente. E questo ci indebolì. Però certe decisioni furono prese coi piedi per terra: quelle sul doppio corso della lira, quelle per non far uscire nemmeno un grammo d’oro... Non è assolutamente vero che io sia il responsabile del crollo della lira. Al contrario, la lira sarebbe crollata se il mio governo non avesse preso certe decisioni. Non dimentichiamo i problemi internazionali: da parte di un paese produttore di petrolio subimmo speculazioni che, in un solo giorno, influirono sul prezzo della lira per un ammontare di duecento miliardi di lire. Se avessimo accettato la norma comunitaria per cui le transazioni valutarie fra i vari paesi della Cee devono esser pagate metà in oro e metà in moneta europea, entro un mese non avremmo più avuto né un grammo d’oro né un dollaro. E che se ne sarebbe fatta, l’Europa, di un’Italia distrutta finanziariamente?»
Son portata a darle ragione ma questo governo dice che non fa che riparare ai guasti del governo Andreotti...
«Mi sembra un discorso molto presuntuoso da parte loro. E gli rispondo così. Quand’ero bambino passavo l’estate in una casa di campagna dove le tubature dell’acqua versavano giorno e notte. E non veniva mai l’idraulico sebbene avere un idraulico, allora, non fosse difficile come lo è oggi. E si stava sempre con queste gocce d’acqua per terra. Poi, un giorno, arrivò l’idraulico. E ci fu gran festa, si levarono esclamazioni di gratitudine e gioia. E l’idraulico si mise al lavoro, circondato dalla nostra gratitudine e gioia, e... sfasciò tutto. Allagò la casa. Dunque non vorrei che gli attuali restauratori combinassero ciò che combinò quell’idraulico. Oh, non esistono soluzioni di centrosinistra o di centrodestra o di centro. Esistono soluzioni valide e basta. Oggigiorno, tre quarti dei problemi hanno dimensioni così internazionali che non si rimedia alle gocce per terra con una martellata. Certo, se si va avanti così, se non si aumenta la produttività, se non si ottiene più valuta stimolando ad esempio il turismo...»
Come? Coi cinema e i teatri che chiudono a mezzanotte, coi ristoranti che ti cacciano prima delle undici, con le domeniche senza automobile, col razionamento della benzina?
«Io non voglio fare il Pierino della situazione ma, in questo, do ragione a lei. Non è certo bloccando le automobili la domenica che si risolve il problema. Nella percentuale globale della consumazione del greggio, ciò che si consuma per circolare in automobile raggiunge appena il 15%. Ma per circolare sette giorni su sette, non la domenica e basta».
Oppure si potrebbe stimolare il turismo con un bollettino plurilingue sui nostri scandali, magari sostituendo l’attrazione del latin lover con quella del politico corrotto.
«Forse non è ancora sera e bisogna aspettare la sera per arrivare a giudizi troppo catastrofici. Non vorrei apparire come l’eterno mediatore ma certe cose finiscono spesso con l’avere una funzione positiva e riequilibrare ciò che è storto. Insomma, potrebbe anche darsi che questo terremoto riassestasse molte faccende. Il mio timore è che serva soltanto alle speculazioni di parte: finché non c’è un processo e un verdetto e un appello e una sentenza definitiva non si può dire che una persona abbia violato la legge. No, non è giusto che nello spazio di una settimana un uomo si trovi già giudicato dal clamore di un’accusa. Perché dopo, anche se viene assolto con formula piena, la sua onorabilità è compromessa. E così quella del sistema. Noi abbiamo avuto casi formidabili di procedimenti contro personaggi politici che in sede d’appello, e perfino d’istruttoria, si sono risolti con tante scuse. Il fatto è che ci vuole un maggior rispetto del segreto istruttorio: in Italia, invece, il segreto istruttorio è una beffa. Ognuno dà conferenze stampa: dal questore al magistrato. E poi, magari, si dà la colpa al giornalista: ma-lei-come-fa-a-scrivere-questo. E gliel’ha detto il questore o il magistrato (...)».
D’accordo. S’è visto con Valpreda. «Ecco l’assassino» scrissero sulla copertina di un settimanale che si presenta come progressista. Ma io...
«Lei sa che durante il mio governo uno degli atti che furono accusati di debolezza fu proprio la legge che consentì a Valpreda d’essere scarcerato? E quando alcuni vennero a dirmi “allora tu sei per Valpreda”, risposi: “Io non so se Valpreda sia responsabile o no. Non spetta a me saperlo e si vedrà al processo. Ma se tuo figlio fosse in carcere con l’incertezza di un’imputazione, saresti contento se restasse lì due o tre anni ad aspettare che i giudici si mettano d’accordo su chi deve giudicarlo?”. Mah! Forse deriva da un tipo di educazione, anzi di maleducazione. Forse ci manca una cultura basata sul rispetto della gente. Comunque sia, il nostro è un sistema che incita al linciaggio. E non tanto al linciaggio fisico quanto al linciaggio morale. Quello che c’è stato anche nel caso di Valpreda (...)».
Sì, sì, sì. Verità sacrosante. Ma ciò non cambia l’indiscutibile vergogna che esista una gran corruzione in Italia. Lei ha sviato il discorso. Lo scandalo esiste ed anche i partiti ne sono rimasti coinvolti.
«Ho detto che non è ancora sera. Per esempio, dei comunisti non s’è parlato ancora ma anche loro come vivono finanziariamente? Che ricevano aiuti dall’estero non è una malignità: è un fatto. E tra i personaggi che potrebbe interpellare c’è Eugenio Reale che è stato loro amministratore. Forse qualcosina potrebbe dirgliela. Via, scopriamo l’America a dire che ogni partito riceve aiuti esterni! O si arriva davvero al finanziamento statale... Ma è il caso di crederci al finanziamento statale? De Gasperi, ad esempio, non ci credeva. Diceva che l’opinione pubblica non lo avrebbe accettato o vi avrebbe reagito con grande disagio: “Non suona bene dare i soldi dello Stato ai partiti”. Forse, se si potesse convincerli davvero a rendere pubblico il loro bilancio e a non avere segreti sulle entrate e sulle spese... Ma i partiti non rivelano mai i loro bilanci. Nemmeno agli iscritti. Io faccio parte della direzione della Dc e, in trent’anni, non ho mai visto un bilancio. Negli altri partiti credo che avvenga lo stesso (...)».
Andreotti, poco fa lei m’ha detto che questo terremoto potrebbe assestare le cose. Però dovrebbe saperlo che i terremoti, in Italia, non assestano nulla perché, dopo il fracasso iniziale, non se ne parla più.
«Forse perché si mette troppa roba al fuoco in una volta sola. Nell’enorme calderone che ne consegue, si perdono di vista le cose essenziali. Vede, ogni governo parte con un programma che non basterebbero quindici anni per attuarlo. Non si fa più come Nitti che faceva un governo per nazionalizzare le assicurazioni sulla vita e basta. Era un programma limitato, certo, ma era anche un programma chiaro e consentiva di controllare i risultati. Non si fa più come De Gasperi che buttava sul tappeto la riforma agraria, ne tirava fuori una legge e l’applicava. Oppure come Vanoni che fece la riforma tributaria, e la gente brontolò, però quando si vide in mano il modulo Vanoni concluse che in bene o in male aveva fatto qualcosa. Oggi c’è un dialogo astratto tra i partiti, io-sono-più-avanzato-di-te, no-sono-io-più-avanzato-di-te, io-son-più-bello-di-te, tu-sei-più-brutto-di-me... non in senso fisico, s’intende, giacché in quel senso resteremmo tutti buscherati... Comunque non si parla più delle cose pratiche. I governi non hanno il tempo di fare nulla perché, quando un governo nasce, non si sa mai se il giorno dopo ci sarà. Prenda l’intercettazione telefonica...»
Ha il telefono controllato anche lei?!
«Non lo so. Spero di no. Ma non lo so mica. Perché, ha mai visto la copertina dell’elenco telefonico di Roma 1972-73? Eccola, guardi. Proprio in copertina: “Detective privato Tony Ponzi. Premio Maschera d’oro. Opera personalmente per controlli, indagini industriali e private, anche con apparecchiature elettroniche miniaturizzate. Ovunque”. D’altronde, se uno fa il quarantotto perché il suo telefono è controllato, la malignità comune può dire: sarà-che-non-voglia-farsi-sentire-perché-ha-qualcosa-da-nascondere?».
Bel discorso. Ma lei, quand’era al governo, cosa fece contro questo schifo del telefono controllato?
«Io, come stavo per dirle, denunciai il problema e incaricai i miei ministri di tirar fuori un progetto. Il progetto fu preparato ma poi dovemmo andarcene e... si torna al ragionamento di prima: come si fa a fare le cose se non ci danno il tempo? Bisognerebbe dire a un governo, qualsiasi governo: “Tu rimani in carica due anni. Se alla fine dei due anni non hai realizzato nemmeno due o tre cose fondamentali, se non ci sei riuscito, ti mando a spasso e ti interdico. Per dieci anni non potrai più partecipare a un governo”. Invece accade quello che accade, senza contare che il capo del governo deve passar la giornata a occuparsi del prezzo del miglio o della conferenza di Copenaghen. E la giornata dura soltanto ventiquattr’ore.
Impiegatele meglio le vostre ventiquattr’ore. Non occupatevi del prezzo del miglio. Non ci andate alla conferenza di Copenaghen. Ben per questo non funziona nulla in Italia e rischiamo di assistere al suicidio della libertà.
«Forse lei esagera. Non voglio negare che vi sia qualche fondamento in ciò che lei afferma un po’ brutalmente ma non è giusto dire che in Italia non funziona nulla. Anzitutto, se si pretende di far funzionare tutto, si chiede una ricetta che non esiste. E poi non potrebbe darsi che si vedesse solo ciò che non funziona ignorando ciò che funziona? Qualcosa funziona. C’è un numero notevole di persone che fanno il proprio dovere, che lavorano regolarmente, che studiano regolarmente e si laureano bene. Bisogna stare attenti a non distruggere tutto. Può condurre non dico ai colonnelli ma a un Giannini, cioè a uno stato di scontentezza perenne che non rafforza la democrazia. Non possiamo dire di trovarci all’anno zero (...). La democrazia è un sistema faticoso: pieno di lentezze, di trabocchetti. Richiede pazienza e anche errori».
È vero. Ma l’autocompiacimento è il sale delle dittature, la critica è il sale della democrazia. E le chiedo come uomo di potere, come classe politica dirigente, può affermare d’aver la coscienza tranquilla?
«Ecco, la coscienza tranquilla uno non può averla mai perché pensa sempre che avrebbe potuto far meglio e di più. E poi il gioco politico non è mai un gioco individuale: come al football, si lavora in squadra (...)».
Non ho detto Giulio Andreotti e basta. Ho detto Giulio Andreotti come rappresentante del potere e della classe politica dirigente.
«Allora mi lasci dir questo: come classe politica, noi siamo partiti da una grande inesperienza. Se vent’anni fa avessimo potuto impostare la ricostruzione dell’Italia con l’esperienza che abbiamo oggi, avremmo fatto meno errori e il triplo di cose buone. Suvvia, non sapevamo nemmeno parlare in pubblico! Eravamo così impreparati! (...). Se giudica tutto dalle piccole cose, dalle nostre miseriole, dai nostri sbagli quotidiani, ha ragione a dire che siamo con le gomme a terra. Ma, se guarda in prospettiva storica, deve concludere che non ce la caviamo male. Io sono ottimista».
Beato lei.
«Sì perché non guardo mai le cose con uno stato d’animo eccitato. Non serve ed è pericoloso. Ed anche se sono preoccupato mantengo un certo distacco. Per esempio: nelle altre interviste lei ha discusso il fatto che gli italiani siano fondamentalmente anarchici. Lo sono. Ciascuno di noi è una piccola culla del diritto, ciascuno di noi rifiuta di stare al posto suo: i sindacati vogliono occuparsi del referendum, le regioni vogliono occuparsi del Vietnam... E, sebbene la Costituzione parli di diritti e di doveri, ognuno parla di diritti e mai di doveri. È considerato antidemocratico parlare di doveri. Siamo bambini in quel senso. Però... siamo anarchici e andiamo a votare più che in qualsiasi altro paese. Siamo anarchici e, quando ci viene chiesto di non usare l’automobile, andiamo a piedi. Non ci piace l’ordine e ci scandalizziamo per il disordine... Insomma non ritengo, come lei, che la nostra libertà sia in pericolo. Oh, lo so che rischio di sembrare melenso ma prenda l’esempio di Italia Nostra. Sembrava che tutti si sentissero autorizzati a deturpare il paesaggio come volevano e invece Italia Nostra ha riequilibrato la situazione».
Andreotti, io parlo di libertà e lei mi parla di paesaggio. Se avvenisse un golpe in Italia...
«Non credo a queste cose complicate. Certe cose presuppongono un letargo e in Italia non c’è affatto letargo. C’è una grande vitalità delle istituzioni».
Se lo dice lei, mi sento più tranquilla. Perché sa qual è la voce che corre? È che se avvenisse un golpe in Italia, il primo a saperlo sarebbe lei.
«Io penso di no. Io penso che sarei tra i primi ad essere arrestato. E, comunque, le ripeto che al golpe non ci credo. La mia paura è un’altra: è che la gente perda la sensazione che questo sistema, il sistema democratico, garantisce una vita tranquilla e normale. La posta che non arriva, la criminalità che aumenta... Al farmacista vicino a casa mia, stanotte, hanno svaligiato il negozio e certo lui non è contento dello status quo. Comunque non credo ch’io sarei il primo a sapere una cosa brutta come quella che dice lei».
Anche questo mi solleva. Senta, Andreotti: lei lo sa, vero, che la definiscono uomo di destra. Rifiuta o no tale definizione?
«Direi che la rifiuto perché la qualifica uomo-di-destra in Italia non viene data per collocare una persona ma per metterle il piombo alla sella, per crearle ostacoli. Il nominalismo è un’altra malattia degli italiani e v’è una tale ipocrisia nelle parole destra e sinistra. Preferisco che mi chiamino conservatore. In molti sensi, e sia pure in termini di preoccupazione democratica, sono un conservatore. Infatti mi accorgo che, quando si vogliono cambiare le cose, si finisce quasi sempre per cambiarle in peggio. Quindi è meglio tenersele così come sono (...). Le riforme? Se sono buone, piacciono anche a me ma spesso sono una chiacchiera e basta. Ottengono solo di peggiorare le cose, come la riforma ospedaliera, o di lasciare il tempo che trovano. Io posso anche fare una riforma perché lei diventi regina d’Inghilterra. Ma poi non lo diventa».
Non voglio diventare regina d’Inghilterra, non mi piace Filippo. E io alludevo ad altre cose, Andreotti. Al suo abbraccio col maresciallo Graziani, per esempio.
«Gliela racconto subito quella storia. C’era stato un convegno del Msi ad Arcinazzo, e Graziani era presidente del Msi. Ciò mi aveva preoccupato perché in Ciociaria non v’era famiglia che non avesse ricevuto da Graziani un piccolo favore e non mi piaceva che Graziani raccogliesse voti. Così indissi una specie di controraduno democristiano e, appena giunsi, trovai il questore pallidissimo: “Tra la folla c’è il maresciallo Graziani!”. Risposi che non me ne importava nulla e feci il mio comizio spiegando che la democrazia non si discuteva. Finito il comizio, si alzò un vocione: “Posso parlare?”. Ed è lui. “Prego, parli pure. Siamo in democrazia”, gli dico. E lui viene al microfono e dice: “Ah, io non m’intendo di politica ma devo ammettere che se si è fatto opera di rimboschimento su queste montagne, su queste vallate, lo si deve a De Gasperi”. Roba da operetta (...). L’abbraccio non ci fu in nessun senso: né fisico né morale (...)».
E poi alludevo all’accusa secondo cui, in diverse occasioni, lei avrebbe accettato i voti dei missini.
«È un’altra fandonia. Cifre alla mano. Noi della Dc facemmo l’azione contro Almirante proprio nel momento in cui ci opprimeva una scarsezza di voti. Per arrivare al suo processo, io personalmente mandai una lettera al mio gruppo parlamentare. No, non è vero che i missini mi abbiano dato i loro voti (...)».
Andreotti, le rivolgo una domanda che ho rivolto anche a Malagodi: non rimpiange di non aver fatto, in gioventù, un antifascismo attivo?
«Io sì. Certamente. Una delle radici anzi la radice di quel che s’è fatto bene in Italia nei primi dieci anni di democrazia consiste proprio nella spinta morale di coloro che fecero un antifascismo attivo. La battaglia del 1948 ad esempio non fu un rozzo scontro frontale: fu il recupero di una capacità di battersi democraticamente. E quella capacità ci venne anche dal Cln. Il Cln fu una gran cosa (...)».
Allora le chiedo un’altra cosa che chiedo spesso a chi non è fascista. Ma lei riesce a parlarci coi missini?
«Guardi, quando uno sta venticinque anni in Parlamento e vede sempre le stesse persone, finisce col parlarci e magari bere insieme un caffè. E quando va alla partita di calcio nella tribuna dei deputati, come fa a negare un buongiorno? M’è capitato di parlare con Almirante, ovvio. Niente discorsi approfonditi ma... Del resto, parlare agli avversari non è una caratteristica di ogni parlamentare civile? Io parlo con chiunque. Senza repulsione, senza disagio. Scambiarsi idee o informazioni non significa mica tendersi trabocchetti o fare del proselitismo. È lo stesso pei comunisti. Io, quando si discuteva la legge sul divorzio, ho avuto incontri molto approfonditi coi comunisti (...). Vi sono comunisti con cui è piacevolissimo stare. Pensi a Pajetta. Pensi a Bufalini».
E Berlinguer?
«Lui lo conosco poco. Appartiene a una generazione più giovane della mia. Conoscevo meglio suo padre che era del Partito d’Azione e poi socialista. Però so che è un giovane molto riservato, un buon padre di famiglia, e questo conta molto per me. Rappresenta un elemento di equilibrio. Guardi, il mio rapporto coi comunisti è abbastanza chiaro. Infatti rispetto moltissimo il patrimonio di sacrificio che hanno accumulato, la dedizione che dimostrano nel lavoro, il loro stesso metodo di lavoro. È vero che sono seri. In parlamento non li trovi mai impreparati, la loro presenza è più diligente della nostra, hanno gruppi di studio che funzionano bene, hanno fede... Come oppositori, inoltre, sono straordinari. E a me dà più soddisfazione un oppositore costante e preparato che un sostenitore il quale viene lì per darti il voto e basta. Però... Ecco: però sono convinto che il comunismo sia una dittatura. Quindi bisogna impedire in maniera assoluta che abbia successo. Suvvia, la dittatura del proletariato non è mica un accessorio, non è mica una partecipazione agli utili o alla gestione delle fabbriche! È una logica come, per la Chiesa, l’esistenza di Dio. E così come un papa non può dire che all’esistenza di Dio si crede nei mesi dispari e basta, non è sufficiente che un comunista creda alla dittatura del proletariato nei mesi dispari e basta (...)».
Mi sembra di capire che lei non si presterebbe a favorire il compromesso storico, come invece sostengono alcuni.
«Eh, no! Coi comunisti ci parlo ma non per fare il Kerenski. Poi guardi: secondo me, il compromesso storico è il frutto di una profonda confusione ideologica, culturale, programmatica, storica. E, all’atto pratico, risulterebbe la somma di due guai: il clericalismo e il collettivismo comunista (...). Il nostro sistema è impostato su vari partiti, e tra questi conta in modo particolare il Partito socialista. Il compromesso storico significherebbe non solo la liquidazione dei vari partiti ma, in modo particolare, del Partito socialista (...). Il Partito comunista è portato per sua natura a risucchiare gli altri e persegue tale obiettivo coerentemente, non per calcolo subdolo o estemporaneo. Come ogni dittatura, del resto (...). Mi fanno sorridere quelli che si scandalizzano per Solgenitsin. Non lo sapevano che in Russia non c’è libertà di pensiero e di espressione? No, non ci credo, a questo compromesso storico. Non mi piace».
Eppure non pochi democristiani ci credono.
«(...) Chi non è comunista e considera quell’opportunità, commette lo stesso errore che commisero i liberali e i popolari quando, nel 1922, si affiancarono al fascismo nell’illusione di poterlo condizionare. Durò pochi mesi quell’errore storico. Ma essi furono sufficienti a dimostrare che collaborare col dittatore è una illusione assurda. Il dittatore ti spreme e poi ti butta via. Guardi, forse tra cinquant’anni le cose andranno diversamente: però oggi stanno così e non mi sembra il caso che si faccia da cavie per formule tanto pericolose (...). L’idea di Berlinguer è stata una mossa sbagliata. E sa perché? Perché la gente semplice non abboccherà».
Speriamo. Ma la gente semplice non conta.
«Chi lo dice?».
La gente semplice.
«Nei momenti essenziali conta. Lei mi crede cinico ma in questo non sono cinico per niente. E dico: la garanzia maggiore che abbiamo nelle cose di fondo è proprio la gente semplice perché, senza saper teorizzare sulla libertà, la libertà se la difende sul serio. Io son convinto che una parte notevole dell’elettorato comunista difende un tipo di vita che nel sistema comunista non potrebbe avere».
Vedremo come la maneggerete al referendum per il divorzio, la gente semplice. Se la rispettate tanto, la gente semplice, perché non incominciate a chiederle scusa di presentarvi a quel referendum accanto ai missini?
«Noi non ne facciamo una questione di partiti. Infatti non abbiamo chiesto di abrogare la legge in Parlamento. Avremmo potuto, perché in Parlamento, dopo la caduta del Psiup, la maggioranza divorzista non c’è più (...)».
Andreotti! Se dovessimo cambiare tutte le leggi ogni volta che cambia una legislatura, staremmo freschi. La legge sul divorzio esiste, non passò per un capriccio di Satana ma per una maggioranza democratica, e la Corte costituzionale l’ha giudicata valida due volte.
«La Corte costituzionale ha detto che il divorzio non è contro il Concordato, ma la Corte costituzionale non può impedire l’abrogazione di una legge. Se la Camera vuole abrogare una legge, può farlo in qualsiasi momento. Secondo me, la legge sul divorzio è sbagliata per un mucchio di ragioni (...). A parte il fatto, s’intende, ch’io sono contro il divorzio in generale. E non solo come cattolico. Infatti, se è vero che il divorzio può sanare alcune cose, è anche vero che impallina l’istituto matrimoniale».
Senta, Andreotti: ma perché vuole imporre il suo credo cattolico a tutti? Finora non ha fatto che inneggiare alla libertà e ora vorrebbe togliere la libertà di divorziare a chi non la pensa come lei. Mi sembra una grossa incoerenza, anzi una grossa prepotenza. Se il divorzio non le piace, non lo usi! Non è mica obbligatorio, sa?
«(...)Non era opportuno introdurre il divorzio in una fase di assestamento psicologico così difficile, mentre il paese subisce il permissivismo che ha invaso il mondo. Questo permissivismo aberrante (...) Per tanti anni non abbiamo avuto il divorzio. Si poteva aspettare ancora un poco, no? Che urgenza c’era? Non era il momento giusto, no».
Ah! Non è un’argomentazione degna di lei, Andreotti. E quando viene il momento giusto per cambiare le cose?! Se stessimo ad aspettare il momento giusto, saremmo ancora nelle caverne a chiederci se è il caso di costruire la ruota!
«Non si scherza col matrimonio. Non si può dire: divorzio, faccio un altro matrimonio, e poi un altro ancora. Non si deve».
E gli annullamenti della Sacra Rota, allora? Ma se la Chiesa cattolica annulla matrimoni da cui sono nati figli! Basta avere i soldi e un nome potente.
«Secondo me, il cammino che dovrebbe fare la Chiesa è un cammino inverso. E cioè di un maggior rigore, di una minore permissività. Dovrebbe annullare meno matrimoni, la Chiesa».
Questo è proprio essere più papista del papa. Meno male che lei non ha fatto il prete e non è diventato papa. Meno male che un mucchio di democristiani la pensano come me e non come lei.
«E tanta gente democristiana la pensa come me, non come lei».
Guardi che, se mi fa arrabbiare, io accendo la sigaretta.
«E io accendo la candela».
D’accordo. Tanto il mal di testa le viene lo stesso.
«No, no. Sono meno delicatino di quanto sembri. Sembro delicatino perché ho il torace stretto. Infatti, per via del torace stretto, non mi fecero fare l’allievo ufficiale. Pensi, da giovanotto non raggiungevo neanche il minimo di circonferenza toracica. Il maggiore che mi visitò disse: “Lei non durerà sei mesi”. Eh! Eh! Quando diventai ministro della Difesa, cercai subito quel maggiore. Volevo prendermi il gusto di invitarlo a colazione per dimostrargli che ero vivo. Ma non fu possibile. Era morto lui.»
Lo avrei scommesso.
Oriana Fallaci