Corriere della Sera, domenica 2 novembre 2008, 18 aprile 2013
Tags : 1971-1978 – Biografia di Giovanni Leone
Leone, le dimissioni e «il complotto» (articolo del 2/11/2008)
Corriere della Sera, domenica 2 novembre 2008
«Onorevoli colleghi, non mi fate dubitare della vostra saviezza... la Democrazia Cristiana non si lascerà processare nelle piazze». Era l’ 8 marzo 1977 quando Aldo Moro pronunciò in Parlamento, con toni tra il liquoroso e il minaccioso, questa difesa del proprio partito, stretto nella morsa dello scandalo Lockheed. Un anno dopo sarebbe stato rapito e processato dalle Br, e condannato poi a morte. Destino che, qualche settimana più tardi, sarebbe toccato a un altro eccellente della Dc chiamato in causa per lo stesso affaire, il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il quale sarebbe stato anch’egli processato (nella piazza mediatica e al chiuso delle segreterie di partito, anzitutto il suo) e condannato politicamente a morte. Costretto cioè a dimettersi e a sparire dalla scena. E’ un intreccio di cronologie e misteri quello che lega le sorti di Moro e Leone. E se sulla fine del primo si pretende che ogni interrogativo abbia avuto risposta - sul piano processuale - sulla parabola del secondo certi dubbi sono rimasti a lungo irrisolti. La verità è affiorata poco per volta in tempi recenti.
Una verità a pezzi che è giusto rimettere insieme almeno in parte alla vigilia del centenario della nascita, che cade domani, e dei trent’ anni dalla cacciata dal Quirinale. Mentre il Senato sta per onorarlo solennemente (il 12 novembre, presenti Napolitano, Schifani e Fini), La storia siamo noi gli dedica una puntata (in onda mercoledì alle 23.30 su Rai Due), nella quale affiorano stralci delle memorie inedite dell’ ex capo dello Stato, incrociati con le testimonianze di alcuni protagonisti di quella stagione: da Andreotti a Cossiga e Macaluso.
Le domande attorno alle quali ruota quest’ ambiguo capitolo della storia repubblicana restano le stesse di sempre. Perché Leone entrò nel mirino? Erano fondate i sospetti contro di lui? Ci fu un complotto per farne il capro espiatorio di un sistema in crisi, mettendo nel tritacarne addirittura la sua famiglia? E se fu così, chi guidò la cospirazione e diede la spallata definitiva? Dopo che le accuse (corruzione, abusivismo edilizio, frode fiscale) caddero in fretta, una replica senza appelli alla questione di fondo la offre ora Cossiga, per il quale egli fu «dopo Moro, la più grande vittima della Dc». Una lettura confermata dalle stesse memorie riservate di Leone: «Politicamente le mie dimissioni furono volute dal Pci e accettate, o subite, dalla Dc, che mi lasciò solo, mi abbandonò».
Un esempio di quella solitudine affiora dagli annotazioni sui giorni più difficili, quando il capo dello Stato già in bilico chiese aiuto al segretario del partito, che gli negò perfino il diritto di difendersi cestinando una sua intervista all’ Ansa e suggerendo in tal modo che Leone era sacrificabile: «Sono convinto che Zaccagnini agì in quell’ occasione in maniera ostile e che alla base del suo atteggiamento, oltre alla malcelata ostilità politica di sempre, ci fu anche il risentimento per il forte contrasto che avevamo avuto nella conduzione di tutta la vicenda Moro». Ecco: il caso Moro si conferma lo snodo di una partita dura e spregiudicata. Nella quale i vertici dello scudo crociato sono bloccati sulla linea della fermezza nel confronto con i terroristi, mentre il Quirinale «era pronto a firmare la grazia per la brigatista Besuschio o anche per altri», nella convinzione che quella mossa evitasse la morte dell’ostaggio. «Ho già la penna in mano», spiegò Leone a Eleonora Moro, che gli aveva chiesto un intervento in extremis. «La telefonata mi dava l’opportunità di un intervento diretto. Io ero nel mio studio e c’era con me Cossiga. Gli dissi che stavo per telefonare a Zaccagnini. Cossiga mi bloccò la cornetta, dicendomi che tutto era registrato e che bisognava valutare bene il peso della mia telefonata». C’era il rischio che il Quirinale fosse criticato per «interferenze», fu l’ammonimento di Cossiga. Senza contare che la Besuschio aveva mandati di cattura per vari reati e poteva dunque restare in carcere anche se parzialmente graziata, chiosò Andreotti, ciò che alle Br «sarebbe sembrata una provocazione». Due obiezioni tra le tante. Che comunque non fermarono il pressing del Colle sulla Dc, anche se era ormai troppo tardi per Moro.
Poche settimane e, nel Paese ancora sotto shock, la campagna contro Leone divenne martellante. A combatterla furono giornalisti (su tutti, Camilla Cederna) e politici, con i radicali in prima fila, cui si aggiunsero i comunisti. Che si prepararono a chiedere le dimissioni del capo dello Stato, ma quasi controvoglia. «La direzione era molto perplessa», racconta a La storia siamo noi Emanuele Macaluso. «Ho avuto dei dubbi anch’io, poi però la logica del Pci era unitaria... Il passo fu fatto d’ accordo con Andreotti e la segreteria della Dc. Non si pensi che il partito comunista da solo potesse fare questo passo, che era una cosa eccezionalissima». Inghiottito in un gorgo di intrighi nel quale compare perfino l’ ombra di Gelli e senza che per lui valesse mai il minimo garantismo, Leone si arrese. Ma non senza lasciare scritto, a futura memoria: «Spero che chi non mi ha conosciuto possa cominciare a riconsiderare chi è stato veramente, dal 1971 al ’78, il presidente della Repubblica».
«Onorevoli colleghi, non mi fate dubitare della vostra saviezza... la Democrazia Cristiana non si lascerà processare nelle piazze». Era l’ 8 marzo 1977 quando Aldo Moro pronunciò in Parlamento, con toni tra il liquoroso e il minaccioso, questa difesa del proprio partito, stretto nella morsa dello scandalo Lockheed. Un anno dopo sarebbe stato rapito e processato dalle Br, e condannato poi a morte. Destino che, qualche settimana più tardi, sarebbe toccato a un altro eccellente della Dc chiamato in causa per lo stesso affaire, il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il quale sarebbe stato anch’egli processato (nella piazza mediatica e al chiuso delle segreterie di partito, anzitutto il suo) e condannato politicamente a morte. Costretto cioè a dimettersi e a sparire dalla scena. E’ un intreccio di cronologie e misteri quello che lega le sorti di Moro e Leone. E se sulla fine del primo si pretende che ogni interrogativo abbia avuto risposta - sul piano processuale - sulla parabola del secondo certi dubbi sono rimasti a lungo irrisolti. La verità è affiorata poco per volta in tempi recenti.
Una verità a pezzi che è giusto rimettere insieme almeno in parte alla vigilia del centenario della nascita, che cade domani, e dei trent’ anni dalla cacciata dal Quirinale. Mentre il Senato sta per onorarlo solennemente (il 12 novembre, presenti Napolitano, Schifani e Fini), La storia siamo noi gli dedica una puntata (in onda mercoledì alle 23.30 su Rai Due), nella quale affiorano stralci delle memorie inedite dell’ ex capo dello Stato, incrociati con le testimonianze di alcuni protagonisti di quella stagione: da Andreotti a Cossiga e Macaluso.
Le domande attorno alle quali ruota quest’ ambiguo capitolo della storia repubblicana restano le stesse di sempre. Perché Leone entrò nel mirino? Erano fondate i sospetti contro di lui? Ci fu un complotto per farne il capro espiatorio di un sistema in crisi, mettendo nel tritacarne addirittura la sua famiglia? E se fu così, chi guidò la cospirazione e diede la spallata definitiva? Dopo che le accuse (corruzione, abusivismo edilizio, frode fiscale) caddero in fretta, una replica senza appelli alla questione di fondo la offre ora Cossiga, per il quale egli fu «dopo Moro, la più grande vittima della Dc». Una lettura confermata dalle stesse memorie riservate di Leone: «Politicamente le mie dimissioni furono volute dal Pci e accettate, o subite, dalla Dc, che mi lasciò solo, mi abbandonò».
Un esempio di quella solitudine affiora dagli annotazioni sui giorni più difficili, quando il capo dello Stato già in bilico chiese aiuto al segretario del partito, che gli negò perfino il diritto di difendersi cestinando una sua intervista all’ Ansa e suggerendo in tal modo che Leone era sacrificabile: «Sono convinto che Zaccagnini agì in quell’ occasione in maniera ostile e che alla base del suo atteggiamento, oltre alla malcelata ostilità politica di sempre, ci fu anche il risentimento per il forte contrasto che avevamo avuto nella conduzione di tutta la vicenda Moro». Ecco: il caso Moro si conferma lo snodo di una partita dura e spregiudicata. Nella quale i vertici dello scudo crociato sono bloccati sulla linea della fermezza nel confronto con i terroristi, mentre il Quirinale «era pronto a firmare la grazia per la brigatista Besuschio o anche per altri», nella convinzione che quella mossa evitasse la morte dell’ostaggio. «Ho già la penna in mano», spiegò Leone a Eleonora Moro, che gli aveva chiesto un intervento in extremis. «La telefonata mi dava l’opportunità di un intervento diretto. Io ero nel mio studio e c’era con me Cossiga. Gli dissi che stavo per telefonare a Zaccagnini. Cossiga mi bloccò la cornetta, dicendomi che tutto era registrato e che bisognava valutare bene il peso della mia telefonata». C’era il rischio che il Quirinale fosse criticato per «interferenze», fu l’ammonimento di Cossiga. Senza contare che la Besuschio aveva mandati di cattura per vari reati e poteva dunque restare in carcere anche se parzialmente graziata, chiosò Andreotti, ciò che alle Br «sarebbe sembrata una provocazione». Due obiezioni tra le tante. Che comunque non fermarono il pressing del Colle sulla Dc, anche se era ormai troppo tardi per Moro.
Poche settimane e, nel Paese ancora sotto shock, la campagna contro Leone divenne martellante. A combatterla furono giornalisti (su tutti, Camilla Cederna) e politici, con i radicali in prima fila, cui si aggiunsero i comunisti. Che si prepararono a chiedere le dimissioni del capo dello Stato, ma quasi controvoglia. «La direzione era molto perplessa», racconta a La storia siamo noi Emanuele Macaluso. «Ho avuto dei dubbi anch’io, poi però la logica del Pci era unitaria... Il passo fu fatto d’ accordo con Andreotti e la segreteria della Dc. Non si pensi che il partito comunista da solo potesse fare questo passo, che era una cosa eccezionalissima». Inghiottito in un gorgo di intrighi nel quale compare perfino l’ ombra di Gelli e senza che per lui valesse mai il minimo garantismo, Leone si arrese. Ma non senza lasciare scritto, a futura memoria: «Spero che chi non mi ha conosciuto possa cominciare a riconsiderare chi è stato veramente, dal 1971 al ’78, il presidente della Repubblica».
Marzio Breda