La Stampa, giovedì 18 aprile 2013, 18 aprile 2013
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Marini, il Quirinale e il fattore Dc (articolo del 18/4/2013)
La Stampa, giovedì 18 aprile 2013
La corsa al Quirinale, si sa, è tradizionalmente ricca di colpi di scena, e la tela che si fa di giorno, si disfa la notte. Questa per il dodicesimo Presidente, poi, è una trattativa così difficile e impervia, per il risultato sterile delle urne del 25 febbraio, che c’è poco da scommettere su come finirà. Ma se davvero sarà Franco Marini ad essere eletto Presidente della Repubblica, questa mattina alla prima votazione delle Camere riunite, si potrà dire, a ragion veduta, che a vincere, o a rivincere, è la vecchia Dc. Parafrasando il grande Luigi Pintor, fondatore del «manifesto», che esattamente trent’anni fa titolò speranzoso «non moriremo democristiani», a denti stretti si dovrà ammettere che sarà proprio grazie ai democristiani, invece, se anche stavolta sopravviveremo.
La ragione di questa conclusione che ieri notte, va detto, è stata quasi capovolta nell’assemblea dei grandi elettori Pd e rifiutata da Vendola - è molto semplice: in mezzo a un mare di suoi colleghi, intenti, chi per dilettantismo e chi per risentimento, a farsi una guerra senza esclusione di colpi, Marini, senza muovere un dito, come insegna la più antica scuola Dc, ha infilzato uno dopo l’altro i suoi concorrenti. A far fuori Prodi, il suo più insidioso rivale, ci hanno pensato Berlusconi e Grillo. Di eliminare Amato, che fino a martedì sera era in pole position, se ne sono fatti carico Rosy Bindi e i prodiani. D’Alema, pur non dichiaratamente, aveva contro Bersani, perché un comunista al Quirinale avrebbe sbarrato al leader del Pd la strada per Palazzo Chigi. E con il suo attacco frontale contro la Finocchiaro e lo stesso Marini, Renzi ha sortito l’effetto opposto. Quanto a Berlusconi, avrebbe votato chiunque, l’ha detto fin dal primo momento, pur di non andare all’opposizione. Servirgli su un piatto d’argento il candidato Marini, legato a Gianni Letta dalle comuni radici e da una consuetudine inossidabile, è stato un altro capolavoro del leader Pd, che oggi rischia di essere contraddetto dai suoi parlamentari. Bersani, d’altra parte, non poteva fare altro. La strada dell’intesa con i 5 Stelle s’era chiusa con il tentativo fallito di farci insieme un governo. E se Grillo avesse voluto riaprirla, doveva gigioneggiare un po’ meno, e smetterla di giocare per due giorni con la Gabanelli. Quanto ai professori, ai tecnici eagli altimagistratiche si sonoaffacciati nellatrattativa, da Cassese, a Mattarella a De Rita, entrando e uscendo dalle molte rose circolate in questi giorni, avevano quasi tutti in comune una caratteristica e un limite: o erano democristiani o parademocristiani. Ma tra un Dc surgelato o spedito in pensione, e uno genuinamente ancora in servizio, come Marini, non c’era match. Bersani, come titolare della trattativa, ha pensato che questa fosse l’unica via d’uscita. Senza tener conto degli umori ribollenti delle varie anime del suo partito che sono esplosi nella notte e adesso puntano a sconfessare l’intesa siglata dal segretario.
Diceva Giulio Andreotti, suo mentore e avversario nell’epica battaglia per la presidenza del Senato, l’ultima combattuta dal Divo Giulio: «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi!». Marini, già leader sindacale, ministro, segretario del Ppi, con un soprannome, «lupo marsicano», che tradisce le sue radici abruzzesi, quel viale non ha fatto in tempo a imboccarlo, che subito è stato richiamato in servizio. Eppure, come erede della grande tradizione scudocrociata, Franco il lupo, che ha appena compiuto ottant’anni, occorre riconoscerlo, è un po’ anomalo. Gran parte della carriera, infatti, l’ha costruita nella Cisl, che ha guidato per sei anni, dal 1985 al ’91, in tempo per ereditare, alla morte di Carlo Donat-Cattin, la corrente di Forze Nuove e il posto di ministro del Lavoro nel VII governo Andreotti.
Nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica Marini aveva dato un contributo notevole, con la sua testardaggine abruzzese, a salvare il salvabile di quel ch’era rimasto della Dc. E di Prodi che voleva scioglierla nell’Ulivo, non a caso, è sempre stato un leale oppositore. Come segretario, dal ’97, del Ppi, primo erede del vecchio partitone cattolico (Margherita e Pd verranno dopo), aveva stretto due rapporti, solidi e decisivi, con D’Alema e Berlusconi, che gli sono tornati utili anche adesso. Era stato Marini, in alleanza con Cossiga, che aveva fondato apposta un suo partitino personale, a portare D’Alema, primo (post) comunista a Palazzo Chigi, nel ’98. E sempre lui a impostare il rapporto con il Cavaliere in termini di amicizia, alla democristiana, e solo successivamente di collaborazione-competizione. La battaglia del 2006, con il centrodestra che gli schierò contro come avversario per la presidenza del Senato nientemeno che Andreotti, poté svolgersi così in termini civili. Tanto, come dimostrarono i franchi tiratori, gli avversari di Marini stavano più nel centrosinistra che tra i berlusconiani, e l’osso più duro sarebbe stato naturalmente un Dc, Clemente Mastella.
Il passaggio decisivo, con Berlusconi, avvenne due anni dopo: Marini, ricevuto il mandato esplorativo come presidente del Senato, dopo la crisi del secondo governo Prodi, quando Berlusconi gli comunicò che non c’era spazio per il suo tentativo, non si espresse né in un senso né in un altro. Non insistette, non fece una piega, limitandosi a una pura registrazione istituzionale. «Con la sua correttezza, lei s’è guadagnato un credito», si congedò da lui, soddisfatto, il Cavaliere. Chissà se il lupo marsicano con la coppola e la pipa immaginava che i ltempo di riscuoterlo sarebbe arrivato così presto.
La corsa al Quirinale, si sa, è tradizionalmente ricca di colpi di scena, e la tela che si fa di giorno, si disfa la notte. Questa per il dodicesimo Presidente, poi, è una trattativa così difficile e impervia, per il risultato sterile delle urne del 25 febbraio, che c’è poco da scommettere su come finirà. Ma se davvero sarà Franco Marini ad essere eletto Presidente della Repubblica, questa mattina alla prima votazione delle Camere riunite, si potrà dire, a ragion veduta, che a vincere, o a rivincere, è la vecchia Dc. Parafrasando il grande Luigi Pintor, fondatore del «manifesto», che esattamente trent’anni fa titolò speranzoso «non moriremo democristiani», a denti stretti si dovrà ammettere che sarà proprio grazie ai democristiani, invece, se anche stavolta sopravviveremo.
La ragione di questa conclusione che ieri notte, va detto, è stata quasi capovolta nell’assemblea dei grandi elettori Pd e rifiutata da Vendola - è molto semplice: in mezzo a un mare di suoi colleghi, intenti, chi per dilettantismo e chi per risentimento, a farsi una guerra senza esclusione di colpi, Marini, senza muovere un dito, come insegna la più antica scuola Dc, ha infilzato uno dopo l’altro i suoi concorrenti. A far fuori Prodi, il suo più insidioso rivale, ci hanno pensato Berlusconi e Grillo. Di eliminare Amato, che fino a martedì sera era in pole position, se ne sono fatti carico Rosy Bindi e i prodiani. D’Alema, pur non dichiaratamente, aveva contro Bersani, perché un comunista al Quirinale avrebbe sbarrato al leader del Pd la strada per Palazzo Chigi. E con il suo attacco frontale contro la Finocchiaro e lo stesso Marini, Renzi ha sortito l’effetto opposto. Quanto a Berlusconi, avrebbe votato chiunque, l’ha detto fin dal primo momento, pur di non andare all’opposizione. Servirgli su un piatto d’argento il candidato Marini, legato a Gianni Letta dalle comuni radici e da una consuetudine inossidabile, è stato un altro capolavoro del leader Pd, che oggi rischia di essere contraddetto dai suoi parlamentari. Bersani, d’altra parte, non poteva fare altro. La strada dell’intesa con i 5 Stelle s’era chiusa con il tentativo fallito di farci insieme un governo. E se Grillo avesse voluto riaprirla, doveva gigioneggiare un po’ meno, e smetterla di giocare per due giorni con la Gabanelli. Quanto ai professori, ai tecnici eagli altimagistratiche si sonoaffacciati nellatrattativa, da Cassese, a Mattarella a De Rita, entrando e uscendo dalle molte rose circolate in questi giorni, avevano quasi tutti in comune una caratteristica e un limite: o erano democristiani o parademocristiani. Ma tra un Dc surgelato o spedito in pensione, e uno genuinamente ancora in servizio, come Marini, non c’era match. Bersani, come titolare della trattativa, ha pensato che questa fosse l’unica via d’uscita. Senza tener conto degli umori ribollenti delle varie anime del suo partito che sono esplosi nella notte e adesso puntano a sconfessare l’intesa siglata dal segretario.
Diceva Giulio Andreotti, suo mentore e avversario nell’epica battaglia per la presidenza del Senato, l’ultima combattuta dal Divo Giulio: «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi!». Marini, già leader sindacale, ministro, segretario del Ppi, con un soprannome, «lupo marsicano», che tradisce le sue radici abruzzesi, quel viale non ha fatto in tempo a imboccarlo, che subito è stato richiamato in servizio. Eppure, come erede della grande tradizione scudocrociata, Franco il lupo, che ha appena compiuto ottant’anni, occorre riconoscerlo, è un po’ anomalo. Gran parte della carriera, infatti, l’ha costruita nella Cisl, che ha guidato per sei anni, dal 1985 al ’91, in tempo per ereditare, alla morte di Carlo Donat-Cattin, la corrente di Forze Nuove e il posto di ministro del Lavoro nel VII governo Andreotti.
Nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica Marini aveva dato un contributo notevole, con la sua testardaggine abruzzese, a salvare il salvabile di quel ch’era rimasto della Dc. E di Prodi che voleva scioglierla nell’Ulivo, non a caso, è sempre stato un leale oppositore. Come segretario, dal ’97, del Ppi, primo erede del vecchio partitone cattolico (Margherita e Pd verranno dopo), aveva stretto due rapporti, solidi e decisivi, con D’Alema e Berlusconi, che gli sono tornati utili anche adesso. Era stato Marini, in alleanza con Cossiga, che aveva fondato apposta un suo partitino personale, a portare D’Alema, primo (post) comunista a Palazzo Chigi, nel ’98. E sempre lui a impostare il rapporto con il Cavaliere in termini di amicizia, alla democristiana, e solo successivamente di collaborazione-competizione. La battaglia del 2006, con il centrodestra che gli schierò contro come avversario per la presidenza del Senato nientemeno che Andreotti, poté svolgersi così in termini civili. Tanto, come dimostrarono i franchi tiratori, gli avversari di Marini stavano più nel centrosinistra che tra i berlusconiani, e l’osso più duro sarebbe stato naturalmente un Dc, Clemente Mastella.
Il passaggio decisivo, con Berlusconi, avvenne due anni dopo: Marini, ricevuto il mandato esplorativo come presidente del Senato, dopo la crisi del secondo governo Prodi, quando Berlusconi gli comunicò che non c’era spazio per il suo tentativo, non si espresse né in un senso né in un altro. Non insistette, non fece una piega, limitandosi a una pura registrazione istituzionale. «Con la sua correttezza, lei s’è guadagnato un credito», si congedò da lui, soddisfatto, il Cavaliere. Chissà se il lupo marsicano con la coppola e la pipa immaginava che i ltempo di riscuoterlo sarebbe arrivato così presto.
Marcello Sorgi