12 aprile 2013
Il manifesto di Barca: «Partito nuovo per un buon governo» (12/4/2013)
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UN PARTITO NUOVO PER UN BUON GOVERNO
Memoria politica dopo 16 mesi di governo
di Fabrizio Barca
Aprile 2013 Il pieno e il vuoto, le cose fatte e quelle apprese della mia azione di governo per la “coesione territoriale” sono resi manifesti dai materiali raccolti nel sito www.coesioneterritoriale.gov.it e dal Rapporto di fine mandato (http://www.coesioneterritoriale.gov.it/rapporto-di-fine-mandato-fabrizio-barca/). Questa stessa azione, ogni singola esperienza dei miei sedici mesi di lavoro, nel territorio e a Roma, suscita una secca conclusione politica: senza una “nuova forma partito” non si governa l’Italia. Ovunque si pone il problema di una nuova forma partito. In Italia questo obiettivo ha rilievo e urgenza straordinari di fronte alla sfiducia radicale e al risentimento che circonda i partiti, alla persistente incapacità di buon governo, alla crisi culturale, prima ancora che economica e sociale, che il paese attraversa. Queste pagine sono dedicate a sostenere questa conclusione e a suggerire la funzione e i tratti di una nuova forma partito che permetta il buon governo. Non mi riferirò a un partito in genere - per il quale, pure, larga parte delle considerazioni che svolgo paiono adatte - ma a un partito di sinistra, essendo questo ciò che mi preme.
Prima di procedere, sono necessari tre caveat.
Viviamo un momento di grave crisi, internazionale, europea e ancor più italiana. Che richiede un forte presidio di governo. Non ci sono dubbi. Tuttavia, questo presidio avrà effetto solo se contemporaneamente sarà avviato il ridisegno dei partiti. Senza esitazioni o l’alibi che altre sono le urgenze. Si deve cambiare, perché la crisi è figlia anche della crisi dei partiti. È un progetto per il quale servono molte persone di buona volontà, coese e capaci di lunghi cammini.
In secondo luogo, è evidente che le difficoltà di governare l’Italia derivano anche dall’incompiutezza e dalle incertezze dell’Unione Europea, dalla sua incapacità di fronteggiare la seconda più grave crisi della storia del capitalismo, mettendo in discussione i paradigmi errati che l’hanno indotta e rilanciando il disegno della cittadinanza europea. Al tempo stesso, è altrettanto evidente che per tornare a dare un contributo politico forte all’Unione, che ne concorra a sbloccare lo stallo – la miopia o fragilità di altri fondatori mostra quanto ce ne sia bisogno – l’Italia deve essere ben governata. Senza una nuova forma partito ciò non mi appare possibile.
L’ultimo caveat è che non penso davvero che bastino alcuni anni di militanza giovanile in un partito e poi i lavori di tecnico, amministratore pubblico e ministro e neppure – anche se conta più del resto – la vicinanza profonda con un protagonista della migliore politica – mi riferisco a mio padre – per proporre in modo solitario il programma politico di un partito nuovo. Nel razionalizzare i miei pensieri di sedici mesi, ho fatto dunque affidamento su alcuni importanti contributi1 le cui idee mi auguro di aver ben usato, e sulle reazioni e importanti suggerimenti di chi ha pazientemente letto una prima, rozza versione. E, soprattutto, considero queste pagine solo un passo preliminare, che cerca il confronto con altri saperi, sentimenti e “memorie”.
In sintesi L’esperienza di sedici mesi di governo e le considerazioni svolte in questa memoria suggeriscono che per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” e assicurare un buon governo, è necessario che i partiti, ai quali la nostra Costituzione affida questa funzione, si separino dallo Stato con cui si sono in Italia perversamente affratellati, fino al “catoblepismo”, per divenire rete materiale e immateriale di mobilitazione di conoscenze e di confronto pubblico, informato, acceso, ragionevole e aperto di idee e soluzioni con cui incalzare lo Stato. Solo così lo Stato potrà rinnovarsi.
L’aggravante peculiare della crisi italiana, con la prolungata assenza di buon governo, sta nel concorrere di una macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale e di partiti Stato-centrici, ai quali hanno contribuito le regole del finanziamento pubblico e la deriva culturale del paese. Al deterioramento di tutte le fasi del processo di costruzione dell’azione pubblica si sono così accompagnati: il perseguimento crescente di beni particolari anziché del bene pubblico; comportamenti abusivi di tale gravità da creare un solco profondo tra cittadini e “politici”; il blocco dei normali meccanismi di rinnovamento delle classi dirigenti, con lo scatenamento di insensati conflitti generazionali; una perdita di fiducia nei nostri stessi mezzi.
Se e quale nuova forma dare ai partiti, più in particolare a un partito di sinistra, comunque lo si voglia chiamare quello che corrisponde ai miei convincimenti, discende dal giudizio che diamo sul metodo di governo della cosa pubblica che può rinnovare e rilanciare il paese.
Lo sperimentalismo democratico In linea con un crescente corpo di esperienze in tutto il mondo e con la prassi della mia esperienza di amministratore, suggerisco che tale metodo debba essere quello dello “sperimentalismo democratico”. Esso supera l’errore che la soluzione “minimalista” – o liberista, magna pars della crisi internazionale che viviamo – condivide con molte applicazioni concrete della soluzione “socialdemocratica”, ossia l’ipotesi che alcuni, pochi individui, gli esperti, i tecnocrati, dispongano della conoscenza per prendere le decisioni necessarie al pubblico interesse, indipendentemente dai contesti. Ed evita l’altro, nuovo errore della nostra epoca, quello di pensare che la “folla” possa esprimere quelle decisioni in modo spontaneo, attraverso la Rete. In presenza di incertezza elevata, tecnologia mutevole, istruzione di massa e preferenze degli individui assai differenziate e influenzate dai contesti, la macchina pubblica 3 deve piuttosto costruire un processo che promuova in ogni luogo il confronto acceso e aperto fra le conoscenze parziali detenute da una moltitudine di individui, favorisca l’innovazione e consenta decisioni sottoposte a una continua verifica degli esiti, sfruttando le potenzialità nuove della Rete e dando continuamente forma alle preferenze e alle scelte nazionali.
Costruire in Italia questo metodo di governo della cosa pubblica richiede un “passo del cavallo”, che, in una mossa sola, adegui finalmente la macchina pubblica ad alcuni metodi e prassi che la soluzione socialdemocratica e la soluzione minimalista ci hanno da tempo consegnato, e realizzi i requisiti propri dello sperimentalismo.
Il partito palestra A questo fine, per realizzare i profondi cambiamenti che la procedura deliberativa aperta richiede e superare le dure resistenze che il rinnovamento incontrerà in coloro che dalla perversa fratellanza fra parti e Stato hanno tratto guadagno e potere, sono necessari un aperto e governato conflitto sociale e la coesione attorno ad alcuni convincimenti generali che parlino ai nostri sentimenti.
Serve allora un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, richiamandosi con forza ad alcuni convincimenti generali, solleciti e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto.
Serve un “partito palestra” che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato, praticando volontariato e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti e simpatizzanti una parte determinante del proprio finanziamento, sia capace di promuovere la ricerca continua e faticosa di soluzioni per l’uso efficace e giusto del pubblico denaro. Serve un partito che torni, come nei partiti di massa, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali e di governo dello Stato, ma anche “sfidante dello Stato stesso” attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica. Serve un partito che realizzi questi obiettivi sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle “avanguardie”, ossia realizzando una diffusa “mobilitazione cognitiva”.
Il partito di sinistra che serve al paese non è, dunque, il partito scuola di vita (e di lotta), il partito di massa dove si ascoltano bisogni e si insegna “la linea” per ottenere soddisfazione di quei bisogni e costruire il nuovo “avvenire” prefigurato dalla cultura di partenenza. Non è certo il partito di occupazione dello Stato, dove si vende e si compra di tutto: prebende, ruoli, pensioni, appalti, concessioni, ma anche regole, visioni, idee. Non è neppure il partito liquido, 4 quello della crisi della politica, vetrina dove sono in mostra manichini e prodotti dell’“offerta politica”, nefasta influenza dell’economia sulla politica. È un partito palestra che offre lo spazio per la mobilitazione cognitiva, per confrontare molteplici e limitate conoscenze, imparare ognuno qualcosa, confrontare errori, cambiare posizione, costruire assieme soluzioni innovative per stare meglio e gli strumenti e le idee per farle vincere; e permettere così anche che dal confronto collettivo si profili e vada emergendo un avvenire più bello per i nostri pronipoti con tratti che oggi non possiamo anticipare.
Se la sinistra costruirà questo partito, muovendo dai partiti che esistono, segnatamente dal Partito democratico, dalle esperienze in corso, dalle strutture territoriali che tentano già oggi di operare nel nuovo modo, le forze politiche che si raccolgono attorno a culture e convincimenti diversi saranno spinte a rinnovarsi anche esse, dando vita a una sfida alta, necessaria al rilancio del paese.
Né corpi intermedi della società rappresentativi di interessi del lavoro, o dell’impegno civile, pur fondamentali, né la Rete (il web, internet), pure piattaforma potente dello sperimentalismo democratico, possono sostituire i partiti come interfaccia fra società e governo della cosa pubblica. Sono le idee e le soluzioni innovative maturate dal confronto, necessariamente teso e problematico, di individui con interessi, conoscenze e valori diversi che possono alimentare e sospingere la macchina dello Stato nella direzione richiesta dallo sperimentalismo.
Partito che muova i sentimenti e si separi dallo Stato Il partito nuovo di sinistra disegnato su queste basi deve prima di tutto contare su alcuni convincimenti generali condivisi e su una visione di lungo periodo per l’Italia e per l’Europa: per la forza attrattiva e la carica simbolica che ne derivano e per disporre di un linguaggio e di criteri con cui assumere decisioni all’interno e dialogare con l’esterno. Cosa intenda per quei convincimenti, in tema di giustizia, diritti e doveri, cultura, lavoro, beni pubblici e governo dell’economia, mi arrischio a renderlo esplicito nell’esercizio di scrittura dell’Addendum. Su queste basi, il partito potrà mobilitare e produrre conoscenze sulle azioni pubbliche che sono necessarie per soddisfare i bisogni e le aspirazioni di noi cittadini, costruendo uno spazio avvincente di confronto pubblico informato, acceso e ragionevole. Che sia interessante per, e aperto al contributo di, individui e associazioni genuinamente e testardamente indipendenti. E che risponda così a una domanda di impegno per obiettivi collettivi che non trova oggi adeguata soddisfazione.
Il partito nuovo sarà rigorosamente separato dallo Stato, sia in termini finanziari, riducendo ancora il finanziamento pubblico e soprattutto cambiandone e rendendone trasparente metodo di raccolta e impiego, sia prevedendo l’assoluta separazione fra funzionari e quadri del partito ed eletti o nominati in organi di governo, sia organizzandosi in modo da attrarre il contributo di lavoro (volontario o remunerato) di persone di buona volontà per periodi limitati di tempo, sia stabilendo regole severe per scongiurare ogni influenza del partito sulle nomine di qualsivoglia pubblico ente. Sono queste le condizioni affinché il partito sia di effettivo sprone per lo Stato, chiunque lo governi, e affinché iscritti e simpatizzanti nonché dirigenti locali da quelli scelti, abbiano l’incentivo a impegnarsi nella mobilitazione cognitiva e tornino a essere determinanti per la selezione della dirigenza nazionale.
In questo partito i sentimenti dell’egoismo e dello spirito pubblico, da una parte, e dell’indipendenza e dell’imitazione dall’altra, trovano modo di manifestarsi come sprone all’impegno cognitivo, soprattutto per i giovani. Nel modo stesso di operare del partito nuovo e nello sperimentalismo che esso sollecita nella macchina pubblica trova progressivo superamento lo scarto tra democrazia e tecnocrazia, tra principio di competenza e principio di maggioranza.
Affinché l’ipotesi di partito nuovo preliminarmente abbozzata in queste pagine divenga un programma politico è indispensabile disegnare regole, incentivi, sanzioni, schemi organizzativi adatti alla forma descritta. Ed è necessario costruire un percorso, graduale o brusco, con cui raggiungere l’assetto desiderato, muovendo dai partiti di sinistra che esistono, segnatamente dal Partito democratico, dalle sperimentazioni importanti che essi hanno realizzato, dal capitale di impegno, passione e intelligenza che hanno raccolto e dispiegato, dai circoli e unità territoriali in cui sono articolati. Se questa mia memoria solleverà l’interesse che mi auguro e se i contributi e le critiche che verranno daranno forma a una compiuta e condivisa ipotesi di partito nuovo, questi due decisivi passi potranno essere compiuti.
Sei passi verso il buon governo Definirò qui il buon governo come un sistema di decisioni pubbliche per il quale le argomentazioni a favore superino quelle contrarie, essendo soddisfatti i requisiti della riflessione pubblica e le condizioni di imparzialità2. Sia questa o altra la definizione adottata, non vi sono dubbi che l’Italia da tempo non ha un buon governo.
Ne sono manifestazione e prova:
• La profonda crisi socio-economica e prima ancora culturale, che segna il paese da più di venti anni, ben prima della crisi internazionale.
• Il senso di incertezza e “spavento” che, con brevi interruzioni, accompagna tale crisi sin dal giorno delle drastiche decisioni del luglio 1992, adottate per contrastare forti segni di sfiducia nella sostenibilità del debito pubblico.
• Il susseguirsi ininterrotto, talora frenetico, negli ultimi venticinque anni, con governi assai diversi, di riforme dei mercati (del lavoro, dei capitali e dei servizi) e della Pubblica Amministrazione, in larga misura inefficaci, sia in termini di produttività e inclusione sociale, sia in termini di spirito del paese, stante l’assenza di una visione condivisa sul fine e sulla natura di queste riforme, la sistematica disattenzione alle soluzioni già di fatto praticate nei territori del paese, la tendenza a mettere assieme mattoni istituzionali copiati da diversi altri modelli nazionali3.
• Il susseguirsi di comportamenti abusivi del ruolo pubblico, di gravità, diffusione, arroganza e senso di impunità assolutamente non comparabili con le vicende passate del paese o con altri paesi.
• La grande difficoltà del governo di impegno nazionale costituito nel novembre 2011, che pure ha sottratto il paese all’emergenza finanziaria, a disegnare e attuare provvedimenti che aprissero una prospettiva di sviluppo, soprattutto per la carenza di dialogo con la società, essendo rarefatta l’intermediazione dei partiti.
Sul piano politico l’assenza di buon governo si è manifestata nelle elezioni del febbraio 2013 in un paradosso, una deriva e uno strappo. Il paradosso, per cui una formazione politica identificata con un leader salvifico sotto la cui guida il paese era giunto a quell’emergenza, pur perdendo milioni di voti, conserva un consenso assai significativo nel paese. La deriva, per cui, con una sola rilevante eccezione, tutti i partiti sono stati a trazione personalistica, un evidente vulnus sul funzionamento democratico interno e del paese. Lo strappo, segnato dal successo di un movimento-partito che raccoglie consensi da segmenti assai diversi della società4 uniti nella profonda sfiducia e nel risentimento verso l’intera élite politica, ma anche nella domanda di un modo trasparente e verificabile di assumere decisioni pubbliche.
Il bandolo della matassa sta nei partiti La mia tesi è che il bandolo della matassa sta proprio nei partiti. Nel senso che solo una nuova forma partito – radicalmente lontana dall’attuale perversa fratellanza con lo Stato ed emendata dal mito della democrazia istantanea della rete – può dare corpo alla costruzione di pubbliche decisioni che assicurino a noi italiani un buon governo, sfidando in maniera continua lo Stato in un processo costituzionalmente garantito dove si confrontino saperi e producano innovazioni.
Per sostenere questa tesi compio sei distinti passi:
• Individuo nella perversa fratellanza tra una macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale e partiti Stato-centrici l’aggravante peculiare della crisi italiana.
• Richiamate le criticità dello “Stato socialdemocratico” e le aberrazioni dello “Stato minimo”, delineo il metodo di governo della cosa pubblica con il quale, in tutto il mondo, si vanno trovando approssimazioni superiori al buon governo: il metodo della democrazia deliberativa o più precisamente dello “sperimentalismo democratico”.
• Argomento che questo metodo non si può affermare, specie nelle nostre peculiari condizioni, senza la sintesi politica e la propulsione di partiti.
• Descrivo, con riferimento a un partito di sinistra – quello che corrisponde ai miei convincimenti – i tratti che il partito nuovo dovrebbe avere per assolvere questa funzione.
• Mi soffermo sulle motivazioni e sugli incentivi che possono indurre all’impegno nel partito nuovo.
• Pongo a chi avvertisse sintonia con il mio ragionare interrogativi sulle sue regole e sulla sua organizzazione che è necessario sciogliere affinché il partito nuovo si abbia davvero.
Stato arcaico e partiti Stato-centrici Il mancato buon governo, a livello nazionale e locale, può essere ricondotto a due cause, connesse e sinergiche:
a. Una macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale, caratterizzata da “primitivismo organizzativo, rudimentalità delle procedure, insufficienze del personale, scarso ricorso a tecnologie informatiche, arcaicità del disegno complessivo, suo anacronismo rispetto agli altri governi moderni”5. La macchina dello Stato, la Pubblica Amministrazione, è in generale attardata nel modello autoritario di governo della cosa pubblica; pretende, con arroganza cognitiva, di predefinire in modo completo le regole del gioco; è affetta da smania normativa; trascura sistematicamente l’attuazione, mancando di “ingegnerizzare” i processi realizzativi; pretende dai cittadini il rispetto delle scadenze mentre non le rispetta essa stessa; ignora la valutazione degli esiti; non facilita o rifiuta, a livello nazionale, il confronto aperto con le soluzioni alternative che vengono dalle esperienze territoriali. La macchina dello Stato è dunque complessivamente estranea agli strumenti della democrazia deliberativa, che si vanno affinando nel mondo contemporaneo. A tenerla in queste condizioni sono la coazione a ripetere e l’intenzionalità di un’élite estrattiva, che deriva benefici (non necessariamente monetari) dalla conservazione dello stato attuale delle cose. Certo, esistono eccezioni, significative, che ben conosco6; ma sono frenate, talora soffocate, dal resto del corpaccione della macchina pubblica; sono percepite dai cittadini nei luoghi dove riescono a farsi sentire, ma sono sostanzialmente ignorate dai partiti. Insomma non fanno massa critica. Non sono sufficienti ad attivare il cambiamento.
b. Partiti Stato-centrici che anziché trarre legittimazione e risorse finanziarie dai propri iscritti nel territorio le traggono dal rapporto con lo Stato, “attraverso un generoso finanziamento pubblico, la colonizzazione dell’amministrazione, il patronage e il clientelismo”7. Dove gruppi parlamentari e dirigenza centrale del partito sono largamente coincidenti. Dove il vertice (il “leader”) si rivolge direttamente a iscritti o cittadini senza cercare un confronto, se non formale o minimo, con i gruppi dirigenti locali. Dove si sono rarefatte o mancano l’attitudine, la conoscenza e la capacità di elaborare gli orientamenti e gli indirizzi generali delle politiche pubbliche; ovvero tale elaborazione viene ricercata in “associazioni” che singole componenti del gruppo dirigente costituiscono al di fuori del partito, ulteriormente impoverendolo. Dove, in nome di un comodo relativismo etico, risultano assenti meccanismi sistematici di prevenzione di comportamenti abusivi, quando non arrivano a manifestarsi fenomeni di contiguità con la criminalità. Dove l’enunciazione stanca di principi generali si accompagna a un diffuso giudizio cinico sulla natura umana - schiacciata sulla (pur rilevante, ma ben sappiamo non solitaria) dimensione egoistica - e sulla presunta “natura italica”8 che ci inchioderebbe al cattivo governo.
La forma di partito Stato–centrica ora richiamata non è una peculiarità dell’Italia, rappresentando l’esito diffuso della crisi del partito di massa. Nato per fornire ai propri membri identità sociale e politica, conferendo forma simbolica e organizzata ai bisogni e ai desideri relativamente omogenei di masse di cittadini, il partito di massa è in crisi – come ben noto – per un coacervo di motivi, fra loro legati: la stessa trasformazione dei partiti di massa in partiti di governo; la radicale modificazione dei mezzi e delle forme di comunicazione; la maggiore articolazione e frammentazione sociale e la connessa diversificazione dei bisogni; l’accresciuta enfasi sull’“io”; la maggiore volatilità e imprevedibilità della “domanda politica”9.
Ha concorso in modo rilevante anche il trasferimento di potere dai livelli statuali nazionali al livello globale senza che vi corrispondessero forme associative sovranazionali fra cittadini10. In questa crisi, si è prodotta una peculiare esclusione del lavoro, in particolare di quello operaio – e quindi della centralità del ”manifatturiero” – dalla centralità della rappresentanza politica, anche nei partiti di sinistra. Questa rappresentanza è divenuta appannaggio prevalente dei nuovi ceti medi urbani, pur faticando i partiti a raccoglierne la spinta creativa e piuttosto accomodandone gli interessi particolari.
Questo è più o meno vero in giro per l’intero mondo. Ma in Italia la crisi del partito di massa ha assunto forme estreme, e la deriva verso il partito Stato-centrico è particolarmente grave. Il peculiare tracollo dei partiti storici a inizio anni ’90 ha trovato nella fragilità e arretratezza della macchina pubblica italiana le basi per una fratellanza siamese che non ha paragoni altrove. Si è prodotto qui quello scivolamento verso le forme degenerative appena descritte: una predominanza dei “leader”, portatori di una narrazione in cui iscritti ed elettori si riconoscono, fino a forme estreme di partito-proprietà; una professionalizzazione della struttura di supporto del leader, organizzata in “staff”, al di fuori di una legittimazione democratica da parte del partito stesso; la perdita di peso degli iscritti e dei loro organi, e la dominanza degli eletti sulla dirigenza del partito.
Regole e misura del finanziamento pubblico e cultura politologica egemone hanno sancito la deriva. La copiosità del finanziamento pubblico dei partiti, mirando a liberare i partiti stessi dal condizionamento dei “fondi neri” provenienti dalla degenerata conduzione dei grandi enti pubblici nazionali o locali, li ha in realtà legati stabilmente allo Stato, sancendo e accrescendo la loro non-dipendenza dal contributo degli iscritti, il cui controllo sul partito si è così viepiù ridotto. Ad aggravare le cose sta il fatto che questi finanziamenti essendo commisurati agli esiti elettorali, sono anche formalmente connessi agli eletti. Ciò consolida il “controllo” dei gruppi parlamentari, attraverso filiere di comando che da singoli “capi-cordata” nei gruppi scendono lungo il partito stesso e sono alimentate dai flussi di risorse disponibili. Questa relazione perversa è stata facilitata da un ordinamento che rafforza l’indipendenza dei gruppi parlamentari - ossia degli eletti - dagli organi direttivi dei partiti11.
La legge elettorale vigente ulteriormente suggella questo stato di cose, creando a sua volta una filiera gerarchica perversa che vede i “capi-cordata” concordare con il leader del partito i singoli eletti da presentare in un pacchetto chiuso agli elettori. La selezione dei candidati via primarie ridà un ruolo a iscritti e simpatizzanti e può produrre buone sorprese – come del resto può fare anche la qualità del leader nel selezionare il “pacchetto di mischia” – ma non risolve in alcun modo il problema in termini dinamici: una volta eletti, qualunque sia il modo in cui essi sono arrivati in quella posizione, il loro rapporto con il partito avrà fondamenta improprie.
Il secondo fattore di amplificazione della deriva va cercato nell’ortodossia della riforma del sistema politico italiano, divisa nelle soluzioni ma coesa dai primi anni ’90 in una convinzione: poiché i partiti funzionavano particolarmente male bisognava liberarsene.
Quando si è predicato il bipolarismo, mutuando impropriamente dall’economia che la concorrenza migliora l’efficienza, si è attribuito all’alternanza la dote taumaturgica di curare i partiti, mettendo da parte i temi della loro organizzazione e democrazia interna e arrivando a tollerare la deriva leader-clan anche in forme estreme e degenerate. Quando, dal lato opposto, si è preso di mira, specie con riguardo all’ex-PCI, l’organizzazione in “gruppo dirigente”, diluendo gli organi di governo interno, creando pletoriche assemblee, moltiplicando gli incarichi, si è favorito il modello di partito debole e inevitabilmente Stato-centrico, perché bisognoso di appoggiarsi allo Stato, di trarne legittimazione e ahimè denari. Quanto al ricorso a “primarie” per la elezione del leader del partito o del candidato premier12, esso assicura condizioni minime di “democrazia elettiva” rispetto a ogni forma di auto-proclamazione, ma non tocca in sé la deriva descritta. Al contrario, se non sono accompagnate da una radicale separazione fra partito e Stato e dalla ricostruzione di un rapporto continuo, teso, denso di contenuti pratici e di visione, fra un ristretto gruppo dirigente nazionale e gruppi dirigenti locali e iscritti, le “primarie del popolo” tendono a dare legittimità al cesarismo13, appagando a poco prezzo la domanda di democrazia dei cittadini, e accentuano il tratto personalistico dei partiti.
Lezione dall’esperienza La lontananza dei partiti dalla società, la loro estrema debolezza nell’interpretare bisogni e soprattutto nel portare le ipotesi elaborate o le soluzioni praticate nei diversi luoghi del paese, la loro incapacità di incalzare lo Stato con forza e intelligenza ma anche di dargli fiducia e di verificarne gli impegni, l’ho personalmente avvertita con nitidezza nei mesi di governo come Ministro per la coesione territoriale.
L’ho avvertita quasi ogni volta che, impiegando uno di quei significativi (ma talora nascosti o isolati) pezzi della macchina dello Stato che si sottraggono all’arcaismo dominante, ho affrontato criticità dell’azione pubblica o trappole del sottosviluppo nel confronto con chi pensa, domanda, analizza, propone e opera nei territori.
L’ho vista nella solitudine di sindaci chiamati a fidarsi di un Ministro della Repubblica che invitava a cambiare metodo, non potendo essi contare su una rete di partito entro cui verificare i propri dubbi (“sarà la solita favola?”), dare robustezza alla propria “voce”14, trovare la forza di manifestare le proprie soluzioni. Nell’esitazione di altri sindaci o di élite economiche locali a giocare una partita più alta che, richiedendo la rinuncia al “poco, subito e certo” in favore del “molto, dopo e incerto”, li esponeva a elevati rischi, rischi che non potevano valutare e condividere in un confronto pubblico aperto promosso da un partito. Nella frustrazione di attori locali competenti che incontrando un centro (nazionale o regionale) arrogante e sordo alle loro soluzioni, non trovavano nel partito lo strumento per segnalare questa situazione e cambiarla in modo collettivo ed erano quindi sospinti ad affrontarla ricercando “relazioni particolari”, ossia la produzione di “beni particolari” anziché di “beni collettivi”.
L’ho percepita, ancora, nella rinuncia di militanti di associazioni del terzo settore, impegnati nella ricerca e nella pratica di soluzioni innovative, a travasare e confrontare le proprie esperienze in una rete aperta, che superi la loro parziale e circoscritta identità e nella frequente tendenza degli stessi a tenersi lontano dalla politica in quanto tale, salvo assumere una posizione meramente richiedente. Nella regressione di altri soggetti verso la chiusura identitaria e localistica, per l’impossibilità di apertura all’esterno che solo un partito può pienamente dare, se non è sommatoria di interessi particolari. Nelle opportunità perse solo perché idee promettenti ma parziali e unilaterali non avevano l’opportunità di confrontarsi in modo adeguato con i punti di vista di soggetti portatori di interessi, valori e competenze diversi, all’interno di uno stesso partito: insegnanti con studenti e genitori, operai di una fabbrica inquinante con cittadini inquinati, abitanti di un’area attraversata dalla ferrovia con gli utenti del treno, e così via. Nella mancanza di quel dialogo fra destinatari diversi dell’azione pubblica che i partiti possono promuovere e gestire.
Mi è apparsa evidente, infine, nella scarsa attitudine dei partiti – con circoscritte eccezioni – a confrontarsi sui metodi innovativi su “come spendere i soldi pubblici” che con la mia squadra e rete abbiamo messo sul tavolo. E nell’impiego limitato da parte dei media, e pressoché nullo da parte dei partiti, dei dati forniti con modalità “aperte” sullo stato di attuazione o sull’efficacia di interventi pubblici, leva potenzialmente dirompente per stanare e incalzare una macchina pubblica arcaica.
L’equilibrio perverso È dunque evidente che in Italia partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica ed élites che li governano vanno d’accordo, sostenendosi reciprocamente e producendo un equilibrio perverso, di sottosviluppo: una “fratellanza siamese … che porta al catoblepismo”15.
Con partiti Stato-centrici associati a uno Stato arcaico, il perseguimento di beni particolari, anziché del bene pubblico, tende a diventare prevalente, anche come motivazione per iscriversi ai partiti o per rapportarsi ad essi. Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica hanno così riportato alla luce in modo eclatante quel “sottofondo di perplessità, di diffidenza, di ostilità e financo di radicale opposizione” ai partiti che nasce assieme all’affermazione stessa dei partiti con le rivoluzioni borghesi16. È il timore per la prevalenza nei partiti degli interessi “di parte”, o particolari, che inevitabilmente si affiancano alla ricerca di interessi generali.
Si tratta, certo, di un timore “peloso” sul piano concettuale, visto che tutte le tradizioni “culturali dell’opposizione al partito in sé … hanno il loro nemico nel pluralismo”17. Identificandolo con la sommatoria di interessi particolari, esse finiscono per perseguire soluzioni moniste, assolutamente incoerenti con una libertà sostanziale degli individui, oltre che con la complessità della realtà. Ma ciò non toglie che per milioni di cittadini si tratti di un timore assolutamente ragionevole e fondato su una molteplicità di comportamenti abusivi del ruolo pubblico, di gravità, diffusione, arroganza e senso di impunità tali da creare un solco incolmabile fra loro (noi) e i “politici”. Un timore che spiega il livello “fuori soglia di sicurezza democratica” che ha raggiunto la sfiducia nei partiti e il “rancore di massa nei confronti della classe politica”. Il fatto che molti di questi stessi cittadini stabiliscano con i “politici” rapporti collusivi volti a catturare favori, nulla cambia; anzi accentua, nella mortificazione, il rancore e il risentimento verso di essi. Sta in questo risentimento, nella percezione, assai spesso fondata, che i “politici” e l’élite amministrativa a essi connessa non paghino in alcun modo i costi della gravissima crisi in atto, il fondamento di molte richieste di riduzione dei “costi della politica”, più che nel loro effetto sui conti pubblici o sull’efficienza ed efficacia dell’amministrazione.
Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica, gettando sabbia nei meccanismi normali di rinnovamento delle classi dirigenti, fomentano un insensato conflitto generazionale. Costruendo barriere all’entrata che privilegiano l’anzianità, partiti e macchina dello Stato non costruiscono gli indispensabili percorsi di trasferimento di conoscenze, funzioni e poteri attraverso le generazioni, né occasioni e riti responsabilizzanti. Così ragazzi e giovani non vengono indotti a crescere19, completare gli studi e transitare verso il lavoro, assumere responsabilità, prendere parte ai processi decisionali. Vengono inibiti sia il ricambio che la proficua ordinaria co-costruzione del lavoro tra generazioni. Le nuove generazioni – che in un contesto normale rimpiazzerebbero gradualmente le élite attraverso ragionevoli processi di accompagnamento, come vediamo avvenire in molti altri paesi – sono così spinte a emigrare o a sfidare le élite esistenti in termini di contrapposizione manichea fondata sulla data di nascita e non su competenza e capacità.
Il combinato di Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica tende a impedire politiche pubbliche efficaci e dunque buon governo, bloccando tutte le fasi del processo ricorsivo di costruzione dell’azione pubblica. La carenza di partiti con carattere e missione propri rende inadeguata e assolutamente opaca sia la fase iniziale di determinazione degli indirizzi delle politiche pubbliche, che dovrebbe fondarsi su una visione e su esperienze condivise attraverso un profondo, aperto e acceso confronto pubblico, sia la fase successiva del loro continuo adeguamento innovativo, che richiede la pressione e la voce robusta e ben indirizzata dei cittadini. La carenza della macchina statale ne sabota le altre tre fasi: la definizione delle azioni con cui attuare gli indirizzi; la loro attuazione concreta nei diversi luoghi del territorio; l’esame dei risultati ottenuti, propedeutico all’adeguamento delle azioni e alla eventuale maturazione di nuovi indirizzi20.
Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica sabotano la circolazione di idee e l’interferenza cognitiva fra centro nazionale e livelli locali. Da un lato, infatti, creano una barriera alla circolazione e al confronto pubblico delle soluzioni prospettate e sperimentate nei territori, impedendo a queste di concorrere a formare le preferenze e le scelte nazionali.
Dall’altro, tolgono al centro la cultura, gli strumenti e l’autorevolezza per intervenire nelle situazioni dove lo sviluppo e le possibilità di partecipazione effettiva sono ora bloccati, esercitando una funzione decisiva di riparazione, promozione e indirizzo nazionale. Piuttosto, partiti e Stato tendono ad agire nei territori spesso semplicemente per conservare gli assetti dati, vuoi con decisioni autoritarie, disattente alle specificità delle persone e dei contesti, vuoi con complice lassismo.
Questo stesso meccanismo oltre che a livello nazionale tende a riprodursi a livello delle singole Regioni, con diversità che andrebbero analizzate, e persino al livello comunale, in particolare delle grandi città.
L’inevitabile effetto: il cattivo governo Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica spiegano tutte le manifestazioni di cattivo governo da cui ho preso le mosse.
In primo luogo, i partiti, privi di un confronto pubblico (acceso e aperto) sui contenuti e sul metodo dell’azione pubblica, non possono costruire una visione condivisa del futuro del paese né fornire ai governi le conoscenze indispensabili affinché le loro decisioni siano fondate sull’esperienza compiuta da chi vive ed opera nei territori del paese. Ne deriva il varo di riforme incomprese dai cittadini e dunque inattuabili, uno dei tratti distintivi dell’ultimo venticinquennio.
Al tempo stesso, la disintermediazione di larga parte della società dal processo decisionale del vertice del partito, l’indebolirsi del radicamento territoriale e del dialogo con i cittadini sulla sostanza delle cose da fare, il ricorso ai nuovi mezzi di comunicazione come strumento sostitutivo (anziché integrativo e rafforzativo) del momento di confronto fisico nel territorio, sono tutti fattori che operano nel senso di privilegiare nella battaglia politica nazionale gli “uomini del destino”, di favorire le liste personali rispetto ai partiti, di mettere al centro la capacità di annunciare, distrarre o illudere, anziché di costruire soluzioni innovative che mobilitino le conoscenze diffuse. Manifestazioni che spiegano il paradosso richiamato della non verificabilità e limitata punizione dei capi-popolo e che sono fonte dell’anti-pluralismo che alligna nella fustigazione dei partiti in quanto tali.
Quanto alle richiamate serie difficoltà del più recente “governo dei tecnici”, esse appaiono in larga misura inevitabili, ossia insite nel modello che l’emergenza ha dettato. Perché il “governo dei tecnici” non solo ha incontrato i limiti dei singoli partiti che lo sorreggevano, ma ha risentito fortemente della peculiare natura decisamente verticistica del compromesso fra quegli stessi partiti, che ne ha orientato la assai limitata capacità di “ascolto”, soprattutto delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale che la crisi ha gravemente accentuato.
La crisi economica, sociale e culturale e lo spavento che l’accompagna – le altre manifestazioni del cattivo governo – sono evidentemente il risultato ultimo, il più doloroso e grave di tutto ciò che precede.
Quale governo della cosa pubblica? Per avere un buon governo bisogna dunque rompere la fratellanza siamese fra Stato arcaico e partiti Stato-centrici, e bisogna cambiare l’uno e gli altri. Per capire come, e in particolare per capire se i partiti vadano trasformati o superati, è necessario partire dalla macchina delle politiche pubbliche e dal metodo di governare che vorremmo. Lo farò nel modo sommario che queste note richiedono e consentono.
La macchina delle politiche pubbliche del nostro paese - lo si è detto - è anacronistica in tutte le fasi del processo di costruzione dell’azione. Nel quindicennio postbellico, l’Italia costruisce una soluzione per la regolazione dei mercati e per la macchina pubblica che consente una straordinaria stagione di sviluppo. Ma si tratta di una soluzione “straordinaria” – per il compromesso politico che la sorreggeva e per la non sostenibilità degli strumenti impiegati – e dunque fragile21. Né allora né nelle molte successive stagioni abbiamo saputo costruire, né per la macchina pubblica, né per i mercati, una soluzione adeguata. In particolare mai abbiamo saputo realizzare una radicale ed efficace revisione della macchina pubblica uscita dal fascismo. Oggi, nel recuperare gli anni perduti non è certo ragionevole ripercorrere le strade che altri paesi hanno nel frattempo battuto e superato. Non perché esse non abbiano prodotto, soprattutto in Europa, risultati positivi, ma perché è bene trarre lezione dalla loro esperienza e costruire direttamente gli strumenti con cui il mondo contemporaneo si sta cimentando oggi.
Questi nuovi strumenti sono riassunti nell’espressione “democrazia deliberativa”22, che declinerò nella sua versione dello “sperimentalismo democratico” 23. Questo metodo mira a superare i gravi errori della “macchina pubblica minimalista” che ha dominato l’ultimo trentennio, portando alla crisi generale in cui ci troviamo, e le criticità della “macchina pubblica socialdemocratica” – estendendo con Tony Judt24 il termine europeo “socialdemocratico” anche agli Stati Uniti – affermatasi nel mondo industriale avanzato negli anni ’30 e accantonata bruscamente a fine anni ’7025.
Punti di forza e limiti delle soluzioni socialdemocratica e minimalista La soluzione “socialdemocratica” ha consentito, dove è stata compiutamente praticata, - non in Italia - straordinari risultati in termini di qualità di vita dei cittadini e del lavoro, promuovendo la libertà sostanziale, l’inclusione sociale dei cittadini, ossia la loro capacità di fare le cose alle quali assegnano valore nella vita, e la dignità del lavoro, e accompagnando dopo la seconda guerra mondiale una straordinaria stagione di crescita26. Ma questa soluzione ha mostrato anche crescenti criticità: difficoltà nel soddisfare con servizi standard (per salute, istruzione, cura di infanzia e anziani, manutenzione territoriale) le preferenze assai diverse dei cittadini, che lo stesso benessere andava ampliando; comportamenti adattivi dei cittadini assistiti, con effetti di erosione del loro impegno; deviazioni rilevanti dall’interesse generale nell’uso delle risorse pubbliche; effetti negativi sugli animal spirits degli imprenditori, connessi agli strumenti pubblici altamente discrezionali impiegati per assicurare loro l’afflusso di capitale dai risparmiatori (regolazione, anti-monopolio, tribunali interventisti, controllo diretto via proprietà, in misure e forme diverse a seconda dei “capitalismi”).
Il rilievo e l’impatto negativo sulla società e sull’economia di queste criticità è stato accresciuto da due fenomeni epocali: l’emergere, con il benessere e la pace, di una maggiore attenzione, da parte di milioni di cittadini (non solo di élite), alla propria individualità; la diffusione della conoscenza e l’accelerazione del suo cambiamento, in un contesto di istruzione di massa e di nuove tecnologie, specie dell’informazione. Il primo fenomeno ha reso inadeguate molte azioni pubbliche, favorendo negli anni ’60 una reazione “anti-paternalista” verso lo Stato socialdemocratico, soprattutto da parte dei giovani. Il secondo fenomeno, da un lato ha ridotto il vantaggio cognitivo dei centri di competenza pubblici, nazionali e internazionali, nel decidere “che fare”; dall’altro, ha favorito nuovi metodi per il controllo dell’azione pubblica.
La soluzione “minimalista”, o liberista, con cui si è data risposta alle criticità del modello precedente, ha promosso in tutti i campi, sul piano del metodo, nuove tecniche di misurazione dei risultati attesi dell’azione pubblica, ha sfruttato le nuove tecnologie dell’informazione per rendere pubblici e verificabili tali obiettivi e le informazioni raccolte e prodotte dalla macchina pubblica, ha dato vita a un confronto serrato sulla valutazione degli effetti dell’azione pubblica.
Ma nell’applicare queste tecniche la nuova soluzione ha commesso gravi errori.
La soluzione minimalista ha, in primo luogo, ritenuto che la personalizzazione dei servizi e le deviazioni dell’azione pubblica dagli interessi generali potessero essere risolte esternalizzando ai privati la produzione dei servizi e contrattualizzando i rapporti con essi sulla base di target e regole predefiniti: ne sono discese deviazioni ben più gravi di prima, con riflessi negativi profondi sulla qualità dei beni pubblici prodotti dallo Stato e sulla loro inclusività, e dunque sulla democrazia. In secondo luogo, la soluzione minimalista ha smantellato, nel mercato dei capitali e nella regolazione del delicato rapporto fra proprietà (azionisti e/o banche) e controllo (amministratori) delle imprese, gli strumenti discrezionali della fase precedente, e li ha sostituiti, anche qui, con meccanismi automatici e contrattuali (dalle stock option per gli amministratori ai derivati): ciò ha introdotto un tale grado di incontrollabilità degli amministratori e squilibri talmente profondi nelle modalità di approvvigionamento del capitale da parte delle imprese da creare le basi per ricorrenti crisi di fiducia finanziaria. Infine, attribuendo al mercato virtù di auto-riequilibrio, ha negato che fosse compito dello Stato contrastare il ciclo economico, demolendo sul piano culturale e normativo (regole rigide automatiche – di nuovo – di pareggio del bilancio) la capacità degli Stati nazionali di contrastare le crisi.
A questi esiti gravidi di conseguenze sociali ed economiche e fonte della crisi il minimalismo è giunto sulla base di due distinti miti, entrambi privi di fondamento. Il primo mito è che esistano “istituzioni e regole ottime”, indipendenti dai contesti, elaborabili da tecnici “al di sopra delle parti”, generalmente collocati in organismi sovra-nazionali, e che il problema dell’azione pubblica consista nell’applicare tali istituzioni e regole ai luoghi (tesi delle “istituzioni perfette”)27. Il secondo mito è che le grandi imprese multinazionali, per via della molteplicità di detentori di interessi e competenze con cui interagiscono (finanziatori, lavoratori, clienti, cittadini il cui contesto ambientale è influenzato dagli effetti delle produzioni, etc.), abbiano la capacità e l’incentivo per effettuare una sintesi delle conoscenze e degli interessi di tutti questi soggetti, finendo quindi per prendere decisioni di investimento e di localizzazione che sono nell’interesse generale: sarebbe dunque bene che l’azione pubblica seguisse l’indirizzo delle grandi imprese28. In entrambe le mitologie, sotto la parvenza di una posizione “liberale” che invoca mercato e Stato minimo, si staglia invece uno Stato massiccio e onnipotente che in un caso detiene il sapere per stabilire le regole “buone per tutti”, nell’altro scrive le norme e realizza gli investimenti chiesti dagli onniscienti e neutrali tecnocrati privati.
Il superamento di entrambe queste visioni, socialdemocratica e minimalista, che come ogni superamento incorpora contributi e lezioni di entrambe, si sta oggi manifestando con particolare forza nei paesi dove più intenso è stato l’impegno della macchina pubblica nelle fasi precedenti.
Tale superamento poggia sulla comprensione di un errore comune alle due visioni: ritenere che alcuni, pochi, soggetti possano avere la conoscenza per prendere le decisioni necessarie nel pubblico interesse.
Nella visione socialdemocratica, o meglio in molte sue applicazioni29, questa capacità è attribuita agli amministratori e tecnici pubblici: a quelli nazionali, raccolti attorno al governo e nei centri di competenza dello Stato nazionale; e a quelli che ogni Stato nazionale assegna agli organismi internazionali o “proto-federali” all’uopo costituiti, Ocse, Fmi, Banca Mondiale, Commissione Europea, etc.. Nella visione minimalista, questa capacità è primariamente attribuita a manager e tecnici, vuoi raccolti nelle tecnocrazie degli organismi internazionali oramai resesi autonome dagli Stati nazionali di provenienza, vuoi dei grandi megacorp privati: ai primi è attribuita la funzione di “scrivere regole”, di raccomandare ai singoli Stati i comportamenti appropriati, che essi si assume conoscano; ai secondi è attribuito il compito di indirizzare in ogni singolo paese le scelte della macchina pubblica, indicandole di cosa le grandi imprese hanno necessità per investire, espandersi, localizzarsi, intraprendere grandiosi progetti di sviluppo.
In realtà, la conoscenza necessaria per assumere decisioni pubbliche che siano davvero di interesse generale non è concentrata nelle mani di pochi. Questa conoscenza è dispersa fra una moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere: ne fanno certo parte i grandi imprenditori ma anche quelli non grandi; i tecnici degli organismi internazionali o proto-federali, ma anche quelli di migliaia di centri di competenza e ricerca; ne fanno parte i pubblici amministratori, ma anche i quadri dei corpi intermedi della società; ne fa parte il ceto medio urbano, ma anche i lavoratori dell’industria e dei servizi sociali. Muta quindi, questa conoscenza, al cambiare dei contesti a cui quelle decisioni pubbliche si applicano, ovvero il loro effetto dipende dai contesti. Ancora di più: la conoscenza necessaria spesso neppure esiste quando sorge un problema o un’opportunità; essa scaturisce piuttosto come “innovazione” dal confronto e dal conflitto fra molteplici soggetti che possiedono conoscenze parziali30. Questo stato di cose è particolarmente vero nel mondo attuale segnato dai due fenomeni epocali che ho richiamato, di ipertrofia dell’“io” e di diffusione delle conoscenze. Con un’incertezza elevata e pervasiva, una tecnologia rapidamente mutevole, preferenze assai idiosincratiche ai contesti, le soluzioni di ieri rappresentano una guida limitata per risolvere i problemi di oggi e nessuno possiede la conoscenza adeguata per anticipare i problemi e per disegnare soluzioni31.
La soluzione dello sperimentalismo democratico Nasce qui la visione alternativa: la macchina pubblica per prendere decisioni – si tratti di servizi per il ciclo dei rifiuti, per l’acqua o per la manutenzione del territorio, del sistema per punire e recuperare chi viola la legge, delle scelte per la mobilità, della tutela e promozione della cultura, delle regole del mercato del lavoro o dei capitali, dei modi di passare da una scuola trasmissiva a processi di apprendimento a scuola e fuori di tipo attivo, della costruzione di percorsi di inclusione sociale capaci di rendere protagonisti i destinatari – deve costruire un processo, che, convincendo i molteplici detentori di conoscenza e esperienza a partecipare, promuova il confronto fra le loro parziali conoscenze, consenta innovazione, e lo traduca in decisioni assunte secondo le regole di responsabilità costituzionalmente previste. A tale scopo è necessario muovere da quadri regolativi iniziali volutamente provvisori e prevedere la loro progressiva revisione attraverso un processo di analisi continua degli esiti nei rispettivi contesti, fondata su partecipazione attiva dei cittadini, verificabilità, monitoraggio e valutazione in itinere, presidio dei risultati e forte utilizzo della Rete per dare semplicità, apertura e tempestività a queste funzioni.
Questa macchina, che affonda le radici nelle parti più innovative della soluzione socialdemocratica32 e usa molti strumenti di quella minimalista, definiamo, con Sabel, “sperimentalismo democratico”.
È un metodo che assume forte rilievo in tutti i campi dell’azione pubblica. Anche in quello volto ad affrontare il decisivo problema dell’esclusione dal lavoro e della disoccupazione strutturale.
“Quando cambiamenti radicali nelle tecnologie o nel design mettono fuori gioco intere produzioni o professionalità operaie … l’assicurazione dalla disoccupazione non costituisce il ponte verso un altro lavoro. La risposta vera a questa situazione consiste nel consentire a individui e famiglie di auto-assicurarsi contro questi rischi acquisendo la capacità di trovare soluzioni”33. Le caratteristiche dei servizi e delle capacità da fornire vanno individuate, contesto per contesto, attraverso il metodo proprio dello sperimentalismo.
Il metodo di governo che si va costruendo gradualmente in giro per il mondo e che dovremmo porci come obiettivo di costruire (e al quale molti in Italia già oggi lavorano, spesso in solitudine) è dunque imperniato su istituzioni pragmatiche che consentano di prendere e modificare decisioni combinando un processo di mutuo apprendimento con il massimo possibile di impegno e sviluppo degli individui.
Per fare ciò è necessario in Italia un “passo del cavallo”. Da un lato, dobbiamo rovesciare i limiti che rendevano la nostra macchina pubblica arcaica anche per l’attuazione delle due precedenti visioni – ecco la peculiarità italiana – e raggiungere quindi: modernità organizzativa; affinamento delle procedure; adeguatezza del personale; forte ricorso alle tecnologie informatiche; chiara identificazione delle responsabilità; capacità di passaggio di consegne intergenerazionale. Al tempo stesso, dobbiamo costruire i requisiti propri dello sperimentalismo:
• legiferare e emanare atti di amministrazione che promuovano adattamento e revisioni nei contesti34;
• creare lo spazio per un confronto acceso e aperto, un conflitto governato, fra interessi, competenze e visioni diverse;
• utilizzare a tale scopo la Rete per realizzare “una cooperazione di maglia stretta con comunità interessate ai problemi che le burocrazie sono chiamate a gestire”35;
• utilizzare gli errori, i fallimenti, gli ostacoli (talora creati a mo’ di test) per ricavare informazione sull’efficacia delle routine usate e cambiare;
• includere nelle regole lo spazio per sottoporre le regole stesse a revisione;
• utilizzare nel processo l’armamentario di indicatori e strumenti valutativi promossi dalla visione minimalista, adattandone l’uso alla nuova visione; · reclutare o formare le risorse umane che sappiano svolgere queste nuove funzioni.
Sperimentalismo democratico vs. minimalismo: due versioni di “austerità” Il potere innovativo dello sperimentalismo democratico e la sua radicale differenza rispetto al minimalismo – pur nella condivisione di tecniche – appaiono evidenti in una situazione di grave crisi come quella attuale, in cui l’azione pubblica è chiamata allo stesso tempo a fronteggiare un peggioramento nelle condizioni di vita dei cittadini e nella fiducia delle imprese e a realizzare rigore nel governo delle pubbliche finanze.
L’austerità che questa situazione domanda può essere declinata in due modi radicalmente diversi. Come scriveva Enrico Berlinguer in un passaggio poi mancato della nostra storia repubblicana, l’austerità “può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia”36. Il minimalismo promuove la prima strada. Lo sperimentalismo la seconda.
È utile stilizzare, le differenze: · Il minimalismo persegue l’efficienza nella produzione di beni pubblici attraverso la definizione a livello nazionale e/o sovra-nazionale di soluzioni, regole e best practices e di meccanismi automatici di aggiustamento, nel convincimento che il “che fare” sia noto a ristrette classi dirigenti (fossero anche quelle dai cui errori la crisi origina). Lo sperimentalismo ricerca il modo più efficace e meno oneroso per produrre i beni pubblici confrontando in modo aperto e intensamente dibattuto le diverse soluzioni praticate o proposte, nel convincimento che la conoscenza sul “che fare” sia diffusa e da reinventare in ogni contesto.
• Il minimalismo utilizza lo spavento indotto dalla crisi (talora fomentandolo) per fare accettare provvedimenti assunti attraverso processi decisionali chiusi, ristretti ai “detentori di conoscenza”. Lo sperimentalismo trova nella trasparenza e apertura di tutte le informazioni e in atti di pubblica decisione assunti attraverso processi decisionali partecipati, la base per limitare lo spavento indotto dalla crisi.
• Il minimalismo persegue sempre e comunque il pareggio del bilancio, ignorando la particolarità delle spese di investimento e rinunciando a contrastare il ciclo, anzi autoimponendosi di non farlo attraverso regole costituzionali. Lo sperimentalismo pianifica la copertura in tempi sostenibili di ogni spesa corrente con entrate correnti e contrasta il ciclo, secondo una valutazione politica discrezionale, verificabile e sanzionabile.
• Il minimalismo giustifica e quando può sostiene, remunerazioni, stili di vita e altri benefici personali per gli amministratori pubblici e i politici quali strumenti indispensabili affinché i loro incarichi siano competitivi con quelli del comparto privato.
Lo sperimentalismo assume che il principale ritorno degli incarichi di amministratore pubblico e politico derivi dall’esercizio in sé della funzione di governo – capace di soddisfare entrambi i sentimenti dell’egoismo e dello spirito pubblico – e che le loro remunerazioni e stili di vita debbano sempre avere a riferimento quelli dei cittadini che essi rappresentano e con cui si confrontano.
Per innovare la macchina pubblica servono i partiti L’esperienza internazionale mostra che i passi verso lo sperimentalismo democratico, pur avvenendo in modo incrementale, non sono frutto di un processo evolutivo auto-sostenibile.
Queste innovazioni, quando partorite spontaneamente, “non danno di per sé vita a un processo politico democratico. Orientano il pensiero e l’immaginazione e stimolano ipotesi su nuove forme di intervento che richiedono dibattito e conflitto”37. Per fruttare e diffondersi richiedono un’arena politica in cui i cittadini coinvolti nel processo possano trovare la motivazione, la continuità e l’efficacia per impegnarsi. Un’accentuata procedura deliberativa ha bisogno di un aperto e regolato conflitto sociale: serve un partito, con un forte radicamento sociale, che promuova e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto e che sia capace di indicare le priorità e le grandi scelte in termini di uso del denaro pubblico.
Questa necessità è già evidente per paesi dove, sul terreno di una macchina pubblica fondamentalmente sana, lo sperimentalismo si va diffondendo a partire dalle esperienze sedimentate lungo le due fasi storiche precedenti. Lo è ancora di più in un caso, come quello italiano, dove la macchina dello Stato è arcaica ed è unita in fratellanza siamese a partiti Statocentrici.
L’arcaicità dello Stato rende necessario un forte cambiamento, di persone, di metodi, di linguaggio, di stili di comportamento, anche solo per mettersi nelle condizioni di “giocare”, cioè di avere le basi che altri paesi hanno già costruito. L’esistenza della fratellanza siamese e del catoblepismo ci dice che ogni tentativo di cambiamento troverà – come ha trovato finora di fronte ai tentativi compiuti – una forte resistenza nelle élite, che vedranno messo in discussione il proprio potere. È quindi indispensabile una forte spinta da parte dei cittadini, organizzati in formazioni robuste, capaci di esprimere competenza e soluzioni, pronte a reggere a impegni prolungati, segnati di arretramenti e avanzamenti complessi.
I partiti servono a dare slancio e costanza a queste necessità. E a porre la questione decisiva del cosa e come fare. Perché sono inalienabili le funzioni di determinare, favorire e diffondere riti partecipativi, capaci di parlare delle cose, di riunire sulle cose da fare, esaminando ogni volta possibilità, contesti, risorse, obiettivi in termini pragmatici, per dare prospettive credibili alle aspirazioni, alle speranze e per assolvere, in ciò, anche a una funzione educativa e di trasmissione di metodo e di slancio attraverso le generazioni.
Cambiare la macchina dello Stato nella direzione richiesta dallo sperimentalismo senza contemporaneamente cambiare i partiti appare dunque velleitario.
Anche quando si arriva a praticare il metodo sperimentale, per scelta politica di governo e potendo eccezionalmente ricorrere ad un’amministrazione pubblica centrale innovativa, l’impegno, la fiducia, il coraggio dei soggetti locali, privati e pubblici sono limitati dalla loro solitudine, dall’assenza di una rete entro cui trovare le risorse cognitive e fiduciarie per azzardare comportamenti nuovi, per “rischiare di avere fiducia”, come fu saggiamente detto in un’assemblea pubblica a L’Aquila (dove una pratica di governo a lungo diametralmente opposta allo sperimentalismo democratico ha logorato in modo accentuato il rapporto fra cittadini e Stato). È anche questa l’esperienza personale di cui ho prima detto.
Negli altri casi - la maggioranza - in cui l’amministrazione si presenta con la sua veste arcaica, i soggetti investiti dall’azione pubblica, privi della rete di un partito, non hanno forza, coesione e voce per reagire, per proporre un metodo (quello dello sperimentalismo) che pure è nella loro testa. Se reagiscono, lo fanno vuoi per dire dei “no”, vuoi per torcere l’azione pubblica nella direzione di interessi più ristretti, se non particolari.
Per testare la validità del mio assunto è utile porsi ancora tre domande. Se per avviare saldamente il cambiamento possa “bastare” l’affidare la guida del governo a genuini innovatori.
Se al cambiamento possano essere sufficienti altri corpi intermedi della società, anche senza i partiti. Se la Rete possa sostituire i partiti. Non basta constatare che sinora nessuno di questi tre fattori si è rivelato sufficiente. È utile ribadire perché.
Può il “buon governo” essere conseguito da una forte e innovativa guida del governo e del Parlamento che modifichi la macchina dello Stato? No, per tre ragioni. Perché non si vede come si possa avere tale forte e innovativa guida se non esiste alle spalle un partito che abbia una visione del futuro del paese e la connessa potenza di mobilitare conoscenze per disegnare il “che fare”. Perché anche ipotizzando che per qualche fortunata alchimia tale guida si materializzi e lavori per modificare la macchina dello Stato nel senso indicato, questo disegno non potrà andare in porto, per le dure resistenze e il modesto appoggio che esso incontrerà in assenza di un partito che ne pretenda la realizzazione. E infine per le ragioni che ricaviamo dall’esperienza dei paesi dove lo sperimentalismo democratico si va diffondendo, ossia che l’efficacia di questo metodo richiede – anche la mia già citata esperienza lo sottolinea – una rete 27 territoriale di cittadini permanentemente mobilitati con cui interloquire, che si sentano e siano esterni alla macchina pubblica.
Può la latitanza dei partiti essere compensata dall’azione dei corpi intermedi della società rappresentativi di interessi del lavoro, dell’impresa o dell’impegno civile? Certamente, questi corpi intermedi sono fondamentali per riequilibrare divari forti di potere contrattuale fra le diverse articolazioni della società, specie fra il lavoro e il capitale, e per immettere conoscenza nei processi decisionali. Certamente, questa azione può aiutare il cambiamento, quando i corpi intermedi non sono essi stessi parte, con le loro élite, dell’equilibrio perverso.
Certamente, va dato maggiore spazio ai movimenti e alle reti sociali che, con mezzi anche antagonisti, sono veicolo di nuovi bisogni e nuove idee. Ma, anche nella migliore delle ipotesi, nessuno di questi corpi può realizzare quella mobilitazione di cittadini ispirata da convincimenti profondi e al di sopra di ogni specifica identità (di genere, di religione, di classe, di origine, di gusto, di luogo, di rapporto con la natura) che sola consente la maturazione di soluzioni di interesse generale ai complessi problemi dell’azione pubblica. Non si danno per definizione, in questi corpi, quelle condizioni che consentono di maturare decisioni per un buon governo.
Può la Rete (il web, internet) sostituire i partiti?38 Anche in questo caso la risposta è negativa.
L’offerta di connessione universale e tempestiva della Rete, la sua capacità di accumulo, archiviazione e recupero delle informazioni, creano straordinarie possibilità di informazione, di mobilitazione, di controllo, degli elettori sugli eletti e in genere dei cittadini sulle azioni pubbliche, e consentono di smascherare la manipolazione delle informazioni da parte delle élite.
In particolare, la Rete offre una piattaforma per lo sperimentalismo, perché incentiva i cittadini a dare il proprio contributo: lo fa riducendone il costo, assicurandone la non manipolazione e offrendo la possibilità di verificare l’utilità del proprio contributo attraverso il numero di connessioni39.
Ma la Rete non può in alcun modo assicurare l’“approfondita disamina dei problemi”, la “fase necessariamente lenta, problematica, riflessiva della discussione”40, il confronto acceso e ragionevole che sono richiesti dalla complessità dei problemi stessi e dalla necessità di “inventare” soluzioni per l’azione pubblica che ancora non esistono. Solo supponendo che la conoscenza richiesta per assumere decisioni di buon governo sia assai limitata, solo negando il processo laborioso e sofferto di confronto fra conoscenze e interessi diversi che ogni azione pubblica “giusta” richiede, solo supponendo che le soluzioni siano già tutte pronte e non debbano viceversa essere costruite, caso per caso, si può pensare che il processo decisionale, e dunque l’input dei cittadini ai governanti, sia esaurito dalla Rete. Ma questo assunto è errato41, proprio come errato è l’assunto minimalista della concentrazione in poche teste di ciò che c’è da sapere. La Rete può allora dare ai partiti uno straordinario slancio nel giocare la partita dello sperimentalismo, consentendo e costringendo il processo deliberativo a essere aperto. Non può sostituirsi ai partiti.
Le “idee” – torna ad argomentare anche una parte del pensiero economico egemone42, dopo l’ubriacatura di un trentennio – sono strumento decisivo del cambiamento, perché determinano gli obiettivi che la classe dirigente decide di perseguire – il potere, il denaro, il giudizio storico – , la sua valutazione del contesto, l’arco delle strategie fra cui essa è convinta di poter scegliere.
Sono le idee, talora maturate endogenamente, talora portate anche in modo traumatico dall’ “esterno”, a poter rompere l’equilibrio perverso di élite estrattive, non solo rinnovandole ma anche facendo loro “cambiare la testa”; cioè convincendole a giocare una partita che è di interesse generale. La fucina di queste idee, che richiede luoghi fisici di confronto argomentativo e dialogo fra soggetti caratterizzati da diverse identità, sono i partiti. E non possono che essere i partiti. Il motore di queste idee, che richiede la forza di un’organizzazione capace di mobilitare i cittadini per pretendere determinate soluzioni, sono sempre i partiti.
Per poter dare un buon governo al paese, ossia per migliorare la qualità, la giustizia e l’efficacia delle sue decisioni, servono, in conclusione, corpi sociali intermedi che non siano specializzati nella tutela di uno solo degli interessi o valori in gioco, che abbiano una visione, che permettano un confronto pubblico acceso e aperto, che consentano flussi di idee (nelle due direzioni) tra centro e periferia, che alla fine portino queste idee all’attenzione delle persone che il metodo democratico fa eleggere o nominare negli organi costituzionali. Insomma, servono i partiti. Al plurale, perché molteplici ed escludenti sono i convincimenti generali – soprattutto lungo un’asse sinistra-destra – di cui partiti hanno bisogno per esercitare una carica simbolica che incentivi la partecipazione, per disporre di un linguaggio con cui realizzare il confronto, per avere un metro con cui dire i “si” e i “no” alle diverse ipotesi di azione pubblica.
Ma la forma partito che oggi usiamo non è quella giusta. Serve una nuova forma. Quale? 30 5. Quale partito? Il partito nuovo I tratti della nuova forma partito necessaria a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” sono suggeriti dalla lezione appresa sul campo e dalle considerazioni fin qui svolte.
Nel tratteggiare questa nuova forma partito cesso da questo momento di riferirmi a un “partito in genere” e prendo a riferirmi a un “partito di sinistra”, d’ora in poi “partito”. Per due ragioni.
Poiché è il partito al quale i miei convincimenti mi conducono a lavorare. E perché alcuni profili della forma partito che mi accingo a tratteggiare sono costitutivi degli stessi convincimenti che contraddistinguono un partito di sinistra. Scrivo “di sinistra”, come fino a fine anni ’80 si definivano sia alcuni partiti, sia alcune correnti del partito della Democrazia Cristiana, anziché usare altre circonlocuzioni, per sottrarmi all’ipocrisia di questi anni recenti, attenermi concretamente a come ci si divide nell’emiciclo delle assemblee elettive, ritrovare un più trasparente terreno di confronto con i partiti “di sinistra” – devo scrivere left? – del resto d’Europa e del mondo. E ancora perché è nel contenuto dei convincimenti dichiarati, non nella rinunzia alla parola “sinistra”, che si misura l’adesione del partito al pluralismo e ai diritti dell’individuo, che in una fase storica una parte della sinistra ha erroneamente considerato negoziabili.
Per il buon governo dell’Italia serve, dunque, un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato di chi ha altrove il proprio lavoro e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti parte rilevante del proprio finanziamento, torni, come nei partiti di massa del passato, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali dello Stato43, ma anche “sfidante dello Stato stesso”44 attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica.
Un partito che realizzi questo obiettivo sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle “avanguardie”: realizzando una “mobilitazione cognitiva”45.
Un simile partito risponde alle caratteristiche e alla domanda della società contemporanea. Una società dove, al permanere di gravi divari sociali e di uno squilibrio di potere fra lavoro (e lavori) e capitale, si accompagnano livelli di istruzione medi assai più elevati del passato, una forte diversificazione degli interessi e delle identità, un’enfasi robusta degli individui sul proprio “io” – figlia degli anni ’60, prima delle distorsioni del “trentennio liberista” – il moltiplicarsi di soluzioni contestualizzate nella produzione di servizi pubblici un tempo uniformi, tecnologie che facilitano tale diversificazione e la diffusione tempestiva di conoscenze su di esse e sui loro esiti. Sono, le stesse trasformazioni che concorrono a spiegare la crisi del partito di massa, e che rendono invece praticabile il partito mobilitatore di conoscenze.
Ma procediamo con ordine, riassumendo subito tutti i tratti del partito nuovo. È un partito che poggia su alcuni convincimenti generali che ne contraddistinguono la natura “di sinistra” e su una visione dello stato delle cose e dell’“Italia ed Europa che vorremmo”, che continuamente aggiorna. Su queste basi il partito persegue, accanto all’obiettivo tradizionale, ancorché innovato, di selezionare classe dirigente per la partecipazione alle assemblee elettive e per l’attività esecutiva ai diversi livelli di governo, l’obiettivo nuovo di mobilitazione cognitiva.
Strumenti di questo obiettivo sono: la costruzione di un confronto pubblico informato, acceso e ragionevole fra iscritti e simpatizzanti; l’apertura ad “altri” di questo confronto; la perentoria separazione dallo Stato. Consideriamo in sequenza questi profili.
Convincimenti generali e visione di lungo periodo per l’Italia e l’Europa Una base di convincimenti generali condivisi è indispensabile. “Credere a qualcosa assieme ad altri” è la leva culturale simbolica che spinge a interagire con questi altri, crea uno spirito di coesione fra gli iscritti e con i simpatizzanti che motiva l’impegno per finalità collettive, di una parte del proprio tempo di vita e ispira rispetto all’esterno. Convincimenti generali condivisi sono necessari per disporre di un linguaggio con cui dialogare all’interno del partito e con gli altri partiti. Solo la loro condivisione consente infine di convenire sul peso da attribuire agli effetti attesi da soluzioni alternative a ogni dato problema e pervenire quindi a una decisione.
Siamo in una fase storica in cui fa fatica ad affermarsi una cultura forte e anzi spesso domina una cultura debole46. Ma, sempre nel rifiuto simultaneo del relativismo etico e dell’imposizione dogmatica di presunte verità valoriali monistiche, le condizioni per condividere alcuni convincimenti generali esistono. L’esercizio, pure incompleto, che (con azzardo persino superiore a quello di questo intero scritto) ho compiuto nell’Addendum dà un’idea di cosa intendo per convincimenti generali. Suggerisce, al di là dell’adesione o meno ai singoli contenuti, che si può trovare una maglia di proposizioni a un tempo esclusive (di altri sistemi di valori), anche attraverso l’enfasi su alcune parti del testo costituzionale, e sufficientemente larghe da includere un pluralismo di punti di vista e un metodo aperto al mondo e alla trasformabilità delle posizioni. Di queste proposizioni fa parte integrale la stessa logica dello sperimentalismo democratico che motiva la forma di partito della mobilitazione cognitiva: è questo un presidio che salvaguarda il nuovo partito dalla trappola di un’appartenenza identitaria fondata sulla fissità di convincimenti e linguaggi, oltre che su un leader a cui dovere fedeltà.
Allo stesso modo, il partito nuovo deve sviluppare e condividere una visione di medio-lungo periodo sullo stato della società, a livello globale, nazionale ed europeo, e sul ruolo dello Stato che tenga conto delle tendenze in atto nella tecnologia e nei comportamenti umani. E deve sviluppare e continuamente aggiornare, proprio sulla base degli esiti e delle idee che maturano nell’esercizio della mobilitazione cognitiva, una visione dell’Italia e dell’Europa che sarebbe auspicabile per i nostri pronipoti. L’aspirazione del partito di massa a un modello “superiore” di società (e forse anche di comportamento umano) viene sostituito dall’aspirazione a una società migliore di quella attuale che, sulla base dei convincimenti “di sinistra” che contraddistinguono il partito, il partito stesso elabora continuamente come propria stella polare. Nel realizzare questa elaborazione, il partito ricercherà un confronto con i partiti di sinistra del mondo ma, in particolare degli altri Stati membri dell’Unione Europea che miri a ricostruire una valutazione congiunta sul futuro della stessa Unione e sulle azioni da intraprendere a riguardo. Questa visione aiuterà anche a guidare il processo di mobilitazione cognitiva.
La mobilitazione cognitiva come superamento della tensione fra tecnocrazia e democrazia La mobilitazione cognitiva, realizzata sulla base dei convincimenti generali che caratterizzano la “cultura” del partito, si articola in due fasi. Consiste prima di tutto nel raccogliere, confrontare, selezionare, aggregare e talora produrre conoscenza sul “che fare” dell’azione di governo attraverso un confronto pubblico, informato, acceso, aperto e ragionevole, nei luoghi del territorio, fra iscritti, simpatizzanti e “altri” singoli o membri di associazioni, genuinamente indipendenti. Si tratta di quella ritualità rivolta al cosa e come fare prima richiamata. A questa azione si accompagna quella di trasferire questa conoscenza attraverso tutti i possibili strumenti della “voce”, a due distinti destinatari: gli amministratori locali, per sostenere e sollecitare il processo decisionale degli organi di governo del proprio territorio; la classe 33 dirigente che i partiti stessi hanno concorso a far eleggere o nominare negli organi dei livelli superiori di governo (regionale e nazionale). Questo secondo, più complesso trasferimento avrà luogo confrontandosi a ogni stadio con la conoscenza che viene da altri territori, oltre che dall’Europa e dal mondo. Entrambe le operazioni saranno guidate dai quadri del partito che, secondo il requisito della separazione fra partito e Stato, saranno assolutamente distinti dagli eletti e da governanti o amministratori.
Così, la mobilitazione cognitiva rappresenta il metodo nuovo per promuovere, stare al passo, riempire di contenuti gli strumenti dello sperimentalismo democratico e, al tempo stesso, di scegliere i quadri del partito non solo sulla base dell’adesione ma della capacità di andare per strada, incontrare, esprimere dubbi, proporre e vagliare soluzioni, prove di attività, iniziative costruttive nel vivo della società.
Non si tratta di trasformare il partito in un “pensatoio”, ma piuttosto in una “palestra”: un luogo attraente per tutti i cittadini, giovani e anziani, lavoratori e non, uomini e donne, convinti di avere idee da confrontare con altri, disposti anche a svolgere in modo volontario azioni di interesse pubblico, capaci di filtrare o produrre idee operative e portarle con forza sul tavolo di chi governa. Una palestra politica di mobilitazione cognitiva che assicuri la valutazione pubblica informata, accesa, aperta e ragionevole può pretendere, animare, accelerare lo sperimentalismo. Lo completa sul piano del telaio sociale, ne trae i suoi stessi quadri.
A ben guardare il partito della mobilitazione cognitiva rappresenta il superamento dello scarto fra democrazia e tecnocrazia47. Si tratta di una questione centrale, nata con il sorgere stesso della democrazia politica in Europa, rilevante fin dagli anni ’20-’30 dello scorso secolo: quella della tensione fra principio di maggioranza – il governo dei democraticamente eletti – e principio di competenza – il governo di chi sa. Tema ripreso di recente in Italia, sia in relazione al condizionamento dell’azione del governo nazionale da parte di organismi tecnocratici sovra-nazionali, sia in relazione alla formazione di un “governo tecnico”48.
La tensione sarebbe inevitabile se fosse vero che il “saper governare” è privilegio di pochi; che questi pochi “sanno” davvero quali soluzioni dare ai problemi dell’azione pubblica. Il buon governo dipenderebbe allora dalla possibilità di adottare le soluzioni disegnate da questi pochi competenti; soluzioni valide in tutti i luoghi e protette dalla nefasta influenza del confronto con masse di cittadini incompetenti e preoccupati solo del proprio interesse particolare. Così questo principio di competenza, necessario al buon governo, entrerebbe in tensione con il principio di rappresentanza. Si dovrebbe ricercare un punto di compromesso. Le cose non stanno assolutamente così, lo abbiamo già visto! Le trasformazioni richiamate hanno reso ancora più evidente che in passato che, indipendentemente da ogni giudizio di valore, la conoscenza sul che fare, sulle soluzioni disponibili, sulla loro rispondenza alle preferenze dei cittadini, sulla loro appropriatezza al contesto non è detenuta da pochi, ma è piuttosto dispersa fra una moltitudine di individui. E più spesso ancora, questa conoscenza non pre-esiste ma scaturisce ex-novo – innovazione imprevista – dall’interazione, ovvero dal conflitto, all’interno di questa moltitudine, purché gli individui confrontino le loro informazioni disperse e i loro diversi interessi in modo aperto e ragionevole e siano garantite, e da tutte le parti riconosciute, le forme del conflitto e del procedere della democrazia.
Se così stanno le cose, perseguire la concentrazione delle decisioni nelle mani di pochi non è solo in tensione con il principio di rappresentanza. È anche in tensione con il principio di competenza. È un errore e basta. È l’errore compiuto, come si è visto, durante l’ultimo trentennio affidandosi per decisioni di grande importanza a manager e tecnici privati o alle tecnocrazie degli organismi internazionali, nell’assunto che essi conoscessero le regole e le istituzioni che, in modo indipendente dai contesti, consentono di assicurare decisioni buone. La grave crisi economica in atto è anche, in larga misura, il risultato di questo errore. La strada da prendere parte allora dal riconoscere l’errore. Aderendo al paradigma dello sperimentalismo.
Urge allora riconoscere in un partito volto alla “mobilitazione cognitiva” anche un partito che lavora, con costanza, a ricomporre principio di maggioranza e principio di competenza, che colmi “lo scarto fra istanze partecipative e difetto di conoscenze e di informazioni su questioni di interesse pubblico”49. Serve un partito che lo faccia senza negare la complessità del sistema delle conoscenze necessarie ad assumere decisioni pubbliche, come chi ritiene la Rete un sostituto possibile dei partiti. E che, riconosca che solo la mobilitazione di tutte le conoscenze disponibili può affrontare realtà complesse in modo adeguato. In sintesi, la ricomposizione fra cittadini votanti e cittadini proponenti e partecipanti è l’unico vero ponte possibile fra principio di maggioranza e di competenza.
49 Pinelli, C. (2012), pp. 147-148.
35 Nel muoversi in questa direzione, un partito di mobilitazione cognitiva può cogliere la domanda forte di partecipazione e di “fare politica” che viene da tutti i cittadini, soprattutto dai giovani.
La domanda che viene da un mondo del lavoro spiazzato dall’evoluzione dei partiti dell’ultimo ventennio. La domanda di rappresentare e confrontare non solo bisogni, ma soprattutto conoscenza sulle azioni collettive necessarie per soddisfarli. La domanda di costruire “assieme” una visione del futuro. La domanda che oggi si manifesta in azioni private o nell’adesione ad associazioni volontarie di scopo, ma che è assai scarsamente attratta dai “partiti”. La domanda di apprendere insieme, anche fuori dai luoghi deputati e entro il confronto tra generazioni, esperienze, mestieri diversi e tra differenti modi e stili di apprendimento intorno alle cose da fare per il bene comune. La domanda sulla cui base un movimento come “5 stelle” ha costruito la propria offerta politica (pur nello schema angusto e di corto respiro del leaderismo e di tentazioni di segregazione comunitaria).
Obiettivo e strumenti del partito della mobilitazione cognitiva E utile articolare in dettaglio l’obiettivo della mobilitazione cognitiva e i suoi tre requisiti. Da essa deriva la descrizione di un partito segnato da quattro tratti:
a. Partito che mobilita, produce e pratica conoscenze sulle azioni pubbliche necessarie per soddisfare i bisogni e le aspirazioni dei cittadini. In una società contemporanea - che alla forte articolazione sociale e diversificazione dei bisogni e agli altri tratti prima richiamati aggiunge l’accentuata diversità dei contesti territoriali di un paese fortemente policentrico - il partito non è più il veicolo dei bisogni, della “domanda popolare”, di un gruppo di “simili”; è piuttosto il coagulo delle soluzioni immaginate o praticate nei territori per soddisfare i bisogni di un gruppo di “diversi”. Assume forte rilievo in questo partito, come motivo per iscriversi o frequentare o interloquire a livello territoriale con esso, la possibilità di confrontare le proprie conoscenze e valutazioni sulle politiche e azioni pubbliche locali, nazionali o internazionali, con quelle di cittadini “diversi” per identità e interessi che condividano alcuni convincimenti generali (iscritti e simpatizzanti) o anche solo il metodo del confronto (gli “altri”). La prima aspirazione sarà quella di influenzare gli altri e trarne conoscenza: azione produttiva di effetti per i propri interessi, ma anche un “valore in sé” che permette di testare le proprie conoscenze e idee su come disegnare l’azione pubblica, di apprendere o di concorrere con altri a costruire soluzioni. Connessa a questa sarà l’aspirazione a mettere in pratica soluzioni 36 immaginate, dedicandovi il proprio lavoro volontario. Sarà così possibile anche aspirare a costruire nella pratica quotidiana, assieme ad altri, la visione di una possibile società migliore. Nel processo di mobilitazione cognitiva, il trasferimento delle conoscenze non opera solo dal basso verso l’alto viaggia anche dall’alto verso il basso, con origine vuoi nella dirigenza nazionale, vuoi nella classe dirigente che, lavorando con l’Amministrazione negli organi costituzionali, elabora soluzioni. In questo secondo flusso, si avranno rispetto alla situazione attuale due radicali differenze. In primo luogo, il flusso dall’alto finirà spesso per misurarsi espressamente col flusso sistematico in senso opposto, cioè con le conoscenze che “vengono dal basso”: questo confronto può consentire alle scelte di cambiamento (normative e attuative) che sono compiute dagli organi di governo di essere “comprese” e di dare vita a quella visione condivisa che è mancata nell’ultimo ventennio. In secondo luogo, in questo scenario è espressamente compito della dirigenza nazionale del partito intervenire sistematicamente con le proprie conoscenze e idee nei nodi territoriali del partito dove il confronto langue o si manifestano deviazioni verso interessi particolari: è questo un requisito per convincere le élite territoriali dove più forte è la resistenza a “cambiare testa”.
b. Partito del confronto pubblico informato, acceso e ragionevole. Il confronto pubblico acceso è il mezzo con cui il partito, sfruttando le potenzialità della rete e poi portando in luoghi fisici territoriali, in circoli, l’approfondita disamina dei problemi e la discussione lenta, problematica e riflessiva, può creare nei cittadini (iscritti, simpatizzanti e altri) la fiducia e l’incentivo a investire una pur piccola parte del proprio tempo di vita nel dare, ricevere e creare conoscenza sul “che fare” e quando possibile metterla in pratica. È il solo strumento che, al di là delle motivazioni particolari che muovono i singoli partecipanti, può permettere di smontare giorno dopo giorno, col tempo, il “partito sommatoria o compromesso di interessi particolari” e fare progressivamente affermare – anche al di là delle finalità dei singoli – il “partito sintesi di beni pubblici”. Il partito agisce come luogo di apprendimento umano, dove si possono smontare e rimontare convinzioni, arricchire conoscenze, capire meglio il proprio tempo e partecipare a trasformazioni. Tali prospettive, col tempo, possono produrre una selezione favorevole, anziché avversa, nella frequentazione e nell’iscrizione al partito. E sono potenziali poderosi strumenti per produrre innovazione. Per avere questi effetti virtuosi, il 37 confronto deve essere50 informato, aperto alla diversità, alla contestazione e alla considerazione convinta dei punti di vista (anche assai) diversi dal proprio, volto alla ricerca di un “accordo” anche parziale. Proprio la procedura del confronto e il principio di ragionevolezza (la “capacità di difendere un’idea in una discussione pubblica strutturata in modo libero e aperto”) che deve animarlo rendono tale accordo possibile. Per queste ragioni, il confronto può trarre impulso dall’uso della Rete, può trovare nella Rete la base informativa, la possibilità di contribuire in modo non costoso e verificabile negli effetti, ma ha bisogno di focalizzarsi e di trovare poi i suoi ritmi lenti in luoghi fisici del territorio. Il confronto andrà governato da leader (locali, intermedi e nazionali) di qualità che condividano e sappiano praticare con competenza il metodo: si tratterà di volontari (nelle micro–unità territoriali) o di funzionari professionisti che il partito dovrà selezionare e formare. Come scrive Sen, il perseguimento di decisioni “giuste” – obiettivo dell’azione di governo – si esprime in una straordinaria “fame di informazione”. Un partito orientato al confronto pubblico acceso e così strutturato può costruire la base per soddisfare tale fame. Il metodo utilizzato all’interno del partito rappresenta una sfida agli altri partiti, costruiti sulla base di altri convincimenti, per adottare lo stesso metodo e la base per (ri)costruire il confronto fra partiti dentro le assemblee elettive e nel paese.
c. Partito aperto. L’esistenza di una base numerosa di iscritti (e di simpatizzanti) è indispensabile. Perché il confronto pubblico acceso, per avere luogo e convergere su un accordo, ha bisogno di poggiare su un nucleo di persone rese relativamente coese dalla condivisione di un nocciolo robusto di convincimenti, capaci di assicurare un linguaggio comune. Perché le risorse umane e il contributo finanziario sono necessari a un partito che si voglia emendare dalla dipendenza dallo Stato (come illustrato al punto successivo). Perché quella base serve per selezionare i quadri dirigenti dei livelli superiori del partito, che saranno responsabili per la fluidificazione delle conoscenze.
Affinché questi requisiti siano soddisfatti, è necessario che l’iscrizione sia legata a una genuina partecipazione e che sia effettivamente aperta sia a individui sia ad associazioni, evitando il prevalere di gruppi chiusi “controllori di tessere”, e adattando la modalità, gli orari, i formati del confronto alle esigenze dei diversi segmenti sociali, delle donne, degli operai, degli anziani. Nel partito nuovo è altrettanto indispensabile che al confronto pubblico con iscritti e simpatizzanti partecipino, di volta in volta, su singoli temi, anche i cittadini lontani dal partito ma interessati ai temi che esso dibatte, e in primo luogo i membri delle associazioni (di azione e di ricerca) genuinamente e testardamente indipendenti attraverso cui anche nel nostro paese “le sensibilità individuali si stanno convogliando in motivazioni collettive”51. Fine della partecipazione degli “altri” non è, a differenza del partito di massa, quella di allargare l’influenza del partito, costruendo un nuovo impossibile e deleterio “collateralismo”. Piuttosto, la partecipazione degli “altri” è la condizione per tenere vivo, allerta, il processo di apprendimento e di produzione di conoscenza, non solo come effetto del dialogo fra gruppi dirigenti di diversi partiti. L’effettiva interazione con “altri” facilita l’esercizio su cui insiste Sen di guardare le cose come “spettatori imparziali” o – come scriveva Adam Smith – da “un luogo che non c’è”. Consente di evitare la sindrome dei gruppi eccessivamente affini che, isolandosi da opinioni esterne, stimolano il conformismo e perdono motivazione per investigare e apprendere. Sfrutta invece gli incentivi della diversità52. Riduce ulteriormente il rischio della deriva del partito verso la tutela di interessi particolari, grazie alla trasparenza – non “segretezza” o “recinzione guidata” – del confronto. Permette ai singoli, in contesti territoriali dove vivono affiancate comunità assai diverse, anche a seguito di crescenti fenomeni migratori, di sfuggire alla trappola della “segregazione comunitaria”, allo schiacciamento della propria identità su una sola dimensione (religiosa, etnica, di età, etc.), e di fornire un apporto informativo al processo valutativo. La Rete è strumento decisivo per avviare, rendere fattibile, alimentare di nuovi apporti questa apertura, che troverà nell’incontro fisico la sua realizzazione.
d. Partito separato dallo Stato. Le precedenti caratteristiche del nuovo partito rendono indispensabile superare l’attuale dipendenza del partito dallo Stato, sia in termini finanziari, sia in termini di relazione fra i funzionari del partito, locali, regionali e nazionali, da un lato, e le persone che il partito stesso concorre a fare eleggere o nominare negli organi di governo, – locali, regionali e nazionali – o che vengono selezionate con criteri di merito (e non su proposta o pressione dei partiti) nell’amministrazione, nelle agenzie e autorità, negli enti di pubblica proprietà, dall’altro.
Queste due separazioni costituiscono la condizione indispensabile affinché il partito sia credibilmente dedicato alla raccolta, aggregazione, produzione e rivendicazione di soluzioni per governare, restando questo processo distinto dalle decisioni che verranno prese dalle suddette istituzioni. Per quanto riguarda le risorse finanziarie per l’attività del partito, queste dovranno venire in misura prevalente dal contributo volontario di iscritti e simpatizzanti, attivi nell’azione del partito, integrate in modo regolato e controllato da contribuzioni di altri soggetti. Il finanziamento pubblico, ulteriormente ridotto nel volume, dovrà essere rivisto nelle modalità di raccolta e impiego e accompagnato da forme adeguate di controllo interno e esterno, nonché da una normativa per il conflitto di interesse che riduca lo squilibrio competitivo fra le formazioni politiche. Per quanto riguarda i “funzionari di partito” – utilizzo senza ipocrisie questo termine alternandolo con “quadri” e “dirigenti” – essi sono indispensabili. Nel nuovo partito si tratta di persone che a un certo punto della vita e per un periodo di tempo tendenzialmente determinato, scelgono di portare dentro questo progetto di partito, l’esperienza che hanno sin lì maturato e le competenze sin lì accumulate; e che sono già formati, ovvero vengono formati nell’utilizzo dell’impegnativo metodo di confronto pubblico descritto ai punti 2 e 3. Diverse e competitive sono, nel disegno tratteggiato, le loro funzioni – disegnare una visione, maturare e promuovere soluzioni – rispetto a quelle di chi è impegnato a governare – raccogliere e vagliare esperienze e proposte, decidere e attuare soluzioni. Le soluzioni adottate dai secondi sono continuamente sottoposte al vaglio e alla critica del partito – anche quando eletti e governanti ne sono espressione. Diverse sono le responsabilità dei funzionari del partito – verso gli iscritti al partito – e di chi governa o siede nelle assemblee elettive – verso tutti i cittadini, di qualunque “parte”. Mai coincidenti, per statutaria incompatibilità, assoluta, sono i soggetti che svolgono l’una o l’altra funzione.
Come avviene ora, il partito evidentemente alimenterà dalle proprie file una parte anche significativa degli eletti o dei governanti, ma la separazione e tensione creativa fra partito e Stato, la dipendenza finanziaria del partito dai contributi degli iscritti e appropriati vincoli formali assicureranno una piena distinzione di ruoli. Si combina con questo tratto del nuovo partito il ripristino di un ruolo significativo della dirigenza locale nella selezione della dirigenza nazionale, ogni livello dovendo giudicare la capacità del livello superiore come promotore e veicolo di conoscenza e di soluzioni.
Da questa descrizione della funzione originale del partito nuovo risulta evidente che anche la funzione tradizionale di selezione dei candidati per le assemblee elettive e di candidatura 40 per le funzioni dei diversi livelli di governo risulta profondamente modificata. Per la separazione assoluta fra questi ruoli e quelli di funzionario di partito. Per l’ambizione di prevenire l’attuale perverso meccanismo che vede molti avvicinare i partiti con l’aspirazione di imboccare una “scala mobile” che dalla posizione di volontario porti a quella di funzionario e quindi di candidato a posizioni in qualche modo controllate dal partito. Per il venire meno dell’attuale condizionamento degli eletti sulla dirigenza del partito, sostituito da un rapporto dialettico.
La forma partito proposta prevede una dialettica effettiva, continua, dal momento successivo al voto, fra partito, da una parte, e propri gruppi parlamentari (o consiliari) ed eventuale proprio esecutivo, dall’altra. Il partito manterrà e rafforzerà la mobilitazione cognitiva concentrandola sui temi ritenuti prioritari e su quelli contenuti nelle decisioni assunte dagli organi di governo; solleciterà l’esecutivo, anche se di propria espressione, sul terreno delle soluzioni concrete che esso continuamente elabora; presidierà l’attuazione dei provvedimenti sui territori, animando questa fase decisiva del processo deliberativo; raccoglierà e aggregherà le conoscenze necessarie a aggiustare gli interventi; favorirà la maturazione di un’interpretazione condivisa sulle scelte compiute. Nello svolgere questa funzione, il partito scongiurerà quel divario profondo di fiducia e comunicazione che da oltre venti anni si è andato aprendo fra governo e società e che, come si è argomentato, ha impedito anche a tentativi generosi di tradursi in buon governo.
Motivazioni per impegnarsi nel partito nuovo e specificità dei giovani Prima di sollevare alcuni interrogativi in merito alle regole e all’organizzazione da adottare per raggiungere lo scopo prospettato, è utile soffermarsi ancora sulla capacità del partito nuovo di attrarre davvero partecipazione e di bilanciare la (inevitabile) ricerca di benefici particolari con la (necessaria) ricerca di benefici generali, del bene pubblico. E sullo specifico ruolo che il partito nuovo può avere per i giovani e sul ruolo che vi possono giocare.
Egoismo e spirito pubblico, indipendenza e imitazione nel partito nuovo Si è già detto che la natura aperta e accesa del confronto pubblico e il suo essere guidato da un principio di ragionevolezza verso soluzioni di “accordo” realizzano nel partito nuovo condizioni favorevoli a limitare la ricerca di benefici particolari e a perseguire un bene pubblico. Nella stessa direzione va la condivisione robusta di alcuni convincimenti generali e di una visione di medio-lungo termine. Ma non basta. È utile valutare l’interesse per il partito nuovo anche alla luce di due distinte coppie di “sentimenti” che, inducendo la partecipazione, possono essere combinati nel raggiungere lo scopo desiderato: la coppia egoismo-spirito pubblico e la coppia indipendenza-imitazione.
La prima coppia, egoismo-spirito pubblico, è ben nota. La componente egoistica, dell’amor proprio o della realizzazione del sé, tornata allo scoperto sul piano culturale e sociale negli anni ’60 e divenuta poi esclusiva nel trentennio liberista, può trovare appagamento nella nuova forma di partito–conoscenza come “incentivo a influenzare e apprendere”. Rispetto al partito Stato– centrico, si tratta, insomma, di cambiare il ritorno personale prevalente che dall’iscrizione o dal contatto col partito si va cercando: da reddito e potere attraverso il partito, a conoscenza per avere reddito e potere indipendentemente dal partito. È un passaggio importante perché, non negando il rilievo della componente egoistica, la “ammaestra”, riducendo l’aspettativa che il partito costituisca un’agenzia di collocamento53.
Quanto alla componente “smithiana”, quella dello spirito pubblico, – altrettanto naturale quanto l’egoismo, come stiamo tornando a capire in questo travagliato inizio di millennio – essa conta, sia perché induce a dedicare il proprio tempo al partito nel perseguimento di un bene pubblico, sia per l’istinto naturale a ragionare, discutere, dissentire e consentire54 che trova un luogo di appagamento nello spazio pubblico offerto dal nuovo partito. Si tratta dunque di lavorare anche su questa dimensione per attrarre la partecipazione attiva al partito.
Anche la seconda coppia di sentimenti, indipendenza-imitazione, può essere di aiuto per costruire lo spazio di confronto. L’indipendenza, spingendo a far valere le “proprie” soluzioni, tiene viva la diversità. L’imitazione, può favorire l’emergere dell’accordo. Assieme, se ben governate dai leader territoriali, l’una può evitare le degenerazioni dell’altra: l’indipendenza può evitare il conformismo indotto dall’imitazione; l’imitazione può evitare l’autoreferenzialità e la sordità indotte dall’indipendenza.
Appare evidente da questi cenni che nel montare la mobilitazione conoscitiva, nel costruire la connessione fra ruolo della Rete e ruolo dei luoghi fisici, nel disegnare gli spazi di confronto, nell’affidarne ad alcuni (iscritti) la leadership, nel rivolgersi ai potenziali partecipanti, è necessario procedere in modo professionale, lavorando su queste due coppie di sentimenti. Si tratta di costruire, provare e poi aggiustare un metodo che tenga conto delle esperienze che si vanno compiendo in altri contesti e nell’Italia stessa. I leader locali del partito, funzionari e volontari, ai quali viene affidato il mestiere della mobilitazione cognitiva devono essere preparati. Selezione e formazione vanno costruite con cura, in relazione all’ambizioso ma realistico obiettivo configurato.
Ruolo specifico dei giovani e ricambio generazionale Al partito nuovo i giovani possono dare un contributo specifico che affonda nelle loro caratteristiche: desiderio di cambiamento e minore propensione al cinismo; disponibilità di tempo; domanda di conoscenza. Nel partito della mobilitazione cognitiva essi possono trovare come ogni altra persona un terreno dove confrontare le proprie esperienze, apprendere, concorrere a cambiare. Ma tre specifici ruoli e attività possono, a un tempo, dare un forte contributo al partito nuovo e convincere loro stessi a partecipare al partito.
In primo luogo, con il coinvolgimento di associazioni e aggregazioni giovanili esistenti, anche rigorosamente indipendenti, è possibile costruire nei luoghi territoriali del partito un vero e proprio “apprendistato cognitivo” che affidi ai giovani, sfruttandone la disponibilità di tempo e il desiderio di cambiamento, il compito di animare il dibattito sulle questioni di interesse comune, con un’esplicita inversione dei ruoli rispetto alle precedenti generazioni: interpretare e discutere dati; reperire e valutare norme; ricercare e valutare argomentazioni di merito; investigare modelli attuati altrove; partecipare a applicazioni di sperimentalismo; studiare e illustrare documenti di indirizzo delle istituzioni internazionali, europee e nazionali. A questa funzione potrà corrispondere a livello nazionale l’aggiornamento del dibattito generale a partire da istruttorie curate dai giovani, con la cooperazione di non-giovani, esperti, anche essi propensi ad apprendere. È così che si rende possibile ed effettiva, senza paternalismi, l’abitudine al lavoro tra generazioni.
In secondo luogo, i giovani - siano essi membri, simpatizzanti o “altri” - possono portare nel partito, grazie a spazi dedicati, la conoscenza delle esperienze che essi realizzano nel territorio in modo auto-organizzato mirando a trasformazioni concrete. Questa pratica potrà stimolare lo sperimentalismo e consentirà di prendere contatto con i community leaders emergenti, nel riconoscimento della loro assoluta indipendenza. Infine, il partito potrebbe favorire le opportunità esplorative e formative di qualità per i giovani iscritti e simpatizzanti, promuovendo attraverso formatori-accompagnatori l’“esplorazione del mondo” attraverso libri, “missioni” in altri territori, incontri culturali e con personalità capaci di fomentare interrogativi e ricerca.
Queste linee di azione, oltre a tonificare la mobilitazione cognitiva, potranno anche mettere su basi diverse la selezione di nuovi volontari o funzionari per lo stesso partito: non riti cooptativi, logiche di approvazione o disapprovazione e neppure esaltazione di “esperienze simbolo”, ma sani e trasparenti processi di selezione, promozione e formazione. Si eroderà così la logica dell’adesione basata su fedeltà e subalternità. Potrà essere combattuta la propensione malsana, presente soprattutto nelle zone difficili del Paese, a costruire dipendenza dalla politica, creando false élite nel mondo giovanile fondate su protezioni, veicoli e legami per ottenere impiego o parti di reddito o per intercettare e partecipare a reti che facilitano la conquista di posizioni di rendita personali o di gruppo, entro le aree protette, tra partiti Stato-centrici e macchina arcaica dello Stato.
Interrogativi su regole e organizzazione Chi meglio di me conosce i partiti esistenti in Italia, segnatamente a sinistra – a cui mi rivolgo – e in particolare il Partito democratico, potrà valutare quale distanza vi sia rispetto alla forma partito sin qui abbozzata. E quanto arduo sia e quale sia il percorso da compiere se si aderisse all’ipotesi di partito nuovo disegnato in queste pagine. E quali esperienze già compiute e in corso anticipano in realtà questo disegno.
Comunque stiano le cose, mi è ben chiaro che si tratta di un’ipotesi ambiziosa. Assai ambiziosa.
Ma mi è altrettanto chiaro che senza di essa non può esservi una svolta nel governo del paese. E che si tratta di un disegno possibile. Perché risponde a una fortissima domanda di una diversa politica e alle potenzialità che il paese ha mostrato di avere e che i partiti di sinistra hanno al loro interno. Certo, se perseguito, è destinato ad avere molti nemici, essendo tutto rivolto a fare saltare posizioni di rendita a lungo costituite e difese con caparbietà. Ma quale progetto vero ne è privo? Piuttosto, ciò richiederà la condivisione di un sistema di regole e di un percorso. Su questi aspetti decisivi mi limiterò a sollevare i principali interrogativi ai quali si dovrà rispondere se l’ipotesi delineata volesse essere attuata in un programma politico.
Un primo gruppo di interrogativi riguarda le modalità operative con cui assicurare la circolazione effettiva delle conoscenze verso il basso e verso l’alto:
• In quale formato e modalità trasferire la conoscenza dagli spazi territoriali di pubblico confronto agli organi di governo locali?
• Come offrire davvero ai giovani le opportunità di impegno cognitivo prima descritte, avendo come luogo di riferimento primario i circoli territoriali?
• Come aggregare soluzioni anche diverse provenienti da diversi contesti locali e trasferirle ai livelli intermedi (segnatamente regionali) e nazionale?
• Quali forme di sollecitazione impiegare nel portare le soluzioni all’attenzione dei propri eletti o candidati in posizioni di governo?
• Come realizzare le due fasi di “ritorno” verso il basso: il trasferimento da parte dei livelli superiori verso i livelli inferiori, delle decisioni assunte o in corso di assunzione nel governo della cosa pubblica? L’“incursione destabilizzante” da parte della dirigenza nazionale nelle realtà territoriali dove il confronto pubblico aperto non decolla secondo le “regole della casa”? Gli altri interrogativi riguardano profili più classici dell’organizzazione e delle regole di un partito, sui quali l’ipotesi delineata suggerisce scelte nette che tuttavia vanno praticamente dettagliate:
• Come assicurare che l’iscrizione e i diritti che ne derivano in termini di partecipazione alle scelte e alla selezione dei gruppi dirigenti siano vincolati all’effettiva partecipazione ai processi di mobilitazione cognitiva?
• Come introdurre e favorire l’iscrizione o la partecipazione al partito di gruppi associati, indispensabili al successo della mobilitazione cognitiva?
• Come disegnare modi, orari e formati di partecipazione all’attività del partito, nei circoli e negli altri luoghi di aggregazione fisica, che assicurino lo spazio per i nuovi ceti medi urbani, ma anche per gli operai, gli altri lavoratori dipendenti, le donne?
• Come favorire e tutelare la partecipazione alla mobilitazione cognitiva di individui e associazioni che non condividono i convincimenti generali del partito (gli “altri”) e vogliono mantenere la propria piena indipendenza?
• Come assicurare la necessaria formazione ai funzionari e volontari che a livello territoriale intendono svolgere funzioni di guida e animazione della mobilitazione cognitiva?
• Come disincentivare/prevenire l’adesione al partito di giovani con l’aspirazione a una “carriera” nel partito? Come viceversa assicurare ai giovani le particolari funzioni descritte? · Come promuovere, l’impegno remunerato nel partito anche per periodi limitati di tempo (da pochi mesi a 1-3 anni) in ogni fase dell’attività lavorativa di una persona?
• Quali regole prevedere per la nomina e la durata massima della dirigenza locale, regionale e nazionale?
• Quali regole per assicurare l’incompatibilità assoluta fra funzionariato nel partito e candidatura nelle assemblee elettive o in organi esecutivi? E come regolare l’eventuale ripresa di attività remunerata nel partito dopo l’esercizio di una funzione elettiva?
• Quali regole, sanzioni e/o codici deontologici per assicurare comportamenti di tutti i militanti, funzionari, eletti, candidati a posizioni di governo che siano davvero coerenti con i convincimenti fatti propri dal partito e tali da ricreare fiducia nella politica?
• Quale modo per scongiurare in modo categorico l’attribuzione di incarichi pubblici in enti in alcun modo controllati per motivi di appartenenza partitica e per accertare e sanzionare senza eccezioni i comportamenti devianti?
Anche in relazione alle risposte date a questi interrogativi, è necessario valutare se il rinnovamento, una volta individuato e condiviso il punto di arrivo desiderato, debba essere perseguito con una “doccia fredda”, ossia attraverso un radicale, simultaneo rinnovamento di tutte le strutture territoriali e centrali, rinnovamento delle persone e/o del loro modo di agire, ovvero attraverso un cambiamento graduale che muova dalle 100-300 “unità territoriali”, dai circoli, dove esistono leader forti, capaci di costruire prototipi di cambiamento, o dove il cambiamento e già in moto, ovvero con un mix di queste due modalità.
E ancora, si dovranno valutare i numerosi aspetti di una legge sul finanziamento pubblico dei partiti che dia preminenza al finanziamento volontario degli iscritti e dei simpatizzanti, regoli le contribuzioni private, modifichi la contribuzione pubblica - sia riducendo quella automatica legata al numero dei voti ricevuti, sia introducendo altre, non automatiche, modalità, sia prevedendo controlli interni e esterni (con un equilibrio fra norma prescrittiva e autonomia statutaria) -, assicuri l’assoluta e aperta verificabilità degli impieghi e accompagni tutto ciò con una normativa per il conflitto di interesse che riduca lo squilibrio competitivo fra formazioni politiche.
Mi è stato fatto giustamente osservare che solo quando a tutti questi interrogativi saranno state date risposte convincenti l’ipotesi di partito nuovo presentata in queste pagine assumerà la forma di un “programma politico”. Concordo. Sono certo che le risposte possano venire solo dal lavoro congiunto di una “squadra” che dovesse accogliere con interesse e sentimento e adeguatamente sviluppare l’ipotesi presentata in questa memoria. Che, con l’Addendum che segue, chiudo.
ADDENDUM Convincimenti di un partito di sinistra: esercizio di scrittura Lungi dal rappresentare la proposta di un insieme anche solo incompiuto e preliminare di principi da porre a base di un “partito di sinistra”, ciò che segue è un esercizio di scrittura volta a indicare cosa io intenda per “convincimenti comuni a un partito di sinistra”, che, con un forte ancoraggio alla Costituzione e una scelta di enfasi e integrazioni rispetto a essa, favoriscano un sentire e un linguaggio comuni necessari a sollecitare la partecipazione e a lavorare efficacemente sul “che fare”.
Memoria politica dopo 16 mesi di governo
di Fabrizio Barca
Aprile 2013 Il pieno e il vuoto, le cose fatte e quelle apprese della mia azione di governo per la “coesione territoriale” sono resi manifesti dai materiali raccolti nel sito www.coesioneterritoriale.gov.it e dal Rapporto di fine mandato (http://www.coesioneterritoriale.gov.it/rapporto-di-fine-mandato-fabrizio-barca/). Questa stessa azione, ogni singola esperienza dei miei sedici mesi di lavoro, nel territorio e a Roma, suscita una secca conclusione politica: senza una “nuova forma partito” non si governa l’Italia. Ovunque si pone il problema di una nuova forma partito. In Italia questo obiettivo ha rilievo e urgenza straordinari di fronte alla sfiducia radicale e al risentimento che circonda i partiti, alla persistente incapacità di buon governo, alla crisi culturale, prima ancora che economica e sociale, che il paese attraversa. Queste pagine sono dedicate a sostenere questa conclusione e a suggerire la funzione e i tratti di una nuova forma partito che permetta il buon governo. Non mi riferirò a un partito in genere - per il quale, pure, larga parte delle considerazioni che svolgo paiono adatte - ma a un partito di sinistra, essendo questo ciò che mi preme.
Prima di procedere, sono necessari tre caveat.
Viviamo un momento di grave crisi, internazionale, europea e ancor più italiana. Che richiede un forte presidio di governo. Non ci sono dubbi. Tuttavia, questo presidio avrà effetto solo se contemporaneamente sarà avviato il ridisegno dei partiti. Senza esitazioni o l’alibi che altre sono le urgenze. Si deve cambiare, perché la crisi è figlia anche della crisi dei partiti. È un progetto per il quale servono molte persone di buona volontà, coese e capaci di lunghi cammini.
In secondo luogo, è evidente che le difficoltà di governare l’Italia derivano anche dall’incompiutezza e dalle incertezze dell’Unione Europea, dalla sua incapacità di fronteggiare la seconda più grave crisi della storia del capitalismo, mettendo in discussione i paradigmi errati che l’hanno indotta e rilanciando il disegno della cittadinanza europea. Al tempo stesso, è altrettanto evidente che per tornare a dare un contributo politico forte all’Unione, che ne concorra a sbloccare lo stallo – la miopia o fragilità di altri fondatori mostra quanto ce ne sia bisogno – l’Italia deve essere ben governata. Senza una nuova forma partito ciò non mi appare possibile.
L’ultimo caveat è che non penso davvero che bastino alcuni anni di militanza giovanile in un partito e poi i lavori di tecnico, amministratore pubblico e ministro e neppure – anche se conta più del resto – la vicinanza profonda con un protagonista della migliore politica – mi riferisco a mio padre – per proporre in modo solitario il programma politico di un partito nuovo. Nel razionalizzare i miei pensieri di sedici mesi, ho fatto dunque affidamento su alcuni importanti contributi1 le cui idee mi auguro di aver ben usato, e sulle reazioni e importanti suggerimenti di chi ha pazientemente letto una prima, rozza versione. E, soprattutto, considero queste pagine solo un passo preliminare, che cerca il confronto con altri saperi, sentimenti e “memorie”.
In sintesi L’esperienza di sedici mesi di governo e le considerazioni svolte in questa memoria suggeriscono che per “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” e assicurare un buon governo, è necessario che i partiti, ai quali la nostra Costituzione affida questa funzione, si separino dallo Stato con cui si sono in Italia perversamente affratellati, fino al “catoblepismo”, per divenire rete materiale e immateriale di mobilitazione di conoscenze e di confronto pubblico, informato, acceso, ragionevole e aperto di idee e soluzioni con cui incalzare lo Stato. Solo così lo Stato potrà rinnovarsi.
L’aggravante peculiare della crisi italiana, con la prolungata assenza di buon governo, sta nel concorrere di una macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale e di partiti Stato-centrici, ai quali hanno contribuito le regole del finanziamento pubblico e la deriva culturale del paese. Al deterioramento di tutte le fasi del processo di costruzione dell’azione pubblica si sono così accompagnati: il perseguimento crescente di beni particolari anziché del bene pubblico; comportamenti abusivi di tale gravità da creare un solco profondo tra cittadini e “politici”; il blocco dei normali meccanismi di rinnovamento delle classi dirigenti, con lo scatenamento di insensati conflitti generazionali; una perdita di fiducia nei nostri stessi mezzi.
Se e quale nuova forma dare ai partiti, più in particolare a un partito di sinistra, comunque lo si voglia chiamare quello che corrisponde ai miei convincimenti, discende dal giudizio che diamo sul metodo di governo della cosa pubblica che può rinnovare e rilanciare il paese.
Lo sperimentalismo democratico In linea con un crescente corpo di esperienze in tutto il mondo e con la prassi della mia esperienza di amministratore, suggerisco che tale metodo debba essere quello dello “sperimentalismo democratico”. Esso supera l’errore che la soluzione “minimalista” – o liberista, magna pars della crisi internazionale che viviamo – condivide con molte applicazioni concrete della soluzione “socialdemocratica”, ossia l’ipotesi che alcuni, pochi individui, gli esperti, i tecnocrati, dispongano della conoscenza per prendere le decisioni necessarie al pubblico interesse, indipendentemente dai contesti. Ed evita l’altro, nuovo errore della nostra epoca, quello di pensare che la “folla” possa esprimere quelle decisioni in modo spontaneo, attraverso la Rete. In presenza di incertezza elevata, tecnologia mutevole, istruzione di massa e preferenze degli individui assai differenziate e influenzate dai contesti, la macchina pubblica 3 deve piuttosto costruire un processo che promuova in ogni luogo il confronto acceso e aperto fra le conoscenze parziali detenute da una moltitudine di individui, favorisca l’innovazione e consenta decisioni sottoposte a una continua verifica degli esiti, sfruttando le potenzialità nuove della Rete e dando continuamente forma alle preferenze e alle scelte nazionali.
Costruire in Italia questo metodo di governo della cosa pubblica richiede un “passo del cavallo”, che, in una mossa sola, adegui finalmente la macchina pubblica ad alcuni metodi e prassi che la soluzione socialdemocratica e la soluzione minimalista ci hanno da tempo consegnato, e realizzi i requisiti propri dello sperimentalismo.
Il partito palestra A questo fine, per realizzare i profondi cambiamenti che la procedura deliberativa aperta richiede e superare le dure resistenze che il rinnovamento incontrerà in coloro che dalla perversa fratellanza fra parti e Stato hanno tratto guadagno e potere, sono necessari un aperto e governato conflitto sociale e la coesione attorno ad alcuni convincimenti generali che parlino ai nostri sentimenti.
Serve allora un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, richiamandosi con forza ad alcuni convincimenti generali, solleciti e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto.
Serve un “partito palestra” che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato, praticando volontariato e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti e simpatizzanti una parte determinante del proprio finanziamento, sia capace di promuovere la ricerca continua e faticosa di soluzioni per l’uso efficace e giusto del pubblico denaro. Serve un partito che torni, come nei partiti di massa, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali e di governo dello Stato, ma anche “sfidante dello Stato stesso” attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica. Serve un partito che realizzi questi obiettivi sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle “avanguardie”, ossia realizzando una diffusa “mobilitazione cognitiva”.
Il partito di sinistra che serve al paese non è, dunque, il partito scuola di vita (e di lotta), il partito di massa dove si ascoltano bisogni e si insegna “la linea” per ottenere soddisfazione di quei bisogni e costruire il nuovo “avvenire” prefigurato dalla cultura di partenenza. Non è certo il partito di occupazione dello Stato, dove si vende e si compra di tutto: prebende, ruoli, pensioni, appalti, concessioni, ma anche regole, visioni, idee. Non è neppure il partito liquido, 4 quello della crisi della politica, vetrina dove sono in mostra manichini e prodotti dell’“offerta politica”, nefasta influenza dell’economia sulla politica. È un partito palestra che offre lo spazio per la mobilitazione cognitiva, per confrontare molteplici e limitate conoscenze, imparare ognuno qualcosa, confrontare errori, cambiare posizione, costruire assieme soluzioni innovative per stare meglio e gli strumenti e le idee per farle vincere; e permettere così anche che dal confronto collettivo si profili e vada emergendo un avvenire più bello per i nostri pronipoti con tratti che oggi non possiamo anticipare.
Se la sinistra costruirà questo partito, muovendo dai partiti che esistono, segnatamente dal Partito democratico, dalle esperienze in corso, dalle strutture territoriali che tentano già oggi di operare nel nuovo modo, le forze politiche che si raccolgono attorno a culture e convincimenti diversi saranno spinte a rinnovarsi anche esse, dando vita a una sfida alta, necessaria al rilancio del paese.
Né corpi intermedi della società rappresentativi di interessi del lavoro, o dell’impegno civile, pur fondamentali, né la Rete (il web, internet), pure piattaforma potente dello sperimentalismo democratico, possono sostituire i partiti come interfaccia fra società e governo della cosa pubblica. Sono le idee e le soluzioni innovative maturate dal confronto, necessariamente teso e problematico, di individui con interessi, conoscenze e valori diversi che possono alimentare e sospingere la macchina dello Stato nella direzione richiesta dallo sperimentalismo.
Partito che muova i sentimenti e si separi dallo Stato Il partito nuovo di sinistra disegnato su queste basi deve prima di tutto contare su alcuni convincimenti generali condivisi e su una visione di lungo periodo per l’Italia e per l’Europa: per la forza attrattiva e la carica simbolica che ne derivano e per disporre di un linguaggio e di criteri con cui assumere decisioni all’interno e dialogare con l’esterno. Cosa intenda per quei convincimenti, in tema di giustizia, diritti e doveri, cultura, lavoro, beni pubblici e governo dell’economia, mi arrischio a renderlo esplicito nell’esercizio di scrittura dell’Addendum. Su queste basi, il partito potrà mobilitare e produrre conoscenze sulle azioni pubbliche che sono necessarie per soddisfare i bisogni e le aspirazioni di noi cittadini, costruendo uno spazio avvincente di confronto pubblico informato, acceso e ragionevole. Che sia interessante per, e aperto al contributo di, individui e associazioni genuinamente e testardamente indipendenti. E che risponda così a una domanda di impegno per obiettivi collettivi che non trova oggi adeguata soddisfazione.
Il partito nuovo sarà rigorosamente separato dallo Stato, sia in termini finanziari, riducendo ancora il finanziamento pubblico e soprattutto cambiandone e rendendone trasparente metodo di raccolta e impiego, sia prevedendo l’assoluta separazione fra funzionari e quadri del partito ed eletti o nominati in organi di governo, sia organizzandosi in modo da attrarre il contributo di lavoro (volontario o remunerato) di persone di buona volontà per periodi limitati di tempo, sia stabilendo regole severe per scongiurare ogni influenza del partito sulle nomine di qualsivoglia pubblico ente. Sono queste le condizioni affinché il partito sia di effettivo sprone per lo Stato, chiunque lo governi, e affinché iscritti e simpatizzanti nonché dirigenti locali da quelli scelti, abbiano l’incentivo a impegnarsi nella mobilitazione cognitiva e tornino a essere determinanti per la selezione della dirigenza nazionale.
In questo partito i sentimenti dell’egoismo e dello spirito pubblico, da una parte, e dell’indipendenza e dell’imitazione dall’altra, trovano modo di manifestarsi come sprone all’impegno cognitivo, soprattutto per i giovani. Nel modo stesso di operare del partito nuovo e nello sperimentalismo che esso sollecita nella macchina pubblica trova progressivo superamento lo scarto tra democrazia e tecnocrazia, tra principio di competenza e principio di maggioranza.
Affinché l’ipotesi di partito nuovo preliminarmente abbozzata in queste pagine divenga un programma politico è indispensabile disegnare regole, incentivi, sanzioni, schemi organizzativi adatti alla forma descritta. Ed è necessario costruire un percorso, graduale o brusco, con cui raggiungere l’assetto desiderato, muovendo dai partiti di sinistra che esistono, segnatamente dal Partito democratico, dalle sperimentazioni importanti che essi hanno realizzato, dal capitale di impegno, passione e intelligenza che hanno raccolto e dispiegato, dai circoli e unità territoriali in cui sono articolati. Se questa mia memoria solleverà l’interesse che mi auguro e se i contributi e le critiche che verranno daranno forma a una compiuta e condivisa ipotesi di partito nuovo, questi due decisivi passi potranno essere compiuti.
Sei passi verso il buon governo Definirò qui il buon governo come un sistema di decisioni pubbliche per il quale le argomentazioni a favore superino quelle contrarie, essendo soddisfatti i requisiti della riflessione pubblica e le condizioni di imparzialità2. Sia questa o altra la definizione adottata, non vi sono dubbi che l’Italia da tempo non ha un buon governo.
Ne sono manifestazione e prova:
• La profonda crisi socio-economica e prima ancora culturale, che segna il paese da più di venti anni, ben prima della crisi internazionale.
• Il senso di incertezza e “spavento” che, con brevi interruzioni, accompagna tale crisi sin dal giorno delle drastiche decisioni del luglio 1992, adottate per contrastare forti segni di sfiducia nella sostenibilità del debito pubblico.
• Il susseguirsi ininterrotto, talora frenetico, negli ultimi venticinque anni, con governi assai diversi, di riforme dei mercati (del lavoro, dei capitali e dei servizi) e della Pubblica Amministrazione, in larga misura inefficaci, sia in termini di produttività e inclusione sociale, sia in termini di spirito del paese, stante l’assenza di una visione condivisa sul fine e sulla natura di queste riforme, la sistematica disattenzione alle soluzioni già di fatto praticate nei territori del paese, la tendenza a mettere assieme mattoni istituzionali copiati da diversi altri modelli nazionali3.
• Il susseguirsi di comportamenti abusivi del ruolo pubblico, di gravità, diffusione, arroganza e senso di impunità assolutamente non comparabili con le vicende passate del paese o con altri paesi.
• La grande difficoltà del governo di impegno nazionale costituito nel novembre 2011, che pure ha sottratto il paese all’emergenza finanziaria, a disegnare e attuare provvedimenti che aprissero una prospettiva di sviluppo, soprattutto per la carenza di dialogo con la società, essendo rarefatta l’intermediazione dei partiti.
Sul piano politico l’assenza di buon governo si è manifestata nelle elezioni del febbraio 2013 in un paradosso, una deriva e uno strappo. Il paradosso, per cui una formazione politica identificata con un leader salvifico sotto la cui guida il paese era giunto a quell’emergenza, pur perdendo milioni di voti, conserva un consenso assai significativo nel paese. La deriva, per cui, con una sola rilevante eccezione, tutti i partiti sono stati a trazione personalistica, un evidente vulnus sul funzionamento democratico interno e del paese. Lo strappo, segnato dal successo di un movimento-partito che raccoglie consensi da segmenti assai diversi della società4 uniti nella profonda sfiducia e nel risentimento verso l’intera élite politica, ma anche nella domanda di un modo trasparente e verificabile di assumere decisioni pubbliche.
Il bandolo della matassa sta nei partiti La mia tesi è che il bandolo della matassa sta proprio nei partiti. Nel senso che solo una nuova forma partito – radicalmente lontana dall’attuale perversa fratellanza con lo Stato ed emendata dal mito della democrazia istantanea della rete – può dare corpo alla costruzione di pubbliche decisioni che assicurino a noi italiani un buon governo, sfidando in maniera continua lo Stato in un processo costituzionalmente garantito dove si confrontino saperi e producano innovazioni.
Per sostenere questa tesi compio sei distinti passi:
• Individuo nella perversa fratellanza tra una macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale e partiti Stato-centrici l’aggravante peculiare della crisi italiana.
• Richiamate le criticità dello “Stato socialdemocratico” e le aberrazioni dello “Stato minimo”, delineo il metodo di governo della cosa pubblica con il quale, in tutto il mondo, si vanno trovando approssimazioni superiori al buon governo: il metodo della democrazia deliberativa o più precisamente dello “sperimentalismo democratico”.
• Argomento che questo metodo non si può affermare, specie nelle nostre peculiari condizioni, senza la sintesi politica e la propulsione di partiti.
• Descrivo, con riferimento a un partito di sinistra – quello che corrisponde ai miei convincimenti – i tratti che il partito nuovo dovrebbe avere per assolvere questa funzione.
• Mi soffermo sulle motivazioni e sugli incentivi che possono indurre all’impegno nel partito nuovo.
• Pongo a chi avvertisse sintonia con il mio ragionare interrogativi sulle sue regole e sulla sua organizzazione che è necessario sciogliere affinché il partito nuovo si abbia davvero.
Stato arcaico e partiti Stato-centrici Il mancato buon governo, a livello nazionale e locale, può essere ricondotto a due cause, connesse e sinergiche:
a. Una macchina dello Stato arcaica e autoreferenziale, caratterizzata da “primitivismo organizzativo, rudimentalità delle procedure, insufficienze del personale, scarso ricorso a tecnologie informatiche, arcaicità del disegno complessivo, suo anacronismo rispetto agli altri governi moderni”5. La macchina dello Stato, la Pubblica Amministrazione, è in generale attardata nel modello autoritario di governo della cosa pubblica; pretende, con arroganza cognitiva, di predefinire in modo completo le regole del gioco; è affetta da smania normativa; trascura sistematicamente l’attuazione, mancando di “ingegnerizzare” i processi realizzativi; pretende dai cittadini il rispetto delle scadenze mentre non le rispetta essa stessa; ignora la valutazione degli esiti; non facilita o rifiuta, a livello nazionale, il confronto aperto con le soluzioni alternative che vengono dalle esperienze territoriali. La macchina dello Stato è dunque complessivamente estranea agli strumenti della democrazia deliberativa, che si vanno affinando nel mondo contemporaneo. A tenerla in queste condizioni sono la coazione a ripetere e l’intenzionalità di un’élite estrattiva, che deriva benefici (non necessariamente monetari) dalla conservazione dello stato attuale delle cose. Certo, esistono eccezioni, significative, che ben conosco6; ma sono frenate, talora soffocate, dal resto del corpaccione della macchina pubblica; sono percepite dai cittadini nei luoghi dove riescono a farsi sentire, ma sono sostanzialmente ignorate dai partiti. Insomma non fanno massa critica. Non sono sufficienti ad attivare il cambiamento.
b. Partiti Stato-centrici che anziché trarre legittimazione e risorse finanziarie dai propri iscritti nel territorio le traggono dal rapporto con lo Stato, “attraverso un generoso finanziamento pubblico, la colonizzazione dell’amministrazione, il patronage e il clientelismo”7. Dove gruppi parlamentari e dirigenza centrale del partito sono largamente coincidenti. Dove il vertice (il “leader”) si rivolge direttamente a iscritti o cittadini senza cercare un confronto, se non formale o minimo, con i gruppi dirigenti locali. Dove si sono rarefatte o mancano l’attitudine, la conoscenza e la capacità di elaborare gli orientamenti e gli indirizzi generali delle politiche pubbliche; ovvero tale elaborazione viene ricercata in “associazioni” che singole componenti del gruppo dirigente costituiscono al di fuori del partito, ulteriormente impoverendolo. Dove, in nome di un comodo relativismo etico, risultano assenti meccanismi sistematici di prevenzione di comportamenti abusivi, quando non arrivano a manifestarsi fenomeni di contiguità con la criminalità. Dove l’enunciazione stanca di principi generali si accompagna a un diffuso giudizio cinico sulla natura umana - schiacciata sulla (pur rilevante, ma ben sappiamo non solitaria) dimensione egoistica - e sulla presunta “natura italica”8 che ci inchioderebbe al cattivo governo.
La forma di partito Stato–centrica ora richiamata non è una peculiarità dell’Italia, rappresentando l’esito diffuso della crisi del partito di massa. Nato per fornire ai propri membri identità sociale e politica, conferendo forma simbolica e organizzata ai bisogni e ai desideri relativamente omogenei di masse di cittadini, il partito di massa è in crisi – come ben noto – per un coacervo di motivi, fra loro legati: la stessa trasformazione dei partiti di massa in partiti di governo; la radicale modificazione dei mezzi e delle forme di comunicazione; la maggiore articolazione e frammentazione sociale e la connessa diversificazione dei bisogni; l’accresciuta enfasi sull’“io”; la maggiore volatilità e imprevedibilità della “domanda politica”9.
Ha concorso in modo rilevante anche il trasferimento di potere dai livelli statuali nazionali al livello globale senza che vi corrispondessero forme associative sovranazionali fra cittadini10. In questa crisi, si è prodotta una peculiare esclusione del lavoro, in particolare di quello operaio – e quindi della centralità del ”manifatturiero” – dalla centralità della rappresentanza politica, anche nei partiti di sinistra. Questa rappresentanza è divenuta appannaggio prevalente dei nuovi ceti medi urbani, pur faticando i partiti a raccoglierne la spinta creativa e piuttosto accomodandone gli interessi particolari.
Questo è più o meno vero in giro per l’intero mondo. Ma in Italia la crisi del partito di massa ha assunto forme estreme, e la deriva verso il partito Stato-centrico è particolarmente grave. Il peculiare tracollo dei partiti storici a inizio anni ’90 ha trovato nella fragilità e arretratezza della macchina pubblica italiana le basi per una fratellanza siamese che non ha paragoni altrove. Si è prodotto qui quello scivolamento verso le forme degenerative appena descritte: una predominanza dei “leader”, portatori di una narrazione in cui iscritti ed elettori si riconoscono, fino a forme estreme di partito-proprietà; una professionalizzazione della struttura di supporto del leader, organizzata in “staff”, al di fuori di una legittimazione democratica da parte del partito stesso; la perdita di peso degli iscritti e dei loro organi, e la dominanza degli eletti sulla dirigenza del partito.
Regole e misura del finanziamento pubblico e cultura politologica egemone hanno sancito la deriva. La copiosità del finanziamento pubblico dei partiti, mirando a liberare i partiti stessi dal condizionamento dei “fondi neri” provenienti dalla degenerata conduzione dei grandi enti pubblici nazionali o locali, li ha in realtà legati stabilmente allo Stato, sancendo e accrescendo la loro non-dipendenza dal contributo degli iscritti, il cui controllo sul partito si è così viepiù ridotto. Ad aggravare le cose sta il fatto che questi finanziamenti essendo commisurati agli esiti elettorali, sono anche formalmente connessi agli eletti. Ciò consolida il “controllo” dei gruppi parlamentari, attraverso filiere di comando che da singoli “capi-cordata” nei gruppi scendono lungo il partito stesso e sono alimentate dai flussi di risorse disponibili. Questa relazione perversa è stata facilitata da un ordinamento che rafforza l’indipendenza dei gruppi parlamentari - ossia degli eletti - dagli organi direttivi dei partiti11.
La legge elettorale vigente ulteriormente suggella questo stato di cose, creando a sua volta una filiera gerarchica perversa che vede i “capi-cordata” concordare con il leader del partito i singoli eletti da presentare in un pacchetto chiuso agli elettori. La selezione dei candidati via primarie ridà un ruolo a iscritti e simpatizzanti e può produrre buone sorprese – come del resto può fare anche la qualità del leader nel selezionare il “pacchetto di mischia” – ma non risolve in alcun modo il problema in termini dinamici: una volta eletti, qualunque sia il modo in cui essi sono arrivati in quella posizione, il loro rapporto con il partito avrà fondamenta improprie.
Il secondo fattore di amplificazione della deriva va cercato nell’ortodossia della riforma del sistema politico italiano, divisa nelle soluzioni ma coesa dai primi anni ’90 in una convinzione: poiché i partiti funzionavano particolarmente male bisognava liberarsene.
Quando si è predicato il bipolarismo, mutuando impropriamente dall’economia che la concorrenza migliora l’efficienza, si è attribuito all’alternanza la dote taumaturgica di curare i partiti, mettendo da parte i temi della loro organizzazione e democrazia interna e arrivando a tollerare la deriva leader-clan anche in forme estreme e degenerate. Quando, dal lato opposto, si è preso di mira, specie con riguardo all’ex-PCI, l’organizzazione in “gruppo dirigente”, diluendo gli organi di governo interno, creando pletoriche assemblee, moltiplicando gli incarichi, si è favorito il modello di partito debole e inevitabilmente Stato-centrico, perché bisognoso di appoggiarsi allo Stato, di trarne legittimazione e ahimè denari. Quanto al ricorso a “primarie” per la elezione del leader del partito o del candidato premier12, esso assicura condizioni minime di “democrazia elettiva” rispetto a ogni forma di auto-proclamazione, ma non tocca in sé la deriva descritta. Al contrario, se non sono accompagnate da una radicale separazione fra partito e Stato e dalla ricostruzione di un rapporto continuo, teso, denso di contenuti pratici e di visione, fra un ristretto gruppo dirigente nazionale e gruppi dirigenti locali e iscritti, le “primarie del popolo” tendono a dare legittimità al cesarismo13, appagando a poco prezzo la domanda di democrazia dei cittadini, e accentuano il tratto personalistico dei partiti.
Lezione dall’esperienza La lontananza dei partiti dalla società, la loro estrema debolezza nell’interpretare bisogni e soprattutto nel portare le ipotesi elaborate o le soluzioni praticate nei diversi luoghi del paese, la loro incapacità di incalzare lo Stato con forza e intelligenza ma anche di dargli fiducia e di verificarne gli impegni, l’ho personalmente avvertita con nitidezza nei mesi di governo come Ministro per la coesione territoriale.
L’ho avvertita quasi ogni volta che, impiegando uno di quei significativi (ma talora nascosti o isolati) pezzi della macchina dello Stato che si sottraggono all’arcaismo dominante, ho affrontato criticità dell’azione pubblica o trappole del sottosviluppo nel confronto con chi pensa, domanda, analizza, propone e opera nei territori.
L’ho vista nella solitudine di sindaci chiamati a fidarsi di un Ministro della Repubblica che invitava a cambiare metodo, non potendo essi contare su una rete di partito entro cui verificare i propri dubbi (“sarà la solita favola?”), dare robustezza alla propria “voce”14, trovare la forza di manifestare le proprie soluzioni. Nell’esitazione di altri sindaci o di élite economiche locali a giocare una partita più alta che, richiedendo la rinuncia al “poco, subito e certo” in favore del “molto, dopo e incerto”, li esponeva a elevati rischi, rischi che non potevano valutare e condividere in un confronto pubblico aperto promosso da un partito. Nella frustrazione di attori locali competenti che incontrando un centro (nazionale o regionale) arrogante e sordo alle loro soluzioni, non trovavano nel partito lo strumento per segnalare questa situazione e cambiarla in modo collettivo ed erano quindi sospinti ad affrontarla ricercando “relazioni particolari”, ossia la produzione di “beni particolari” anziché di “beni collettivi”.
L’ho percepita, ancora, nella rinuncia di militanti di associazioni del terzo settore, impegnati nella ricerca e nella pratica di soluzioni innovative, a travasare e confrontare le proprie esperienze in una rete aperta, che superi la loro parziale e circoscritta identità e nella frequente tendenza degli stessi a tenersi lontano dalla politica in quanto tale, salvo assumere una posizione meramente richiedente. Nella regressione di altri soggetti verso la chiusura identitaria e localistica, per l’impossibilità di apertura all’esterno che solo un partito può pienamente dare, se non è sommatoria di interessi particolari. Nelle opportunità perse solo perché idee promettenti ma parziali e unilaterali non avevano l’opportunità di confrontarsi in modo adeguato con i punti di vista di soggetti portatori di interessi, valori e competenze diversi, all’interno di uno stesso partito: insegnanti con studenti e genitori, operai di una fabbrica inquinante con cittadini inquinati, abitanti di un’area attraversata dalla ferrovia con gli utenti del treno, e così via. Nella mancanza di quel dialogo fra destinatari diversi dell’azione pubblica che i partiti possono promuovere e gestire.
Mi è apparsa evidente, infine, nella scarsa attitudine dei partiti – con circoscritte eccezioni – a confrontarsi sui metodi innovativi su “come spendere i soldi pubblici” che con la mia squadra e rete abbiamo messo sul tavolo. E nell’impiego limitato da parte dei media, e pressoché nullo da parte dei partiti, dei dati forniti con modalità “aperte” sullo stato di attuazione o sull’efficacia di interventi pubblici, leva potenzialmente dirompente per stanare e incalzare una macchina pubblica arcaica.
L’equilibrio perverso È dunque evidente che in Italia partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica ed élites che li governano vanno d’accordo, sostenendosi reciprocamente e producendo un equilibrio perverso, di sottosviluppo: una “fratellanza siamese … che porta al catoblepismo”15.
Con partiti Stato-centrici associati a uno Stato arcaico, il perseguimento di beni particolari, anziché del bene pubblico, tende a diventare prevalente, anche come motivazione per iscriversi ai partiti o per rapportarsi ad essi. Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica hanno così riportato alla luce in modo eclatante quel “sottofondo di perplessità, di diffidenza, di ostilità e financo di radicale opposizione” ai partiti che nasce assieme all’affermazione stessa dei partiti con le rivoluzioni borghesi16. È il timore per la prevalenza nei partiti degli interessi “di parte”, o particolari, che inevitabilmente si affiancano alla ricerca di interessi generali.
Si tratta, certo, di un timore “peloso” sul piano concettuale, visto che tutte le tradizioni “culturali dell’opposizione al partito in sé … hanno il loro nemico nel pluralismo”17. Identificandolo con la sommatoria di interessi particolari, esse finiscono per perseguire soluzioni moniste, assolutamente incoerenti con una libertà sostanziale degli individui, oltre che con la complessità della realtà. Ma ciò non toglie che per milioni di cittadini si tratti di un timore assolutamente ragionevole e fondato su una molteplicità di comportamenti abusivi del ruolo pubblico, di gravità, diffusione, arroganza e senso di impunità tali da creare un solco incolmabile fra loro (noi) e i “politici”. Un timore che spiega il livello “fuori soglia di sicurezza democratica” che ha raggiunto la sfiducia nei partiti e il “rancore di massa nei confronti della classe politica”. Il fatto che molti di questi stessi cittadini stabiliscano con i “politici” rapporti collusivi volti a catturare favori, nulla cambia; anzi accentua, nella mortificazione, il rancore e il risentimento verso di essi. Sta in questo risentimento, nella percezione, assai spesso fondata, che i “politici” e l’élite amministrativa a essi connessa non paghino in alcun modo i costi della gravissima crisi in atto, il fondamento di molte richieste di riduzione dei “costi della politica”, più che nel loro effetto sui conti pubblici o sull’efficienza ed efficacia dell’amministrazione.
Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica, gettando sabbia nei meccanismi normali di rinnovamento delle classi dirigenti, fomentano un insensato conflitto generazionale. Costruendo barriere all’entrata che privilegiano l’anzianità, partiti e macchina dello Stato non costruiscono gli indispensabili percorsi di trasferimento di conoscenze, funzioni e poteri attraverso le generazioni, né occasioni e riti responsabilizzanti. Così ragazzi e giovani non vengono indotti a crescere19, completare gli studi e transitare verso il lavoro, assumere responsabilità, prendere parte ai processi decisionali. Vengono inibiti sia il ricambio che la proficua ordinaria co-costruzione del lavoro tra generazioni. Le nuove generazioni – che in un contesto normale rimpiazzerebbero gradualmente le élite attraverso ragionevoli processi di accompagnamento, come vediamo avvenire in molti altri paesi – sono così spinte a emigrare o a sfidare le élite esistenti in termini di contrapposizione manichea fondata sulla data di nascita e non su competenza e capacità.
Il combinato di Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica tende a impedire politiche pubbliche efficaci e dunque buon governo, bloccando tutte le fasi del processo ricorsivo di costruzione dell’azione pubblica. La carenza di partiti con carattere e missione propri rende inadeguata e assolutamente opaca sia la fase iniziale di determinazione degli indirizzi delle politiche pubbliche, che dovrebbe fondarsi su una visione e su esperienze condivise attraverso un profondo, aperto e acceso confronto pubblico, sia la fase successiva del loro continuo adeguamento innovativo, che richiede la pressione e la voce robusta e ben indirizzata dei cittadini. La carenza della macchina statale ne sabota le altre tre fasi: la definizione delle azioni con cui attuare gli indirizzi; la loro attuazione concreta nei diversi luoghi del territorio; l’esame dei risultati ottenuti, propedeutico all’adeguamento delle azioni e alla eventuale maturazione di nuovi indirizzi20.
Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica sabotano la circolazione di idee e l’interferenza cognitiva fra centro nazionale e livelli locali. Da un lato, infatti, creano una barriera alla circolazione e al confronto pubblico delle soluzioni prospettate e sperimentate nei territori, impedendo a queste di concorrere a formare le preferenze e le scelte nazionali.
Dall’altro, tolgono al centro la cultura, gli strumenti e l’autorevolezza per intervenire nelle situazioni dove lo sviluppo e le possibilità di partecipazione effettiva sono ora bloccati, esercitando una funzione decisiva di riparazione, promozione e indirizzo nazionale. Piuttosto, partiti e Stato tendono ad agire nei territori spesso semplicemente per conservare gli assetti dati, vuoi con decisioni autoritarie, disattente alle specificità delle persone e dei contesti, vuoi con complice lassismo.
Questo stesso meccanismo oltre che a livello nazionale tende a riprodursi a livello delle singole Regioni, con diversità che andrebbero analizzate, e persino al livello comunale, in particolare delle grandi città.
L’inevitabile effetto: il cattivo governo Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica spiegano tutte le manifestazioni di cattivo governo da cui ho preso le mosse.
In primo luogo, i partiti, privi di un confronto pubblico (acceso e aperto) sui contenuti e sul metodo dell’azione pubblica, non possono costruire una visione condivisa del futuro del paese né fornire ai governi le conoscenze indispensabili affinché le loro decisioni siano fondate sull’esperienza compiuta da chi vive ed opera nei territori del paese. Ne deriva il varo di riforme incomprese dai cittadini e dunque inattuabili, uno dei tratti distintivi dell’ultimo venticinquennio.
Al tempo stesso, la disintermediazione di larga parte della società dal processo decisionale del vertice del partito, l’indebolirsi del radicamento territoriale e del dialogo con i cittadini sulla sostanza delle cose da fare, il ricorso ai nuovi mezzi di comunicazione come strumento sostitutivo (anziché integrativo e rafforzativo) del momento di confronto fisico nel territorio, sono tutti fattori che operano nel senso di privilegiare nella battaglia politica nazionale gli “uomini del destino”, di favorire le liste personali rispetto ai partiti, di mettere al centro la capacità di annunciare, distrarre o illudere, anziché di costruire soluzioni innovative che mobilitino le conoscenze diffuse. Manifestazioni che spiegano il paradosso richiamato della non verificabilità e limitata punizione dei capi-popolo e che sono fonte dell’anti-pluralismo che alligna nella fustigazione dei partiti in quanto tali.
Quanto alle richiamate serie difficoltà del più recente “governo dei tecnici”, esse appaiono in larga misura inevitabili, ossia insite nel modello che l’emergenza ha dettato. Perché il “governo dei tecnici” non solo ha incontrato i limiti dei singoli partiti che lo sorreggevano, ma ha risentito fortemente della peculiare natura decisamente verticistica del compromesso fra quegli stessi partiti, che ne ha orientato la assai limitata capacità di “ascolto”, soprattutto delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale che la crisi ha gravemente accentuato.
La crisi economica, sociale e culturale e lo spavento che l’accompagna – le altre manifestazioni del cattivo governo – sono evidentemente il risultato ultimo, il più doloroso e grave di tutto ciò che precede.
Quale governo della cosa pubblica? Per avere un buon governo bisogna dunque rompere la fratellanza siamese fra Stato arcaico e partiti Stato-centrici, e bisogna cambiare l’uno e gli altri. Per capire come, e in particolare per capire se i partiti vadano trasformati o superati, è necessario partire dalla macchina delle politiche pubbliche e dal metodo di governare che vorremmo. Lo farò nel modo sommario che queste note richiedono e consentono.
La macchina delle politiche pubbliche del nostro paese - lo si è detto - è anacronistica in tutte le fasi del processo di costruzione dell’azione. Nel quindicennio postbellico, l’Italia costruisce una soluzione per la regolazione dei mercati e per la macchina pubblica che consente una straordinaria stagione di sviluppo. Ma si tratta di una soluzione “straordinaria” – per il compromesso politico che la sorreggeva e per la non sostenibilità degli strumenti impiegati – e dunque fragile21. Né allora né nelle molte successive stagioni abbiamo saputo costruire, né per la macchina pubblica, né per i mercati, una soluzione adeguata. In particolare mai abbiamo saputo realizzare una radicale ed efficace revisione della macchina pubblica uscita dal fascismo. Oggi, nel recuperare gli anni perduti non è certo ragionevole ripercorrere le strade che altri paesi hanno nel frattempo battuto e superato. Non perché esse non abbiano prodotto, soprattutto in Europa, risultati positivi, ma perché è bene trarre lezione dalla loro esperienza e costruire direttamente gli strumenti con cui il mondo contemporaneo si sta cimentando oggi.
Questi nuovi strumenti sono riassunti nell’espressione “democrazia deliberativa”22, che declinerò nella sua versione dello “sperimentalismo democratico” 23. Questo metodo mira a superare i gravi errori della “macchina pubblica minimalista” che ha dominato l’ultimo trentennio, portando alla crisi generale in cui ci troviamo, e le criticità della “macchina pubblica socialdemocratica” – estendendo con Tony Judt24 il termine europeo “socialdemocratico” anche agli Stati Uniti – affermatasi nel mondo industriale avanzato negli anni ’30 e accantonata bruscamente a fine anni ’7025.
Punti di forza e limiti delle soluzioni socialdemocratica e minimalista La soluzione “socialdemocratica” ha consentito, dove è stata compiutamente praticata, - non in Italia - straordinari risultati in termini di qualità di vita dei cittadini e del lavoro, promuovendo la libertà sostanziale, l’inclusione sociale dei cittadini, ossia la loro capacità di fare le cose alle quali assegnano valore nella vita, e la dignità del lavoro, e accompagnando dopo la seconda guerra mondiale una straordinaria stagione di crescita26. Ma questa soluzione ha mostrato anche crescenti criticità: difficoltà nel soddisfare con servizi standard (per salute, istruzione, cura di infanzia e anziani, manutenzione territoriale) le preferenze assai diverse dei cittadini, che lo stesso benessere andava ampliando; comportamenti adattivi dei cittadini assistiti, con effetti di erosione del loro impegno; deviazioni rilevanti dall’interesse generale nell’uso delle risorse pubbliche; effetti negativi sugli animal spirits degli imprenditori, connessi agli strumenti pubblici altamente discrezionali impiegati per assicurare loro l’afflusso di capitale dai risparmiatori (regolazione, anti-monopolio, tribunali interventisti, controllo diretto via proprietà, in misure e forme diverse a seconda dei “capitalismi”).
Il rilievo e l’impatto negativo sulla società e sull’economia di queste criticità è stato accresciuto da due fenomeni epocali: l’emergere, con il benessere e la pace, di una maggiore attenzione, da parte di milioni di cittadini (non solo di élite), alla propria individualità; la diffusione della conoscenza e l’accelerazione del suo cambiamento, in un contesto di istruzione di massa e di nuove tecnologie, specie dell’informazione. Il primo fenomeno ha reso inadeguate molte azioni pubbliche, favorendo negli anni ’60 una reazione “anti-paternalista” verso lo Stato socialdemocratico, soprattutto da parte dei giovani. Il secondo fenomeno, da un lato ha ridotto il vantaggio cognitivo dei centri di competenza pubblici, nazionali e internazionali, nel decidere “che fare”; dall’altro, ha favorito nuovi metodi per il controllo dell’azione pubblica.
La soluzione “minimalista”, o liberista, con cui si è data risposta alle criticità del modello precedente, ha promosso in tutti i campi, sul piano del metodo, nuove tecniche di misurazione dei risultati attesi dell’azione pubblica, ha sfruttato le nuove tecnologie dell’informazione per rendere pubblici e verificabili tali obiettivi e le informazioni raccolte e prodotte dalla macchina pubblica, ha dato vita a un confronto serrato sulla valutazione degli effetti dell’azione pubblica.
Ma nell’applicare queste tecniche la nuova soluzione ha commesso gravi errori.
La soluzione minimalista ha, in primo luogo, ritenuto che la personalizzazione dei servizi e le deviazioni dell’azione pubblica dagli interessi generali potessero essere risolte esternalizzando ai privati la produzione dei servizi e contrattualizzando i rapporti con essi sulla base di target e regole predefiniti: ne sono discese deviazioni ben più gravi di prima, con riflessi negativi profondi sulla qualità dei beni pubblici prodotti dallo Stato e sulla loro inclusività, e dunque sulla democrazia. In secondo luogo, la soluzione minimalista ha smantellato, nel mercato dei capitali e nella regolazione del delicato rapporto fra proprietà (azionisti e/o banche) e controllo (amministratori) delle imprese, gli strumenti discrezionali della fase precedente, e li ha sostituiti, anche qui, con meccanismi automatici e contrattuali (dalle stock option per gli amministratori ai derivati): ciò ha introdotto un tale grado di incontrollabilità degli amministratori e squilibri talmente profondi nelle modalità di approvvigionamento del capitale da parte delle imprese da creare le basi per ricorrenti crisi di fiducia finanziaria. Infine, attribuendo al mercato virtù di auto-riequilibrio, ha negato che fosse compito dello Stato contrastare il ciclo economico, demolendo sul piano culturale e normativo (regole rigide automatiche – di nuovo – di pareggio del bilancio) la capacità degli Stati nazionali di contrastare le crisi.
A questi esiti gravidi di conseguenze sociali ed economiche e fonte della crisi il minimalismo è giunto sulla base di due distinti miti, entrambi privi di fondamento. Il primo mito è che esistano “istituzioni e regole ottime”, indipendenti dai contesti, elaborabili da tecnici “al di sopra delle parti”, generalmente collocati in organismi sovra-nazionali, e che il problema dell’azione pubblica consista nell’applicare tali istituzioni e regole ai luoghi (tesi delle “istituzioni perfette”)27. Il secondo mito è che le grandi imprese multinazionali, per via della molteplicità di detentori di interessi e competenze con cui interagiscono (finanziatori, lavoratori, clienti, cittadini il cui contesto ambientale è influenzato dagli effetti delle produzioni, etc.), abbiano la capacità e l’incentivo per effettuare una sintesi delle conoscenze e degli interessi di tutti questi soggetti, finendo quindi per prendere decisioni di investimento e di localizzazione che sono nell’interesse generale: sarebbe dunque bene che l’azione pubblica seguisse l’indirizzo delle grandi imprese28. In entrambe le mitologie, sotto la parvenza di una posizione “liberale” che invoca mercato e Stato minimo, si staglia invece uno Stato massiccio e onnipotente che in un caso detiene il sapere per stabilire le regole “buone per tutti”, nell’altro scrive le norme e realizza gli investimenti chiesti dagli onniscienti e neutrali tecnocrati privati.
Il superamento di entrambe queste visioni, socialdemocratica e minimalista, che come ogni superamento incorpora contributi e lezioni di entrambe, si sta oggi manifestando con particolare forza nei paesi dove più intenso è stato l’impegno della macchina pubblica nelle fasi precedenti.
Tale superamento poggia sulla comprensione di un errore comune alle due visioni: ritenere che alcuni, pochi, soggetti possano avere la conoscenza per prendere le decisioni necessarie nel pubblico interesse.
Nella visione socialdemocratica, o meglio in molte sue applicazioni29, questa capacità è attribuita agli amministratori e tecnici pubblici: a quelli nazionali, raccolti attorno al governo e nei centri di competenza dello Stato nazionale; e a quelli che ogni Stato nazionale assegna agli organismi internazionali o “proto-federali” all’uopo costituiti, Ocse, Fmi, Banca Mondiale, Commissione Europea, etc.. Nella visione minimalista, questa capacità è primariamente attribuita a manager e tecnici, vuoi raccolti nelle tecnocrazie degli organismi internazionali oramai resesi autonome dagli Stati nazionali di provenienza, vuoi dei grandi megacorp privati: ai primi è attribuita la funzione di “scrivere regole”, di raccomandare ai singoli Stati i comportamenti appropriati, che essi si assume conoscano; ai secondi è attribuito il compito di indirizzare in ogni singolo paese le scelte della macchina pubblica, indicandole di cosa le grandi imprese hanno necessità per investire, espandersi, localizzarsi, intraprendere grandiosi progetti di sviluppo.
In realtà, la conoscenza necessaria per assumere decisioni pubbliche che siano davvero di interesse generale non è concentrata nelle mani di pochi. Questa conoscenza è dispersa fra una moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere: ne fanno certo parte i grandi imprenditori ma anche quelli non grandi; i tecnici degli organismi internazionali o proto-federali, ma anche quelli di migliaia di centri di competenza e ricerca; ne fanno parte i pubblici amministratori, ma anche i quadri dei corpi intermedi della società; ne fa parte il ceto medio urbano, ma anche i lavoratori dell’industria e dei servizi sociali. Muta quindi, questa conoscenza, al cambiare dei contesti a cui quelle decisioni pubbliche si applicano, ovvero il loro effetto dipende dai contesti. Ancora di più: la conoscenza necessaria spesso neppure esiste quando sorge un problema o un’opportunità; essa scaturisce piuttosto come “innovazione” dal confronto e dal conflitto fra molteplici soggetti che possiedono conoscenze parziali30. Questo stato di cose è particolarmente vero nel mondo attuale segnato dai due fenomeni epocali che ho richiamato, di ipertrofia dell’“io” e di diffusione delle conoscenze. Con un’incertezza elevata e pervasiva, una tecnologia rapidamente mutevole, preferenze assai idiosincratiche ai contesti, le soluzioni di ieri rappresentano una guida limitata per risolvere i problemi di oggi e nessuno possiede la conoscenza adeguata per anticipare i problemi e per disegnare soluzioni31.
La soluzione dello sperimentalismo democratico Nasce qui la visione alternativa: la macchina pubblica per prendere decisioni – si tratti di servizi per il ciclo dei rifiuti, per l’acqua o per la manutenzione del territorio, del sistema per punire e recuperare chi viola la legge, delle scelte per la mobilità, della tutela e promozione della cultura, delle regole del mercato del lavoro o dei capitali, dei modi di passare da una scuola trasmissiva a processi di apprendimento a scuola e fuori di tipo attivo, della costruzione di percorsi di inclusione sociale capaci di rendere protagonisti i destinatari – deve costruire un processo, che, convincendo i molteplici detentori di conoscenza e esperienza a partecipare, promuova il confronto fra le loro parziali conoscenze, consenta innovazione, e lo traduca in decisioni assunte secondo le regole di responsabilità costituzionalmente previste. A tale scopo è necessario muovere da quadri regolativi iniziali volutamente provvisori e prevedere la loro progressiva revisione attraverso un processo di analisi continua degli esiti nei rispettivi contesti, fondata su partecipazione attiva dei cittadini, verificabilità, monitoraggio e valutazione in itinere, presidio dei risultati e forte utilizzo della Rete per dare semplicità, apertura e tempestività a queste funzioni.
Questa macchina, che affonda le radici nelle parti più innovative della soluzione socialdemocratica32 e usa molti strumenti di quella minimalista, definiamo, con Sabel, “sperimentalismo democratico”.
È un metodo che assume forte rilievo in tutti i campi dell’azione pubblica. Anche in quello volto ad affrontare il decisivo problema dell’esclusione dal lavoro e della disoccupazione strutturale.
“Quando cambiamenti radicali nelle tecnologie o nel design mettono fuori gioco intere produzioni o professionalità operaie … l’assicurazione dalla disoccupazione non costituisce il ponte verso un altro lavoro. La risposta vera a questa situazione consiste nel consentire a individui e famiglie di auto-assicurarsi contro questi rischi acquisendo la capacità di trovare soluzioni”33. Le caratteristiche dei servizi e delle capacità da fornire vanno individuate, contesto per contesto, attraverso il metodo proprio dello sperimentalismo.
Il metodo di governo che si va costruendo gradualmente in giro per il mondo e che dovremmo porci come obiettivo di costruire (e al quale molti in Italia già oggi lavorano, spesso in solitudine) è dunque imperniato su istituzioni pragmatiche che consentano di prendere e modificare decisioni combinando un processo di mutuo apprendimento con il massimo possibile di impegno e sviluppo degli individui.
Per fare ciò è necessario in Italia un “passo del cavallo”. Da un lato, dobbiamo rovesciare i limiti che rendevano la nostra macchina pubblica arcaica anche per l’attuazione delle due precedenti visioni – ecco la peculiarità italiana – e raggiungere quindi: modernità organizzativa; affinamento delle procedure; adeguatezza del personale; forte ricorso alle tecnologie informatiche; chiara identificazione delle responsabilità; capacità di passaggio di consegne intergenerazionale. Al tempo stesso, dobbiamo costruire i requisiti propri dello sperimentalismo:
• legiferare e emanare atti di amministrazione che promuovano adattamento e revisioni nei contesti34;
• creare lo spazio per un confronto acceso e aperto, un conflitto governato, fra interessi, competenze e visioni diverse;
• utilizzare a tale scopo la Rete per realizzare “una cooperazione di maglia stretta con comunità interessate ai problemi che le burocrazie sono chiamate a gestire”35;
• utilizzare gli errori, i fallimenti, gli ostacoli (talora creati a mo’ di test) per ricavare informazione sull’efficacia delle routine usate e cambiare;
• includere nelle regole lo spazio per sottoporre le regole stesse a revisione;
• utilizzare nel processo l’armamentario di indicatori e strumenti valutativi promossi dalla visione minimalista, adattandone l’uso alla nuova visione; · reclutare o formare le risorse umane che sappiano svolgere queste nuove funzioni.
Sperimentalismo democratico vs. minimalismo: due versioni di “austerità” Il potere innovativo dello sperimentalismo democratico e la sua radicale differenza rispetto al minimalismo – pur nella condivisione di tecniche – appaiono evidenti in una situazione di grave crisi come quella attuale, in cui l’azione pubblica è chiamata allo stesso tempo a fronteggiare un peggioramento nelle condizioni di vita dei cittadini e nella fiducia delle imprese e a realizzare rigore nel governo delle pubbliche finanze.
L’austerità che questa situazione domanda può essere declinata in due modi radicalmente diversi. Come scriveva Enrico Berlinguer in un passaggio poi mancato della nostra storia repubblicana, l’austerità “può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia”36. Il minimalismo promuove la prima strada. Lo sperimentalismo la seconda.
È utile stilizzare, le differenze: · Il minimalismo persegue l’efficienza nella produzione di beni pubblici attraverso la definizione a livello nazionale e/o sovra-nazionale di soluzioni, regole e best practices e di meccanismi automatici di aggiustamento, nel convincimento che il “che fare” sia noto a ristrette classi dirigenti (fossero anche quelle dai cui errori la crisi origina). Lo sperimentalismo ricerca il modo più efficace e meno oneroso per produrre i beni pubblici confrontando in modo aperto e intensamente dibattuto le diverse soluzioni praticate o proposte, nel convincimento che la conoscenza sul “che fare” sia diffusa e da reinventare in ogni contesto.
• Il minimalismo utilizza lo spavento indotto dalla crisi (talora fomentandolo) per fare accettare provvedimenti assunti attraverso processi decisionali chiusi, ristretti ai “detentori di conoscenza”. Lo sperimentalismo trova nella trasparenza e apertura di tutte le informazioni e in atti di pubblica decisione assunti attraverso processi decisionali partecipati, la base per limitare lo spavento indotto dalla crisi.
• Il minimalismo persegue sempre e comunque il pareggio del bilancio, ignorando la particolarità delle spese di investimento e rinunciando a contrastare il ciclo, anzi autoimponendosi di non farlo attraverso regole costituzionali. Lo sperimentalismo pianifica la copertura in tempi sostenibili di ogni spesa corrente con entrate correnti e contrasta il ciclo, secondo una valutazione politica discrezionale, verificabile e sanzionabile.
• Il minimalismo giustifica e quando può sostiene, remunerazioni, stili di vita e altri benefici personali per gli amministratori pubblici e i politici quali strumenti indispensabili affinché i loro incarichi siano competitivi con quelli del comparto privato.
Lo sperimentalismo assume che il principale ritorno degli incarichi di amministratore pubblico e politico derivi dall’esercizio in sé della funzione di governo – capace di soddisfare entrambi i sentimenti dell’egoismo e dello spirito pubblico – e che le loro remunerazioni e stili di vita debbano sempre avere a riferimento quelli dei cittadini che essi rappresentano e con cui si confrontano.
Per innovare la macchina pubblica servono i partiti L’esperienza internazionale mostra che i passi verso lo sperimentalismo democratico, pur avvenendo in modo incrementale, non sono frutto di un processo evolutivo auto-sostenibile.
Queste innovazioni, quando partorite spontaneamente, “non danno di per sé vita a un processo politico democratico. Orientano il pensiero e l’immaginazione e stimolano ipotesi su nuove forme di intervento che richiedono dibattito e conflitto”37. Per fruttare e diffondersi richiedono un’arena politica in cui i cittadini coinvolti nel processo possano trovare la motivazione, la continuità e l’efficacia per impegnarsi. Un’accentuata procedura deliberativa ha bisogno di un aperto e regolato conflitto sociale: serve un partito, con un forte radicamento sociale, che promuova e dia esiti operativi e ragionevoli a questo conflitto e che sia capace di indicare le priorità e le grandi scelte in termini di uso del denaro pubblico.
Questa necessità è già evidente per paesi dove, sul terreno di una macchina pubblica fondamentalmente sana, lo sperimentalismo si va diffondendo a partire dalle esperienze sedimentate lungo le due fasi storiche precedenti. Lo è ancora di più in un caso, come quello italiano, dove la macchina dello Stato è arcaica ed è unita in fratellanza siamese a partiti Statocentrici.
L’arcaicità dello Stato rende necessario un forte cambiamento, di persone, di metodi, di linguaggio, di stili di comportamento, anche solo per mettersi nelle condizioni di “giocare”, cioè di avere le basi che altri paesi hanno già costruito. L’esistenza della fratellanza siamese e del catoblepismo ci dice che ogni tentativo di cambiamento troverà – come ha trovato finora di fronte ai tentativi compiuti – una forte resistenza nelle élite, che vedranno messo in discussione il proprio potere. È quindi indispensabile una forte spinta da parte dei cittadini, organizzati in formazioni robuste, capaci di esprimere competenza e soluzioni, pronte a reggere a impegni prolungati, segnati di arretramenti e avanzamenti complessi.
I partiti servono a dare slancio e costanza a queste necessità. E a porre la questione decisiva del cosa e come fare. Perché sono inalienabili le funzioni di determinare, favorire e diffondere riti partecipativi, capaci di parlare delle cose, di riunire sulle cose da fare, esaminando ogni volta possibilità, contesti, risorse, obiettivi in termini pragmatici, per dare prospettive credibili alle aspirazioni, alle speranze e per assolvere, in ciò, anche a una funzione educativa e di trasmissione di metodo e di slancio attraverso le generazioni.
Cambiare la macchina dello Stato nella direzione richiesta dallo sperimentalismo senza contemporaneamente cambiare i partiti appare dunque velleitario.
Anche quando si arriva a praticare il metodo sperimentale, per scelta politica di governo e potendo eccezionalmente ricorrere ad un’amministrazione pubblica centrale innovativa, l’impegno, la fiducia, il coraggio dei soggetti locali, privati e pubblici sono limitati dalla loro solitudine, dall’assenza di una rete entro cui trovare le risorse cognitive e fiduciarie per azzardare comportamenti nuovi, per “rischiare di avere fiducia”, come fu saggiamente detto in un’assemblea pubblica a L’Aquila (dove una pratica di governo a lungo diametralmente opposta allo sperimentalismo democratico ha logorato in modo accentuato il rapporto fra cittadini e Stato). È anche questa l’esperienza personale di cui ho prima detto.
Negli altri casi - la maggioranza - in cui l’amministrazione si presenta con la sua veste arcaica, i soggetti investiti dall’azione pubblica, privi della rete di un partito, non hanno forza, coesione e voce per reagire, per proporre un metodo (quello dello sperimentalismo) che pure è nella loro testa. Se reagiscono, lo fanno vuoi per dire dei “no”, vuoi per torcere l’azione pubblica nella direzione di interessi più ristretti, se non particolari.
Per testare la validità del mio assunto è utile porsi ancora tre domande. Se per avviare saldamente il cambiamento possa “bastare” l’affidare la guida del governo a genuini innovatori.
Se al cambiamento possano essere sufficienti altri corpi intermedi della società, anche senza i partiti. Se la Rete possa sostituire i partiti. Non basta constatare che sinora nessuno di questi tre fattori si è rivelato sufficiente. È utile ribadire perché.
Può il “buon governo” essere conseguito da una forte e innovativa guida del governo e del Parlamento che modifichi la macchina dello Stato? No, per tre ragioni. Perché non si vede come si possa avere tale forte e innovativa guida se non esiste alle spalle un partito che abbia una visione del futuro del paese e la connessa potenza di mobilitare conoscenze per disegnare il “che fare”. Perché anche ipotizzando che per qualche fortunata alchimia tale guida si materializzi e lavori per modificare la macchina dello Stato nel senso indicato, questo disegno non potrà andare in porto, per le dure resistenze e il modesto appoggio che esso incontrerà in assenza di un partito che ne pretenda la realizzazione. E infine per le ragioni che ricaviamo dall’esperienza dei paesi dove lo sperimentalismo democratico si va diffondendo, ossia che l’efficacia di questo metodo richiede – anche la mia già citata esperienza lo sottolinea – una rete 27 territoriale di cittadini permanentemente mobilitati con cui interloquire, che si sentano e siano esterni alla macchina pubblica.
Può la latitanza dei partiti essere compensata dall’azione dei corpi intermedi della società rappresentativi di interessi del lavoro, dell’impresa o dell’impegno civile? Certamente, questi corpi intermedi sono fondamentali per riequilibrare divari forti di potere contrattuale fra le diverse articolazioni della società, specie fra il lavoro e il capitale, e per immettere conoscenza nei processi decisionali. Certamente, questa azione può aiutare il cambiamento, quando i corpi intermedi non sono essi stessi parte, con le loro élite, dell’equilibrio perverso.
Certamente, va dato maggiore spazio ai movimenti e alle reti sociali che, con mezzi anche antagonisti, sono veicolo di nuovi bisogni e nuove idee. Ma, anche nella migliore delle ipotesi, nessuno di questi corpi può realizzare quella mobilitazione di cittadini ispirata da convincimenti profondi e al di sopra di ogni specifica identità (di genere, di religione, di classe, di origine, di gusto, di luogo, di rapporto con la natura) che sola consente la maturazione di soluzioni di interesse generale ai complessi problemi dell’azione pubblica. Non si danno per definizione, in questi corpi, quelle condizioni che consentono di maturare decisioni per un buon governo.
Può la Rete (il web, internet) sostituire i partiti?38 Anche in questo caso la risposta è negativa.
L’offerta di connessione universale e tempestiva della Rete, la sua capacità di accumulo, archiviazione e recupero delle informazioni, creano straordinarie possibilità di informazione, di mobilitazione, di controllo, degli elettori sugli eletti e in genere dei cittadini sulle azioni pubbliche, e consentono di smascherare la manipolazione delle informazioni da parte delle élite.
In particolare, la Rete offre una piattaforma per lo sperimentalismo, perché incentiva i cittadini a dare il proprio contributo: lo fa riducendone il costo, assicurandone la non manipolazione e offrendo la possibilità di verificare l’utilità del proprio contributo attraverso il numero di connessioni39.
Ma la Rete non può in alcun modo assicurare l’“approfondita disamina dei problemi”, la “fase necessariamente lenta, problematica, riflessiva della discussione”40, il confronto acceso e ragionevole che sono richiesti dalla complessità dei problemi stessi e dalla necessità di “inventare” soluzioni per l’azione pubblica che ancora non esistono. Solo supponendo che la conoscenza richiesta per assumere decisioni di buon governo sia assai limitata, solo negando il processo laborioso e sofferto di confronto fra conoscenze e interessi diversi che ogni azione pubblica “giusta” richiede, solo supponendo che le soluzioni siano già tutte pronte e non debbano viceversa essere costruite, caso per caso, si può pensare che il processo decisionale, e dunque l’input dei cittadini ai governanti, sia esaurito dalla Rete. Ma questo assunto è errato41, proprio come errato è l’assunto minimalista della concentrazione in poche teste di ciò che c’è da sapere. La Rete può allora dare ai partiti uno straordinario slancio nel giocare la partita dello sperimentalismo, consentendo e costringendo il processo deliberativo a essere aperto. Non può sostituirsi ai partiti.
Le “idee” – torna ad argomentare anche una parte del pensiero economico egemone42, dopo l’ubriacatura di un trentennio – sono strumento decisivo del cambiamento, perché determinano gli obiettivi che la classe dirigente decide di perseguire – il potere, il denaro, il giudizio storico – , la sua valutazione del contesto, l’arco delle strategie fra cui essa è convinta di poter scegliere.
Sono le idee, talora maturate endogenamente, talora portate anche in modo traumatico dall’ “esterno”, a poter rompere l’equilibrio perverso di élite estrattive, non solo rinnovandole ma anche facendo loro “cambiare la testa”; cioè convincendole a giocare una partita che è di interesse generale. La fucina di queste idee, che richiede luoghi fisici di confronto argomentativo e dialogo fra soggetti caratterizzati da diverse identità, sono i partiti. E non possono che essere i partiti. Il motore di queste idee, che richiede la forza di un’organizzazione capace di mobilitare i cittadini per pretendere determinate soluzioni, sono sempre i partiti.
Per poter dare un buon governo al paese, ossia per migliorare la qualità, la giustizia e l’efficacia delle sue decisioni, servono, in conclusione, corpi sociali intermedi che non siano specializzati nella tutela di uno solo degli interessi o valori in gioco, che abbiano una visione, che permettano un confronto pubblico acceso e aperto, che consentano flussi di idee (nelle due direzioni) tra centro e periferia, che alla fine portino queste idee all’attenzione delle persone che il metodo democratico fa eleggere o nominare negli organi costituzionali. Insomma, servono i partiti. Al plurale, perché molteplici ed escludenti sono i convincimenti generali – soprattutto lungo un’asse sinistra-destra – di cui partiti hanno bisogno per esercitare una carica simbolica che incentivi la partecipazione, per disporre di un linguaggio con cui realizzare il confronto, per avere un metro con cui dire i “si” e i “no” alle diverse ipotesi di azione pubblica.
Ma la forma partito che oggi usiamo non è quella giusta. Serve una nuova forma. Quale? 30 5. Quale partito? Il partito nuovo I tratti della nuova forma partito necessaria a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” sono suggeriti dalla lezione appresa sul campo e dalle considerazioni fin qui svolte.
Nel tratteggiare questa nuova forma partito cesso da questo momento di riferirmi a un “partito in genere” e prendo a riferirmi a un “partito di sinistra”, d’ora in poi “partito”. Per due ragioni.
Poiché è il partito al quale i miei convincimenti mi conducono a lavorare. E perché alcuni profili della forma partito che mi accingo a tratteggiare sono costitutivi degli stessi convincimenti che contraddistinguono un partito di sinistra. Scrivo “di sinistra”, come fino a fine anni ’80 si definivano sia alcuni partiti, sia alcune correnti del partito della Democrazia Cristiana, anziché usare altre circonlocuzioni, per sottrarmi all’ipocrisia di questi anni recenti, attenermi concretamente a come ci si divide nell’emiciclo delle assemblee elettive, ritrovare un più trasparente terreno di confronto con i partiti “di sinistra” – devo scrivere left? – del resto d’Europa e del mondo. E ancora perché è nel contenuto dei convincimenti dichiarati, non nella rinunzia alla parola “sinistra”, che si misura l’adesione del partito al pluralismo e ai diritti dell’individuo, che in una fase storica una parte della sinistra ha erroneamente considerato negoziabili.
Per il buon governo dell’Italia serve, dunque, un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato di chi ha altrove il proprio lavoro e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti parte rilevante del proprio finanziamento, torni, come nei partiti di massa del passato, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali dello Stato43, ma anche “sfidante dello Stato stesso”44 attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica.
Un partito che realizzi questo obiettivo sviluppando un tratto che nei partiti di massa tendeva a rimanere circoscritto alle “avanguardie”: realizzando una “mobilitazione cognitiva”45.
Un simile partito risponde alle caratteristiche e alla domanda della società contemporanea. Una società dove, al permanere di gravi divari sociali e di uno squilibrio di potere fra lavoro (e lavori) e capitale, si accompagnano livelli di istruzione medi assai più elevati del passato, una forte diversificazione degli interessi e delle identità, un’enfasi robusta degli individui sul proprio “io” – figlia degli anni ’60, prima delle distorsioni del “trentennio liberista” – il moltiplicarsi di soluzioni contestualizzate nella produzione di servizi pubblici un tempo uniformi, tecnologie che facilitano tale diversificazione e la diffusione tempestiva di conoscenze su di esse e sui loro esiti. Sono, le stesse trasformazioni che concorrono a spiegare la crisi del partito di massa, e che rendono invece praticabile il partito mobilitatore di conoscenze.
Ma procediamo con ordine, riassumendo subito tutti i tratti del partito nuovo. È un partito che poggia su alcuni convincimenti generali che ne contraddistinguono la natura “di sinistra” e su una visione dello stato delle cose e dell’“Italia ed Europa che vorremmo”, che continuamente aggiorna. Su queste basi il partito persegue, accanto all’obiettivo tradizionale, ancorché innovato, di selezionare classe dirigente per la partecipazione alle assemblee elettive e per l’attività esecutiva ai diversi livelli di governo, l’obiettivo nuovo di mobilitazione cognitiva.
Strumenti di questo obiettivo sono: la costruzione di un confronto pubblico informato, acceso e ragionevole fra iscritti e simpatizzanti; l’apertura ad “altri” di questo confronto; la perentoria separazione dallo Stato. Consideriamo in sequenza questi profili.
Convincimenti generali e visione di lungo periodo per l’Italia e l’Europa Una base di convincimenti generali condivisi è indispensabile. “Credere a qualcosa assieme ad altri” è la leva culturale simbolica che spinge a interagire con questi altri, crea uno spirito di coesione fra gli iscritti e con i simpatizzanti che motiva l’impegno per finalità collettive, di una parte del proprio tempo di vita e ispira rispetto all’esterno. Convincimenti generali condivisi sono necessari per disporre di un linguaggio con cui dialogare all’interno del partito e con gli altri partiti. Solo la loro condivisione consente infine di convenire sul peso da attribuire agli effetti attesi da soluzioni alternative a ogni dato problema e pervenire quindi a una decisione.
Siamo in una fase storica in cui fa fatica ad affermarsi una cultura forte e anzi spesso domina una cultura debole46. Ma, sempre nel rifiuto simultaneo del relativismo etico e dell’imposizione dogmatica di presunte verità valoriali monistiche, le condizioni per condividere alcuni convincimenti generali esistono. L’esercizio, pure incompleto, che (con azzardo persino superiore a quello di questo intero scritto) ho compiuto nell’Addendum dà un’idea di cosa intendo per convincimenti generali. Suggerisce, al di là dell’adesione o meno ai singoli contenuti, che si può trovare una maglia di proposizioni a un tempo esclusive (di altri sistemi di valori), anche attraverso l’enfasi su alcune parti del testo costituzionale, e sufficientemente larghe da includere un pluralismo di punti di vista e un metodo aperto al mondo e alla trasformabilità delle posizioni. Di queste proposizioni fa parte integrale la stessa logica dello sperimentalismo democratico che motiva la forma di partito della mobilitazione cognitiva: è questo un presidio che salvaguarda il nuovo partito dalla trappola di un’appartenenza identitaria fondata sulla fissità di convincimenti e linguaggi, oltre che su un leader a cui dovere fedeltà.
Allo stesso modo, il partito nuovo deve sviluppare e condividere una visione di medio-lungo periodo sullo stato della società, a livello globale, nazionale ed europeo, e sul ruolo dello Stato che tenga conto delle tendenze in atto nella tecnologia e nei comportamenti umani. E deve sviluppare e continuamente aggiornare, proprio sulla base degli esiti e delle idee che maturano nell’esercizio della mobilitazione cognitiva, una visione dell’Italia e dell’Europa che sarebbe auspicabile per i nostri pronipoti. L’aspirazione del partito di massa a un modello “superiore” di società (e forse anche di comportamento umano) viene sostituito dall’aspirazione a una società migliore di quella attuale che, sulla base dei convincimenti “di sinistra” che contraddistinguono il partito, il partito stesso elabora continuamente come propria stella polare. Nel realizzare questa elaborazione, il partito ricercherà un confronto con i partiti di sinistra del mondo ma, in particolare degli altri Stati membri dell’Unione Europea che miri a ricostruire una valutazione congiunta sul futuro della stessa Unione e sulle azioni da intraprendere a riguardo. Questa visione aiuterà anche a guidare il processo di mobilitazione cognitiva.
La mobilitazione cognitiva come superamento della tensione fra tecnocrazia e democrazia La mobilitazione cognitiva, realizzata sulla base dei convincimenti generali che caratterizzano la “cultura” del partito, si articola in due fasi. Consiste prima di tutto nel raccogliere, confrontare, selezionare, aggregare e talora produrre conoscenza sul “che fare” dell’azione di governo attraverso un confronto pubblico, informato, acceso, aperto e ragionevole, nei luoghi del territorio, fra iscritti, simpatizzanti e “altri” singoli o membri di associazioni, genuinamente indipendenti. Si tratta di quella ritualità rivolta al cosa e come fare prima richiamata. A questa azione si accompagna quella di trasferire questa conoscenza attraverso tutti i possibili strumenti della “voce”, a due distinti destinatari: gli amministratori locali, per sostenere e sollecitare il processo decisionale degli organi di governo del proprio territorio; la classe 33 dirigente che i partiti stessi hanno concorso a far eleggere o nominare negli organi dei livelli superiori di governo (regionale e nazionale). Questo secondo, più complesso trasferimento avrà luogo confrontandosi a ogni stadio con la conoscenza che viene da altri territori, oltre che dall’Europa e dal mondo. Entrambe le operazioni saranno guidate dai quadri del partito che, secondo il requisito della separazione fra partito e Stato, saranno assolutamente distinti dagli eletti e da governanti o amministratori.
Così, la mobilitazione cognitiva rappresenta il metodo nuovo per promuovere, stare al passo, riempire di contenuti gli strumenti dello sperimentalismo democratico e, al tempo stesso, di scegliere i quadri del partito non solo sulla base dell’adesione ma della capacità di andare per strada, incontrare, esprimere dubbi, proporre e vagliare soluzioni, prove di attività, iniziative costruttive nel vivo della società.
Non si tratta di trasformare il partito in un “pensatoio”, ma piuttosto in una “palestra”: un luogo attraente per tutti i cittadini, giovani e anziani, lavoratori e non, uomini e donne, convinti di avere idee da confrontare con altri, disposti anche a svolgere in modo volontario azioni di interesse pubblico, capaci di filtrare o produrre idee operative e portarle con forza sul tavolo di chi governa. Una palestra politica di mobilitazione cognitiva che assicuri la valutazione pubblica informata, accesa, aperta e ragionevole può pretendere, animare, accelerare lo sperimentalismo. Lo completa sul piano del telaio sociale, ne trae i suoi stessi quadri.
A ben guardare il partito della mobilitazione cognitiva rappresenta il superamento dello scarto fra democrazia e tecnocrazia47. Si tratta di una questione centrale, nata con il sorgere stesso della democrazia politica in Europa, rilevante fin dagli anni ’20-’30 dello scorso secolo: quella della tensione fra principio di maggioranza – il governo dei democraticamente eletti – e principio di competenza – il governo di chi sa. Tema ripreso di recente in Italia, sia in relazione al condizionamento dell’azione del governo nazionale da parte di organismi tecnocratici sovra-nazionali, sia in relazione alla formazione di un “governo tecnico”48.
La tensione sarebbe inevitabile se fosse vero che il “saper governare” è privilegio di pochi; che questi pochi “sanno” davvero quali soluzioni dare ai problemi dell’azione pubblica. Il buon governo dipenderebbe allora dalla possibilità di adottare le soluzioni disegnate da questi pochi competenti; soluzioni valide in tutti i luoghi e protette dalla nefasta influenza del confronto con masse di cittadini incompetenti e preoccupati solo del proprio interesse particolare. Così questo principio di competenza, necessario al buon governo, entrerebbe in tensione con il principio di rappresentanza. Si dovrebbe ricercare un punto di compromesso. Le cose non stanno assolutamente così, lo abbiamo già visto! Le trasformazioni richiamate hanno reso ancora più evidente che in passato che, indipendentemente da ogni giudizio di valore, la conoscenza sul che fare, sulle soluzioni disponibili, sulla loro rispondenza alle preferenze dei cittadini, sulla loro appropriatezza al contesto non è detenuta da pochi, ma è piuttosto dispersa fra una moltitudine di individui. E più spesso ancora, questa conoscenza non pre-esiste ma scaturisce ex-novo – innovazione imprevista – dall’interazione, ovvero dal conflitto, all’interno di questa moltitudine, purché gli individui confrontino le loro informazioni disperse e i loro diversi interessi in modo aperto e ragionevole e siano garantite, e da tutte le parti riconosciute, le forme del conflitto e del procedere della democrazia.
Se così stanno le cose, perseguire la concentrazione delle decisioni nelle mani di pochi non è solo in tensione con il principio di rappresentanza. È anche in tensione con il principio di competenza. È un errore e basta. È l’errore compiuto, come si è visto, durante l’ultimo trentennio affidandosi per decisioni di grande importanza a manager e tecnici privati o alle tecnocrazie degli organismi internazionali, nell’assunto che essi conoscessero le regole e le istituzioni che, in modo indipendente dai contesti, consentono di assicurare decisioni buone. La grave crisi economica in atto è anche, in larga misura, il risultato di questo errore. La strada da prendere parte allora dal riconoscere l’errore. Aderendo al paradigma dello sperimentalismo.
Urge allora riconoscere in un partito volto alla “mobilitazione cognitiva” anche un partito che lavora, con costanza, a ricomporre principio di maggioranza e principio di competenza, che colmi “lo scarto fra istanze partecipative e difetto di conoscenze e di informazioni su questioni di interesse pubblico”49. Serve un partito che lo faccia senza negare la complessità del sistema delle conoscenze necessarie ad assumere decisioni pubbliche, come chi ritiene la Rete un sostituto possibile dei partiti. E che, riconosca che solo la mobilitazione di tutte le conoscenze disponibili può affrontare realtà complesse in modo adeguato. In sintesi, la ricomposizione fra cittadini votanti e cittadini proponenti e partecipanti è l’unico vero ponte possibile fra principio di maggioranza e di competenza.
49 Pinelli, C. (2012), pp. 147-148.
35 Nel muoversi in questa direzione, un partito di mobilitazione cognitiva può cogliere la domanda forte di partecipazione e di “fare politica” che viene da tutti i cittadini, soprattutto dai giovani.
La domanda che viene da un mondo del lavoro spiazzato dall’evoluzione dei partiti dell’ultimo ventennio. La domanda di rappresentare e confrontare non solo bisogni, ma soprattutto conoscenza sulle azioni collettive necessarie per soddisfarli. La domanda di costruire “assieme” una visione del futuro. La domanda che oggi si manifesta in azioni private o nell’adesione ad associazioni volontarie di scopo, ma che è assai scarsamente attratta dai “partiti”. La domanda di apprendere insieme, anche fuori dai luoghi deputati e entro il confronto tra generazioni, esperienze, mestieri diversi e tra differenti modi e stili di apprendimento intorno alle cose da fare per il bene comune. La domanda sulla cui base un movimento come “5 stelle” ha costruito la propria offerta politica (pur nello schema angusto e di corto respiro del leaderismo e di tentazioni di segregazione comunitaria).
Obiettivo e strumenti del partito della mobilitazione cognitiva E utile articolare in dettaglio l’obiettivo della mobilitazione cognitiva e i suoi tre requisiti. Da essa deriva la descrizione di un partito segnato da quattro tratti:
a. Partito che mobilita, produce e pratica conoscenze sulle azioni pubbliche necessarie per soddisfare i bisogni e le aspirazioni dei cittadini. In una società contemporanea - che alla forte articolazione sociale e diversificazione dei bisogni e agli altri tratti prima richiamati aggiunge l’accentuata diversità dei contesti territoriali di un paese fortemente policentrico - il partito non è più il veicolo dei bisogni, della “domanda popolare”, di un gruppo di “simili”; è piuttosto il coagulo delle soluzioni immaginate o praticate nei territori per soddisfare i bisogni di un gruppo di “diversi”. Assume forte rilievo in questo partito, come motivo per iscriversi o frequentare o interloquire a livello territoriale con esso, la possibilità di confrontare le proprie conoscenze e valutazioni sulle politiche e azioni pubbliche locali, nazionali o internazionali, con quelle di cittadini “diversi” per identità e interessi che condividano alcuni convincimenti generali (iscritti e simpatizzanti) o anche solo il metodo del confronto (gli “altri”). La prima aspirazione sarà quella di influenzare gli altri e trarne conoscenza: azione produttiva di effetti per i propri interessi, ma anche un “valore in sé” che permette di testare le proprie conoscenze e idee su come disegnare l’azione pubblica, di apprendere o di concorrere con altri a costruire soluzioni. Connessa a questa sarà l’aspirazione a mettere in pratica soluzioni 36 immaginate, dedicandovi il proprio lavoro volontario. Sarà così possibile anche aspirare a costruire nella pratica quotidiana, assieme ad altri, la visione di una possibile società migliore. Nel processo di mobilitazione cognitiva, il trasferimento delle conoscenze non opera solo dal basso verso l’alto viaggia anche dall’alto verso il basso, con origine vuoi nella dirigenza nazionale, vuoi nella classe dirigente che, lavorando con l’Amministrazione negli organi costituzionali, elabora soluzioni. In questo secondo flusso, si avranno rispetto alla situazione attuale due radicali differenze. In primo luogo, il flusso dall’alto finirà spesso per misurarsi espressamente col flusso sistematico in senso opposto, cioè con le conoscenze che “vengono dal basso”: questo confronto può consentire alle scelte di cambiamento (normative e attuative) che sono compiute dagli organi di governo di essere “comprese” e di dare vita a quella visione condivisa che è mancata nell’ultimo ventennio. In secondo luogo, in questo scenario è espressamente compito della dirigenza nazionale del partito intervenire sistematicamente con le proprie conoscenze e idee nei nodi territoriali del partito dove il confronto langue o si manifestano deviazioni verso interessi particolari: è questo un requisito per convincere le élite territoriali dove più forte è la resistenza a “cambiare testa”.
b. Partito del confronto pubblico informato, acceso e ragionevole. Il confronto pubblico acceso è il mezzo con cui il partito, sfruttando le potenzialità della rete e poi portando in luoghi fisici territoriali, in circoli, l’approfondita disamina dei problemi e la discussione lenta, problematica e riflessiva, può creare nei cittadini (iscritti, simpatizzanti e altri) la fiducia e l’incentivo a investire una pur piccola parte del proprio tempo di vita nel dare, ricevere e creare conoscenza sul “che fare” e quando possibile metterla in pratica. È il solo strumento che, al di là delle motivazioni particolari che muovono i singoli partecipanti, può permettere di smontare giorno dopo giorno, col tempo, il “partito sommatoria o compromesso di interessi particolari” e fare progressivamente affermare – anche al di là delle finalità dei singoli – il “partito sintesi di beni pubblici”. Il partito agisce come luogo di apprendimento umano, dove si possono smontare e rimontare convinzioni, arricchire conoscenze, capire meglio il proprio tempo e partecipare a trasformazioni. Tali prospettive, col tempo, possono produrre una selezione favorevole, anziché avversa, nella frequentazione e nell’iscrizione al partito. E sono potenziali poderosi strumenti per produrre innovazione. Per avere questi effetti virtuosi, il 37 confronto deve essere50 informato, aperto alla diversità, alla contestazione e alla considerazione convinta dei punti di vista (anche assai) diversi dal proprio, volto alla ricerca di un “accordo” anche parziale. Proprio la procedura del confronto e il principio di ragionevolezza (la “capacità di difendere un’idea in una discussione pubblica strutturata in modo libero e aperto”) che deve animarlo rendono tale accordo possibile. Per queste ragioni, il confronto può trarre impulso dall’uso della Rete, può trovare nella Rete la base informativa, la possibilità di contribuire in modo non costoso e verificabile negli effetti, ma ha bisogno di focalizzarsi e di trovare poi i suoi ritmi lenti in luoghi fisici del territorio. Il confronto andrà governato da leader (locali, intermedi e nazionali) di qualità che condividano e sappiano praticare con competenza il metodo: si tratterà di volontari (nelle micro–unità territoriali) o di funzionari professionisti che il partito dovrà selezionare e formare. Come scrive Sen, il perseguimento di decisioni “giuste” – obiettivo dell’azione di governo – si esprime in una straordinaria “fame di informazione”. Un partito orientato al confronto pubblico acceso e così strutturato può costruire la base per soddisfare tale fame. Il metodo utilizzato all’interno del partito rappresenta una sfida agli altri partiti, costruiti sulla base di altri convincimenti, per adottare lo stesso metodo e la base per (ri)costruire il confronto fra partiti dentro le assemblee elettive e nel paese.
c. Partito aperto. L’esistenza di una base numerosa di iscritti (e di simpatizzanti) è indispensabile. Perché il confronto pubblico acceso, per avere luogo e convergere su un accordo, ha bisogno di poggiare su un nucleo di persone rese relativamente coese dalla condivisione di un nocciolo robusto di convincimenti, capaci di assicurare un linguaggio comune. Perché le risorse umane e il contributo finanziario sono necessari a un partito che si voglia emendare dalla dipendenza dallo Stato (come illustrato al punto successivo). Perché quella base serve per selezionare i quadri dirigenti dei livelli superiori del partito, che saranno responsabili per la fluidificazione delle conoscenze.
Affinché questi requisiti siano soddisfatti, è necessario che l’iscrizione sia legata a una genuina partecipazione e che sia effettivamente aperta sia a individui sia ad associazioni, evitando il prevalere di gruppi chiusi “controllori di tessere”, e adattando la modalità, gli orari, i formati del confronto alle esigenze dei diversi segmenti sociali, delle donne, degli operai, degli anziani. Nel partito nuovo è altrettanto indispensabile che al confronto pubblico con iscritti e simpatizzanti partecipino, di volta in volta, su singoli temi, anche i cittadini lontani dal partito ma interessati ai temi che esso dibatte, e in primo luogo i membri delle associazioni (di azione e di ricerca) genuinamente e testardamente indipendenti attraverso cui anche nel nostro paese “le sensibilità individuali si stanno convogliando in motivazioni collettive”51. Fine della partecipazione degli “altri” non è, a differenza del partito di massa, quella di allargare l’influenza del partito, costruendo un nuovo impossibile e deleterio “collateralismo”. Piuttosto, la partecipazione degli “altri” è la condizione per tenere vivo, allerta, il processo di apprendimento e di produzione di conoscenza, non solo come effetto del dialogo fra gruppi dirigenti di diversi partiti. L’effettiva interazione con “altri” facilita l’esercizio su cui insiste Sen di guardare le cose come “spettatori imparziali” o – come scriveva Adam Smith – da “un luogo che non c’è”. Consente di evitare la sindrome dei gruppi eccessivamente affini che, isolandosi da opinioni esterne, stimolano il conformismo e perdono motivazione per investigare e apprendere. Sfrutta invece gli incentivi della diversità52. Riduce ulteriormente il rischio della deriva del partito verso la tutela di interessi particolari, grazie alla trasparenza – non “segretezza” o “recinzione guidata” – del confronto. Permette ai singoli, in contesti territoriali dove vivono affiancate comunità assai diverse, anche a seguito di crescenti fenomeni migratori, di sfuggire alla trappola della “segregazione comunitaria”, allo schiacciamento della propria identità su una sola dimensione (religiosa, etnica, di età, etc.), e di fornire un apporto informativo al processo valutativo. La Rete è strumento decisivo per avviare, rendere fattibile, alimentare di nuovi apporti questa apertura, che troverà nell’incontro fisico la sua realizzazione.
d. Partito separato dallo Stato. Le precedenti caratteristiche del nuovo partito rendono indispensabile superare l’attuale dipendenza del partito dallo Stato, sia in termini finanziari, sia in termini di relazione fra i funzionari del partito, locali, regionali e nazionali, da un lato, e le persone che il partito stesso concorre a fare eleggere o nominare negli organi di governo, – locali, regionali e nazionali – o che vengono selezionate con criteri di merito (e non su proposta o pressione dei partiti) nell’amministrazione, nelle agenzie e autorità, negli enti di pubblica proprietà, dall’altro.
Queste due separazioni costituiscono la condizione indispensabile affinché il partito sia credibilmente dedicato alla raccolta, aggregazione, produzione e rivendicazione di soluzioni per governare, restando questo processo distinto dalle decisioni che verranno prese dalle suddette istituzioni. Per quanto riguarda le risorse finanziarie per l’attività del partito, queste dovranno venire in misura prevalente dal contributo volontario di iscritti e simpatizzanti, attivi nell’azione del partito, integrate in modo regolato e controllato da contribuzioni di altri soggetti. Il finanziamento pubblico, ulteriormente ridotto nel volume, dovrà essere rivisto nelle modalità di raccolta e impiego e accompagnato da forme adeguate di controllo interno e esterno, nonché da una normativa per il conflitto di interesse che riduca lo squilibrio competitivo fra le formazioni politiche. Per quanto riguarda i “funzionari di partito” – utilizzo senza ipocrisie questo termine alternandolo con “quadri” e “dirigenti” – essi sono indispensabili. Nel nuovo partito si tratta di persone che a un certo punto della vita e per un periodo di tempo tendenzialmente determinato, scelgono di portare dentro questo progetto di partito, l’esperienza che hanno sin lì maturato e le competenze sin lì accumulate; e che sono già formati, ovvero vengono formati nell’utilizzo dell’impegnativo metodo di confronto pubblico descritto ai punti 2 e 3. Diverse e competitive sono, nel disegno tratteggiato, le loro funzioni – disegnare una visione, maturare e promuovere soluzioni – rispetto a quelle di chi è impegnato a governare – raccogliere e vagliare esperienze e proposte, decidere e attuare soluzioni. Le soluzioni adottate dai secondi sono continuamente sottoposte al vaglio e alla critica del partito – anche quando eletti e governanti ne sono espressione. Diverse sono le responsabilità dei funzionari del partito – verso gli iscritti al partito – e di chi governa o siede nelle assemblee elettive – verso tutti i cittadini, di qualunque “parte”. Mai coincidenti, per statutaria incompatibilità, assoluta, sono i soggetti che svolgono l’una o l’altra funzione.
Come avviene ora, il partito evidentemente alimenterà dalle proprie file una parte anche significativa degli eletti o dei governanti, ma la separazione e tensione creativa fra partito e Stato, la dipendenza finanziaria del partito dai contributi degli iscritti e appropriati vincoli formali assicureranno una piena distinzione di ruoli. Si combina con questo tratto del nuovo partito il ripristino di un ruolo significativo della dirigenza locale nella selezione della dirigenza nazionale, ogni livello dovendo giudicare la capacità del livello superiore come promotore e veicolo di conoscenza e di soluzioni.
Da questa descrizione della funzione originale del partito nuovo risulta evidente che anche la funzione tradizionale di selezione dei candidati per le assemblee elettive e di candidatura 40 per le funzioni dei diversi livelli di governo risulta profondamente modificata. Per la separazione assoluta fra questi ruoli e quelli di funzionario di partito. Per l’ambizione di prevenire l’attuale perverso meccanismo che vede molti avvicinare i partiti con l’aspirazione di imboccare una “scala mobile” che dalla posizione di volontario porti a quella di funzionario e quindi di candidato a posizioni in qualche modo controllate dal partito. Per il venire meno dell’attuale condizionamento degli eletti sulla dirigenza del partito, sostituito da un rapporto dialettico.
La forma partito proposta prevede una dialettica effettiva, continua, dal momento successivo al voto, fra partito, da una parte, e propri gruppi parlamentari (o consiliari) ed eventuale proprio esecutivo, dall’altra. Il partito manterrà e rafforzerà la mobilitazione cognitiva concentrandola sui temi ritenuti prioritari e su quelli contenuti nelle decisioni assunte dagli organi di governo; solleciterà l’esecutivo, anche se di propria espressione, sul terreno delle soluzioni concrete che esso continuamente elabora; presidierà l’attuazione dei provvedimenti sui territori, animando questa fase decisiva del processo deliberativo; raccoglierà e aggregherà le conoscenze necessarie a aggiustare gli interventi; favorirà la maturazione di un’interpretazione condivisa sulle scelte compiute. Nello svolgere questa funzione, il partito scongiurerà quel divario profondo di fiducia e comunicazione che da oltre venti anni si è andato aprendo fra governo e società e che, come si è argomentato, ha impedito anche a tentativi generosi di tradursi in buon governo.
Motivazioni per impegnarsi nel partito nuovo e specificità dei giovani Prima di sollevare alcuni interrogativi in merito alle regole e all’organizzazione da adottare per raggiungere lo scopo prospettato, è utile soffermarsi ancora sulla capacità del partito nuovo di attrarre davvero partecipazione e di bilanciare la (inevitabile) ricerca di benefici particolari con la (necessaria) ricerca di benefici generali, del bene pubblico. E sullo specifico ruolo che il partito nuovo può avere per i giovani e sul ruolo che vi possono giocare.
Egoismo e spirito pubblico, indipendenza e imitazione nel partito nuovo Si è già detto che la natura aperta e accesa del confronto pubblico e il suo essere guidato da un principio di ragionevolezza verso soluzioni di “accordo” realizzano nel partito nuovo condizioni favorevoli a limitare la ricerca di benefici particolari e a perseguire un bene pubblico. Nella stessa direzione va la condivisione robusta di alcuni convincimenti generali e di una visione di medio-lungo termine. Ma non basta. È utile valutare l’interesse per il partito nuovo anche alla luce di due distinte coppie di “sentimenti” che, inducendo la partecipazione, possono essere combinati nel raggiungere lo scopo desiderato: la coppia egoismo-spirito pubblico e la coppia indipendenza-imitazione.
La prima coppia, egoismo-spirito pubblico, è ben nota. La componente egoistica, dell’amor proprio o della realizzazione del sé, tornata allo scoperto sul piano culturale e sociale negli anni ’60 e divenuta poi esclusiva nel trentennio liberista, può trovare appagamento nella nuova forma di partito–conoscenza come “incentivo a influenzare e apprendere”. Rispetto al partito Stato– centrico, si tratta, insomma, di cambiare il ritorno personale prevalente che dall’iscrizione o dal contatto col partito si va cercando: da reddito e potere attraverso il partito, a conoscenza per avere reddito e potere indipendentemente dal partito. È un passaggio importante perché, non negando il rilievo della componente egoistica, la “ammaestra”, riducendo l’aspettativa che il partito costituisca un’agenzia di collocamento53.
Quanto alla componente “smithiana”, quella dello spirito pubblico, – altrettanto naturale quanto l’egoismo, come stiamo tornando a capire in questo travagliato inizio di millennio – essa conta, sia perché induce a dedicare il proprio tempo al partito nel perseguimento di un bene pubblico, sia per l’istinto naturale a ragionare, discutere, dissentire e consentire54 che trova un luogo di appagamento nello spazio pubblico offerto dal nuovo partito. Si tratta dunque di lavorare anche su questa dimensione per attrarre la partecipazione attiva al partito.
Anche la seconda coppia di sentimenti, indipendenza-imitazione, può essere di aiuto per costruire lo spazio di confronto. L’indipendenza, spingendo a far valere le “proprie” soluzioni, tiene viva la diversità. L’imitazione, può favorire l’emergere dell’accordo. Assieme, se ben governate dai leader territoriali, l’una può evitare le degenerazioni dell’altra: l’indipendenza può evitare il conformismo indotto dall’imitazione; l’imitazione può evitare l’autoreferenzialità e la sordità indotte dall’indipendenza.
Appare evidente da questi cenni che nel montare la mobilitazione conoscitiva, nel costruire la connessione fra ruolo della Rete e ruolo dei luoghi fisici, nel disegnare gli spazi di confronto, nell’affidarne ad alcuni (iscritti) la leadership, nel rivolgersi ai potenziali partecipanti, è necessario procedere in modo professionale, lavorando su queste due coppie di sentimenti. Si tratta di costruire, provare e poi aggiustare un metodo che tenga conto delle esperienze che si vanno compiendo in altri contesti e nell’Italia stessa. I leader locali del partito, funzionari e volontari, ai quali viene affidato il mestiere della mobilitazione cognitiva devono essere preparati. Selezione e formazione vanno costruite con cura, in relazione all’ambizioso ma realistico obiettivo configurato.
Ruolo specifico dei giovani e ricambio generazionale Al partito nuovo i giovani possono dare un contributo specifico che affonda nelle loro caratteristiche: desiderio di cambiamento e minore propensione al cinismo; disponibilità di tempo; domanda di conoscenza. Nel partito della mobilitazione cognitiva essi possono trovare come ogni altra persona un terreno dove confrontare le proprie esperienze, apprendere, concorrere a cambiare. Ma tre specifici ruoli e attività possono, a un tempo, dare un forte contributo al partito nuovo e convincere loro stessi a partecipare al partito.
In primo luogo, con il coinvolgimento di associazioni e aggregazioni giovanili esistenti, anche rigorosamente indipendenti, è possibile costruire nei luoghi territoriali del partito un vero e proprio “apprendistato cognitivo” che affidi ai giovani, sfruttandone la disponibilità di tempo e il desiderio di cambiamento, il compito di animare il dibattito sulle questioni di interesse comune, con un’esplicita inversione dei ruoli rispetto alle precedenti generazioni: interpretare e discutere dati; reperire e valutare norme; ricercare e valutare argomentazioni di merito; investigare modelli attuati altrove; partecipare a applicazioni di sperimentalismo; studiare e illustrare documenti di indirizzo delle istituzioni internazionali, europee e nazionali. A questa funzione potrà corrispondere a livello nazionale l’aggiornamento del dibattito generale a partire da istruttorie curate dai giovani, con la cooperazione di non-giovani, esperti, anche essi propensi ad apprendere. È così che si rende possibile ed effettiva, senza paternalismi, l’abitudine al lavoro tra generazioni.
In secondo luogo, i giovani - siano essi membri, simpatizzanti o “altri” - possono portare nel partito, grazie a spazi dedicati, la conoscenza delle esperienze che essi realizzano nel territorio in modo auto-organizzato mirando a trasformazioni concrete. Questa pratica potrà stimolare lo sperimentalismo e consentirà di prendere contatto con i community leaders emergenti, nel riconoscimento della loro assoluta indipendenza. Infine, il partito potrebbe favorire le opportunità esplorative e formative di qualità per i giovani iscritti e simpatizzanti, promuovendo attraverso formatori-accompagnatori l’“esplorazione del mondo” attraverso libri, “missioni” in altri territori, incontri culturali e con personalità capaci di fomentare interrogativi e ricerca.
Queste linee di azione, oltre a tonificare la mobilitazione cognitiva, potranno anche mettere su basi diverse la selezione di nuovi volontari o funzionari per lo stesso partito: non riti cooptativi, logiche di approvazione o disapprovazione e neppure esaltazione di “esperienze simbolo”, ma sani e trasparenti processi di selezione, promozione e formazione. Si eroderà così la logica dell’adesione basata su fedeltà e subalternità. Potrà essere combattuta la propensione malsana, presente soprattutto nelle zone difficili del Paese, a costruire dipendenza dalla politica, creando false élite nel mondo giovanile fondate su protezioni, veicoli e legami per ottenere impiego o parti di reddito o per intercettare e partecipare a reti che facilitano la conquista di posizioni di rendita personali o di gruppo, entro le aree protette, tra partiti Stato-centrici e macchina arcaica dello Stato.
Interrogativi su regole e organizzazione Chi meglio di me conosce i partiti esistenti in Italia, segnatamente a sinistra – a cui mi rivolgo – e in particolare il Partito democratico, potrà valutare quale distanza vi sia rispetto alla forma partito sin qui abbozzata. E quanto arduo sia e quale sia il percorso da compiere se si aderisse all’ipotesi di partito nuovo disegnato in queste pagine. E quali esperienze già compiute e in corso anticipano in realtà questo disegno.
Comunque stiano le cose, mi è ben chiaro che si tratta di un’ipotesi ambiziosa. Assai ambiziosa.
Ma mi è altrettanto chiaro che senza di essa non può esservi una svolta nel governo del paese. E che si tratta di un disegno possibile. Perché risponde a una fortissima domanda di una diversa politica e alle potenzialità che il paese ha mostrato di avere e che i partiti di sinistra hanno al loro interno. Certo, se perseguito, è destinato ad avere molti nemici, essendo tutto rivolto a fare saltare posizioni di rendita a lungo costituite e difese con caparbietà. Ma quale progetto vero ne è privo? Piuttosto, ciò richiederà la condivisione di un sistema di regole e di un percorso. Su questi aspetti decisivi mi limiterò a sollevare i principali interrogativi ai quali si dovrà rispondere se l’ipotesi delineata volesse essere attuata in un programma politico.
Un primo gruppo di interrogativi riguarda le modalità operative con cui assicurare la circolazione effettiva delle conoscenze verso il basso e verso l’alto:
• In quale formato e modalità trasferire la conoscenza dagli spazi territoriali di pubblico confronto agli organi di governo locali?
• Come offrire davvero ai giovani le opportunità di impegno cognitivo prima descritte, avendo come luogo di riferimento primario i circoli territoriali?
• Come aggregare soluzioni anche diverse provenienti da diversi contesti locali e trasferirle ai livelli intermedi (segnatamente regionali) e nazionale?
• Quali forme di sollecitazione impiegare nel portare le soluzioni all’attenzione dei propri eletti o candidati in posizioni di governo?
• Come realizzare le due fasi di “ritorno” verso il basso: il trasferimento da parte dei livelli superiori verso i livelli inferiori, delle decisioni assunte o in corso di assunzione nel governo della cosa pubblica? L’“incursione destabilizzante” da parte della dirigenza nazionale nelle realtà territoriali dove il confronto pubblico aperto non decolla secondo le “regole della casa”? Gli altri interrogativi riguardano profili più classici dell’organizzazione e delle regole di un partito, sui quali l’ipotesi delineata suggerisce scelte nette che tuttavia vanno praticamente dettagliate:
• Come assicurare che l’iscrizione e i diritti che ne derivano in termini di partecipazione alle scelte e alla selezione dei gruppi dirigenti siano vincolati all’effettiva partecipazione ai processi di mobilitazione cognitiva?
• Come introdurre e favorire l’iscrizione o la partecipazione al partito di gruppi associati, indispensabili al successo della mobilitazione cognitiva?
• Come disegnare modi, orari e formati di partecipazione all’attività del partito, nei circoli e negli altri luoghi di aggregazione fisica, che assicurino lo spazio per i nuovi ceti medi urbani, ma anche per gli operai, gli altri lavoratori dipendenti, le donne?
• Come favorire e tutelare la partecipazione alla mobilitazione cognitiva di individui e associazioni che non condividono i convincimenti generali del partito (gli “altri”) e vogliono mantenere la propria piena indipendenza?
• Come assicurare la necessaria formazione ai funzionari e volontari che a livello territoriale intendono svolgere funzioni di guida e animazione della mobilitazione cognitiva?
• Come disincentivare/prevenire l’adesione al partito di giovani con l’aspirazione a una “carriera” nel partito? Come viceversa assicurare ai giovani le particolari funzioni descritte? · Come promuovere, l’impegno remunerato nel partito anche per periodi limitati di tempo (da pochi mesi a 1-3 anni) in ogni fase dell’attività lavorativa di una persona?
• Quali regole prevedere per la nomina e la durata massima della dirigenza locale, regionale e nazionale?
• Quali regole per assicurare l’incompatibilità assoluta fra funzionariato nel partito e candidatura nelle assemblee elettive o in organi esecutivi? E come regolare l’eventuale ripresa di attività remunerata nel partito dopo l’esercizio di una funzione elettiva?
• Quali regole, sanzioni e/o codici deontologici per assicurare comportamenti di tutti i militanti, funzionari, eletti, candidati a posizioni di governo che siano davvero coerenti con i convincimenti fatti propri dal partito e tali da ricreare fiducia nella politica?
• Quale modo per scongiurare in modo categorico l’attribuzione di incarichi pubblici in enti in alcun modo controllati per motivi di appartenenza partitica e per accertare e sanzionare senza eccezioni i comportamenti devianti?
Anche in relazione alle risposte date a questi interrogativi, è necessario valutare se il rinnovamento, una volta individuato e condiviso il punto di arrivo desiderato, debba essere perseguito con una “doccia fredda”, ossia attraverso un radicale, simultaneo rinnovamento di tutte le strutture territoriali e centrali, rinnovamento delle persone e/o del loro modo di agire, ovvero attraverso un cambiamento graduale che muova dalle 100-300 “unità territoriali”, dai circoli, dove esistono leader forti, capaci di costruire prototipi di cambiamento, o dove il cambiamento e già in moto, ovvero con un mix di queste due modalità.
E ancora, si dovranno valutare i numerosi aspetti di una legge sul finanziamento pubblico dei partiti che dia preminenza al finanziamento volontario degli iscritti e dei simpatizzanti, regoli le contribuzioni private, modifichi la contribuzione pubblica - sia riducendo quella automatica legata al numero dei voti ricevuti, sia introducendo altre, non automatiche, modalità, sia prevedendo controlli interni e esterni (con un equilibrio fra norma prescrittiva e autonomia statutaria) -, assicuri l’assoluta e aperta verificabilità degli impieghi e accompagni tutto ciò con una normativa per il conflitto di interesse che riduca lo squilibrio competitivo fra formazioni politiche.
Mi è stato fatto giustamente osservare che solo quando a tutti questi interrogativi saranno state date risposte convincenti l’ipotesi di partito nuovo presentata in queste pagine assumerà la forma di un “programma politico”. Concordo. Sono certo che le risposte possano venire solo dal lavoro congiunto di una “squadra” che dovesse accogliere con interesse e sentimento e adeguatamente sviluppare l’ipotesi presentata in questa memoria. Che, con l’Addendum che segue, chiudo.
ADDENDUM Convincimenti di un partito di sinistra: esercizio di scrittura Lungi dal rappresentare la proposta di un insieme anche solo incompiuto e preliminare di principi da porre a base di un “partito di sinistra”, ciò che segue è un esercizio di scrittura volta a indicare cosa io intenda per “convincimenti comuni a un partito di sinistra”, che, con un forte ancoraggio alla Costituzione e una scelta di enfasi e integrazioni rispetto a essa, favoriscano un sentire e un linguaggio comuni necessari a sollecitare la partecipazione e a lavorare efficacemente sul “che fare”.
Fabrizio Barca
Note:
1. Il partito ha lo scopo di promuovere una società democratica giusta dove gli individui, indipendentemente dalle condizioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (Cost. art 3), possano realizzare gli obiettivi ai quali danno valore nelle molteplici dimensioni della vita: dalla dignità sociale all’impegno per il bene comune, dal benessere fisico a quello intellettivo, dal lavoro alla relazione con gli altri e con la natura. A questo obiettivo deve essere sospinta l’azione dello Stato, rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale” (Cost. art 3).
2. Alle persone lo Stato deve garantire i diritti e le libertà di ogni tipo, inclusa la libertà di resistere contro ogni potere che violi i diritti garantiti dalla Costituzione e la libertà da “interferenze arbitrarie” nella propria vita (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, art.
12), anche da parte dello Stato stesso. Va altresì garantita parità nell’adempimento dei doveri di appartenenza alla comunità, inclusi quelli “inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (Cost. art.2) e quelli tributari, da fondare su “criteri di progressività” (Cost. art.
53).
3. Le “limitazioni di sovranità” (Cost. art. 11) connesse al progresso del progetto di Unione Europea, necessario per la pace e la giustizia del continente, devono accrescersi a misura della crescita dei diritti e dei doveri che l’Unione Europea garantisce ai cittadini italiani e di ogni Stato membro in quanto cittadini europei.
48 4. Il coerente ripudio della guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (Cost. art. 11) e l’estensione oltre i confini nazionali dei doveri di solidarietà richiedono un impegno dello Stato, in un rapporto rafforzato con gli altri Stati membri dell’Unione Europea, per anticipare tensioni e fonti di conflitto, per scongiurare disegni geopolitici e militari costruiti su disinformazione e per sviluppare interventi di cooperazione internazionale efficaci e valutati in modo aperto.
5. La tutela dell’ambiente, del paesaggio e del “patrimonio storico e artistico” e la promozione della cultura (Cost. art. 9) sono beni pubblici, richiedono un continuo intenso confronto fra visioni diverse che dia rilievo agli interessi di generazioni future che non possono ancora far valere le proprie convinzioni.
6. La separazione fra capitale (materiale e immateriale) e lavoro è caratteristica costitutiva del capitalismo: il capitale è controllato da “imprenditori” che traggono dal controllo l’incentivo stesso a innovare; il lavoro è posto in condizione di svantaggio contrattuale da tale controllo.
Per bilanciare questo squilibrio sono necessari liberi sindacati (Cost. art. 39) e altre forme organizzative, come la partecipazione dei lavoratori “alla gestione delle aziende” (Cost. art.
46). La tutela normativa di queste forme è necessaria per promuovere “le condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro (Cost. art.4) con particolare attenzione alle donne (Cost. art. 37).
7. Mercato aperto, libera iniziativa privata e concorrenza costituiscono condizione per lo sviluppo. Lo Stato deve impegnarsi a produrre i beni pubblici che sono necessari al funzionamento del mercato (prima di tutto la salvaguardia della proprietà, una giustizia efficiente e la tutela della concorrenza, tanto più forte quanto maggiori sono gli ostacoli all’entrata) e tutti quei beni per i quali il controllo privato delle risorse è insufficiente o relativamente inefficiente. Appropriate politiche devono promuovere la piena occupazione del lavoro e il contrasto da fluttuazioni economiche.
8. L’esistenza in determinati luoghi di trappole del sottosviluppo, con una persistente sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali e la negazione di condizioni di pari opportunità, in genere dovuta alla consapevole scelta delle classi dirigenti di privilegiare interessi distributivi rispetto a interessi generali, va contrastata alterando gli equilibri economici e sociali esistenti e promuovendo innovazione.
9. L’azione pubblica dello Stato è limitata da un deficit cognitivo, la conoscenza necessaria essendo dispersa fra una moltitudine di soggetti, dal rischio di cattura da parte di interessi particolari e dalla tensione che spesso esiste fra i diversi principi che la guidano. A 49 governare questi limiti soccorre il metodo dello “sperimentalismo democratico” che, fissando quadri regolativi volutamente provvisori, li rivede poi attraverso un processo ricorsivo di verifica pubblica e aperta degli esiti negli specifici contesti. È compito del partito promuovere e animare questo metodo, sia incalzando lo Stato, sia selezionando classe dirigente che lo governi.
10. Allo stesso metodo della verifica pubblica e aperta lo Stato deve ricorrere, in una società aperta a culture diverse e che voglia valorizzare le molteplici identità di ogni individuo, per affrontare temi etici attinenti le scelte di vita e di morte e i diritti legati alla convivenza.
L’obiettivo è di ricercare di volta in volta, per l’intera società nazionale, soluzioni sulle quali esiste l’“accordo” di una parte prevalente della società, ossia in merito alle quali le argomentazioni contrarie siano superate da quelle a favore, essendo soddisfatti i requisiti della riflessione pubblica aperta all’esterno e le condizioni di imparzialità.
11. Il conseguimento degli obiettivi di breve e medio termine dell’azione pubblica è favorito dal continuo confronto su visioni, anche alternative, di lungo periodo della società che, interpretando le innovazioni tecnologiche, organizzative e di comportamento sociale che continuamente si determinano, configurino possibili assetti della società più giusti, sostenibili e augurabili per le generazioni future.
12. I partiti, frutto di libera associazione “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (Cost. art. 49), sono i luoghi per la valutazione pubblica informata, accesa, aperta e ragionevole, necessaria a spronare lo Stato affinché individui e produca i beni pubblici necessari a dare corpo a tutti gli altri convincimenti. I partiti devono assicurare con strumenti cogenti la “disciplina e onore” (Cost. art 54) dei loro eletti, la selezione di questi per merito e capacità, e la loro condivisione delle condizioni comuni di vita dei cittadini che rappresentano.
1 Voglio citare: Ignazi, P. (2012) Forza senza legittimità. Il Vicolo cieco dei partiti, Laterza; Rescigno, G.U. (2008) Corso di diritto pubblico, Bologna, Zanichelli; la raccolta tematica di saggi su Politica e partiti della rivista “parole Chiave” (n.47, 2012), Revelli, M.
(2013), Finale di partito, Torino, Einaudi; oltre che lo straordinario schema analitico di Amartya Sen (cfr. in particolare Sen, A.
(2009) The Idea of Justice, Harvard University Press; Sen, A. (2010) L’idea di Giustizia, Mondadori) e la visione dello sperimentalismo democratico di Charles Sabel (cfr. le sintesi in Sabel, C.F. e Zeitlin, J. (2012) “Experimentalist Governance”, in The Oxford Handbook of Governance, Oxford University Press e in Sabel, C. (2012), “Dewey, Democracy and Democratic Experimentalism”, Contemporary Pragmatism, Vol. 9, No. 2).
2 Per le basi di questa definizione, cfr. Sen, A. (2009).
3 Cfr. Barca, F. (2006), “Istituzioni e sviluppo: lezioni dal caso italiano”, in Stato e Mercato, n. 76, e Simoni, M. (2012), Senza alibi. Perché il capitalismo italiano non cresce più, Marsilio editori.
4 Cfr. in particolare Biorcio, R., Natale, P. (2013), Politica a 5 stelle, Feltrinelli, e Corbetta, P., Gualmini, E. (2013), Il partito di Grillo, Il Mulino.
5 Cfr. Cassese, S. (2013), La qualità delle politiche pubbliche, ovvero del metodo di governare, Camera dei Deputati, 11 Febbraio, p.1.
6 Si veda lo stesso Cassese, S. (2013) per alcune indicazioni.
7 Per il termine “partito Stato-centrico” e per la citazione, cfr. Ignazi, P. (2012). Sullo stesso tema scrive Mastropaolo, A. (2012), Donde vengono e dove stanno andando i partiti politici?, in “Parole Chiave”, n.47, richiamando il precedente concetto di “political parties as public utilities”: “[I partiti] avevano visto la luce con l’ambizione di impadronirsi dello Stato. Una volta che sono entrati in possesso del capitale politico, economico, ecc. dello Stato, è quest’ultimo che si è impadronito dei partiti. O i partiti si sono messi al riparo di esso, divenendone delle articolazioni: fra tutte le utilities, quelle meno a rischio di privatizzazione” (p. 45).
8 Quella della presunta “italianità” è il rifugio delle menti, anche migliori, di fronte all’insuccesso nel rinnovare il paese: cfr.
Patriarca, S. (2010), Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Bari.
9 Per un richiamo alla copiosa letteratura, cfr. Rescigno, G.U. (2008), Ignazi, P. (2012), Mastropaolo, A. (2012) e Revelli, M.
(2013).
10 Cfr. Manin, B. (2012), Principi del governo rappresentativo, Il Mulino.
11 Cfr. Rizzoni, G. “art. 49”, in Bifulco, R., Celotto, A. e Olivetti, M. (a cura di) Commentario alla Costituzione, I, Utet, Torino (2006): “l’adesione dei parlamentari ai diversi gruppi avviene sulla base di una semplice dichiarazione del parlamentare interessato, senza che vi sia alcuna verifica di coerenza tra gruppo di appartenenza e l’identità della formazione politica sotto il cui contrassegno è avvenuta l’elezione”, a differenza, ad esempio, del Bundestag tedesco. Questo tratto risente evidentemente della – ma non appare richiesto dalla – previsione costituzionale per cui “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67). Il divieto espresso del vincolo di mandato e l’enfasi sulla rappresentanza della Nazione furono introdotte per “sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari” (dall’intervento del relatore Costantino Mortati nella discussione della Sottocommissione II dell’Assemblea Costituente del 19.9.1946). Fu solo Ruggero Grieco a notare che gli eletti sono per loro non eliminabile natura “vincolati a un mandato” – il “programma … [l’] orientamento politico particolare” con cui “si presentano alle elezioni” – e che con l’esclusione di vincoli “si favorirebbe il sorgere del malcostume politico”.
12 La distinzione fra i due ruoli e dunque la conduzione di primarie separate è chiaramente una condizione necessaria per separare partiti e Stato, ma per tutto ciò che si è argomentato non ne è assolutamente condizione sufficiente.
13 Nella definizione della Enciclopedia Treccani leggiamo: “regime politico il cui fondamento è costituito da un rapporto diretto, veicolato da tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso, fra un leader e gli appartenenti a una comunità politica”.
14 Il riferimento evidente è a Hirschman, A.O. (1970), Exit, voice and loyalty: responses to decline in Firms, Organizations and States, Cambridge, MA: Harvard University Press; Hirschman, A.O. (1982), Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato, Bompiani, Milano.
15 Si tratta dell’espressione e del neologismo usati nel 1962 da Raffaele Mattioli per indicare il legame perverso prodottosi in Italia alla vigilia della crisi del 1930-31 fra grandi banche italiane di credito ordinario e industria: la fratellanza siamese consistendo nella circostanza che le banche controllavano le imprese e la sopravvivenza di queste ultime era essenziale alle banche; il catoblepismo, nel fatto che le banche avevano finito per controllare se stesse. Nel nostro caso, i partiti, anziché essere controllati dai cittadini che ne fanno parte, finiscono per controllare se stessi, esercitando un controllo sullo Stato che a sua volta è a loro essenziale. Cfr. Mattioli (1962), “I problemi attuali del credito”, in Mondo Economico, n.2, gennaio, anche in Villari, L.
(1972), Il capitalismo italiano del Novecento, Laterza, Bari. Sulla tesi di Mattioli cfr. Rodano,G. (1983), Il credito all’economia, Ricciardi, Milano-Napoli.
16 Cfr. Ignazi,P. (2012), p. 15.
17 Cfr. Ignazi, P. (2012), p. 15.
18 Cfr. Revelli, M. (2013), p. 25.
19 Entro la vasta letteratura che da tempo descrive la crisi dei modelli educativi in Italia, si veda: CEI (2000), La sfida educativa, Laterza e Rossi-Doria, M. (2011), La scena multiforme: le sfide educative di genitori e insegnanti, in Genitori e Insegnanti, Astrolabio, pp. 11-54.
20 Utilizzo la ripartizione in fasi utilizzata da Cassese, S. (2013).
21 Sostengo questa tesi in Barca, F. (1999), Il capitalismo italiano. Storia di un compromesso senza riforme, Donzelli editore, Roma. La fragilità riguarda sia la soluzione adottata per la macchina pubblica, sostituita in sue fondamentali funzioni dalla soluzione “nittiana” degli enti pubblici, sia l’assenza di una regolazione concorrenziale dei mercati, di una soluzione adeguata alla separazione proprietà-controllo e di un rapporto di forza abusivo del capitale nei confronti del lavoro (che attiverà l’instabilità drammatica degli anni ’60 e ’70).
22 È non a caso il modello di riferimento usato da Cassese, S. (2013), per la sua critica del caso italiano. Del vasto dibattito italiano e internazionale sul tema, cito per tutti Bobbio, L. (“Le arene deliberative”, in Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, n.
3, 2002).
23 Cfr. Sabel, C.F. e Zeitlin, J. (2012) e Sabel. C. (2012).
24 Cfr. Judt, T. (2010), Ill Fares the Land, Penguin Press, Guasto è il mondo, (2011), Laterza.
25 Ovviamente, l’accantonamento non è stato integrale e, non solo in Europa continentale, ma anche nei paesi anglo-sassoni il modello socialdemocratico sopravvive, seppur indebolito, accanto al nuovo modello.
26 Per una rappresentazione della ricchezza del metodo socialdemocratico e dei suoi risultati e problemi, si veda il carteggio e confronto fra Willy Brandt, Bruno Kreisky e Olaf Palme in Brandt, W., Kreisky, B., Palme, O. (1976), Quale socialismo per l’Europa, Lerici. Notevole anche la prefazione di Gaetano Arfè.
27 Sull’infondatezza di questa ipotesi, cfr Rodrik, D. (2008), “Second-Best Institutions”, American Economic Review, Papers and Proceedings, Maggio.28 Per una franca esposizione di questa impostazione, cfr World Bank Development Report del 2009. Per un riconoscimento della sua infondatezza cfr. Acemoglou, D. (2009), “The Crisis of 2008: Structural Lessons for and from Economics”, CEPR Policy Insight, n.28. Questo mito e quello delle “istituzioni perfette”, nonché il loro superamento, sono discussi, nel contesto specifico delle politiche di sviluppo, in Barca, F. (2011), “Alternative Approaches to Development Policy: Intersections and Divergencies”, in OECD Regional Outlook.
29 Nel ragionamento e nelle aspirazioni dei rappresentanti più alti del modello socialdemocratico “propositi e proposte non sono mai concepiti – scrive Arfè nella premessa a Brandt, W., Kreisky, B., Palme, O. (1976), p.XV – in moduli di tecnocrazia efficientistica o paternalistica, ma in funzione dell’elevamento non soltanto della condizione di vita del lavoratore ma della capacità di partecipazione alla vita della società”.
30 Su questo punto e sul nesso decisivo fra innovazione e conflitto – nelle imprese, nel governo della cosa pubblica, nella politica – cfr. Seravalli, G. (2011), Conflitto e Innovazione, Egea.
31 Per questa argomentazione si veda Sabel, C. (2012).
32 Scrive ad esempio Brandt a Kreisky e Palme nel luglio 1973, citando Erhard Eppler in una lettera che rileva una ricerca profonda sul tema della “qualità della vita” che l’azione pubblica deve prendere a riferimento (così lontana dall’argomentare e fare delle attuali classi dirigenti europee). “Se riteniamo la libertà e la partecipazione alle decisioni una parte essenziale della qualità della vita, allora il metodo in base al quale determiniamo la qualità della vita è già una parte essenziale di essa … il processo democratico per la definizione e l’attuazione della qualità della vita è già una parte essenziale di essa” (in Brandt, W., Kreisky, B., Palme, O. (1976), p.67).
33 Cfr. ancora Sabel, C. (2012), p. 9.
34 Come scrive Sabel, C. (2012) secondo questa impostazione, il livello di governo federale o statale dà ai livelli di governo inferiori “la discrezionalità di perseguire l’obiettivo generale a loro modo, ma a condizione che essi elaborino … standard che specifichino gli obiettivi e fissino la metrica per misurare i progressi.” Sarà questa la base per valutare in itinere e decidere i cambiamenti (degli obiettivi, degli standard, delle regole).
35 Cfr. Cottica, A. (2010), Wikicrazia, Navarra Editore. Il libro esplora alcuni importanti esempi di creazione di questa cooperazione attraverso la rete, identificando quattro distinte finalità, tutte nella sfera dello sperimentalismo democratico (per una valutazione cfr. http://www.eticaeconomia.it/wikicrazia.html): assicurare banche dati aperte per apprendere, monitorare e valutare azioni pubbliche (ai casi considerati si è ora aggiunto il sito http://www.opencoesione.gov.it/ per le azioni pubbliche finanziate da fondi europei per la coesione); consentire una comunicazione fra istituzione pubblica e cittadini in merito alla missione della prima; offrire a realizzatori di soluzioni locali l’opportunità di apprendere errori e soluzioni di altri realizzatori di simili interventi; incentivare il gratuito contributo privato alla soluzione di problemi pubblici.
36 Conclusioni al Convegno dell’Eliseo del 15 gennaio 1977, ora in Berlinguer, E. (1977), Austerità occasione per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, Roma. Miguel Gotor, nel ripubblicare questo testo e nel ricostruire il contesto storico in cui Berlinguer propose la strategia dell’austerità (cfr. Gotor, M. (2013), La passione non è finita, Einaudi, Torino), sostiene che la sua proposta ha “maggior attualità e interesse sul terreno dell’elaborazione culturale che non quella della politica economica”, osservando come essa colga la permanente, insostenibile tensione fra opulenza dei paesi avanzati e povertà del resto del mondo e la centralità della questione ambientale. In realtà, anche sul piano della politica economica, l’idea che l’azione pubblica frutto di un confronto pubblico aperto e appassionato possa condurre a eliminare “sprechi, sperperi e … particolarismi” – come scrive Berlinguer - nella produzione di beni pubblici e possa orientare la domanda di beni privati è intuizione assolutamente attuale. E’ in questa chiave, di politica dell’azione pubblica e non “moralistica”, che va riletto il consenso allora raccolto nell’area cattolica e laica.
37 Cfr. ancora Sabel, C. (2012).
38 Per questa tesi cfr ad esempio Casaleggio, G. e Grillo, B. (2011), Siamo in guerra. La rete contro i partiti. Chiarelettere, Milano. Per una sintesi della tesi e una loro critica, ripresa nel testo, cfr. Revelli, M. (2013). Cfr. anche Biorcio, R., Natale, P.
(2013) e Corbetta, P., Gualmini, E. (2013).
39 Cfr. ancora Cottica, A. (2010) e i suoi numerosi esempi di “contributo” in stile Wikepedia. Cfr. anche http://www.eticaeconomia.it/wikicrazia.html.
40 Cfr. ancora Revelli, M. (2013), pp.120-121.
41 Su questo punto cfr. anche Morozov, E. (2011), The Net delusion. The dark side of internet freedom, PublicAffairs; Morozov, E. (2011) L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice Edizioni, Torino.
42 Cfr. Rodrik, D. (2013), The Tyranny of Political Economy, [http://www.project-syndicate.org/commentary/how-economistskilled- policy-analysis-by-dani-rodrik]; La tirannide dell’conomia politica [http://www.project-syndicate.org/commentary/howeconomists- killed-policy-analysis-by-dani-rodrik/italian]. Rodrik riconosce che la lettura economicistica del comportamento politico esclusivamente in termini di interessi particolari ha oscurato il fatto che “i cambiamenti economici spesso avvengono non quando gli interessi particolari sono sconfitti, ma quando cambiano le strategie utilizzate per perseguirli”.
43 Si intendono qui, come in tutto il testo, in senso lato, gli eletti delle assemblee e i membri degli “esecutivi” di tutti i livelli di governo.
44 Cfr. Mastropaolo, A. (2012). Questa intuizione ha certo concorso al successo del movimento “5 stelle”, ma è stata da esso declinata sulla base dell’assunto che la rete possa sostituire i partiti.
45 Per questo termine, cfr. Revelli, M. (2012).
46 Cfr. Hunter, J.D. (2010) To Change the World, citato in Douthat, R. (2012), Bad Religion, Free Press. Hunter contrappone alla cultura forte una “cultura debole”, oggi prevalente, “sempre segnata dal risentimento per i propri nemici e insicura degli amici e volta indietro a guardare il passato migliore anziché in avanti al futuro”, una descrizione straordinariamente calzante per l’Italia dell’ultimo venticinquennio.
47 Pinelli, C. (2012) - “Parole Chiave” n.47 - scrive che “al di là di una certa retorica, [gli strumenti della democrazia deliberativa] presentano modalità di apprendimento e trasmissione del sapere che richiedono un profondo ripensamento dei paradigmi di organizzazione delle conoscenze nella sfera pubblica, e che nello stesso tempo potrebbero scardinare la stessa tradizionale dicotomia democrazia/tecnocrazia”, p. 148.
48 Cfr. ancora Pinelli, C. (2012).
50 I principi sono ricavati da Sen, A. (2009). Cfr. anche la sintesi in http://www.eticaeconomia.it/lidea-di-giustizia-di-amartyasen- sintesi-e-osservazioni-per-luso-quotidiano.html.
51 Cfr. Settis, S. (2012), Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino.
52 Cfr. March, G. (1991) “Exploration and Exploitation in Organizational Learning”, in Organizatione Science, ripreso da Surowiecki, J. (2004), The Wisdom of Crowds; Surowiecki, J. (2007), La saggezza della folla, Internazionale Edizioni.
53 Occorre avere ben presente che la tendenza del partito a perseguire per i propri affiliati benefici particolari non è certo eliminata dalla trasformazione suggerita. Può esserlo solo come esito (non come incipit) di un processo più generale di rinnovamento del paese di cui il nuovo partito è peraltro necessario, punto di partenza.
54 Cfr. ancora Sen, A. (2009).
Note:
1. Il partito ha lo scopo di promuovere una società democratica giusta dove gli individui, indipendentemente dalle condizioni “di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (Cost. art 3), possano realizzare gli obiettivi ai quali danno valore nelle molteplici dimensioni della vita: dalla dignità sociale all’impegno per il bene comune, dal benessere fisico a quello intellettivo, dal lavoro alla relazione con gli altri e con la natura. A questo obiettivo deve essere sospinta l’azione dello Stato, rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale” (Cost. art 3).
2. Alle persone lo Stato deve garantire i diritti e le libertà di ogni tipo, inclusa la libertà di resistere contro ogni potere che violi i diritti garantiti dalla Costituzione e la libertà da “interferenze arbitrarie” nella propria vita (Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, art.
12), anche da parte dello Stato stesso. Va altresì garantita parità nell’adempimento dei doveri di appartenenza alla comunità, inclusi quelli “inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (Cost. art.2) e quelli tributari, da fondare su “criteri di progressività” (Cost. art.
53).
3. Le “limitazioni di sovranità” (Cost. art. 11) connesse al progresso del progetto di Unione Europea, necessario per la pace e la giustizia del continente, devono accrescersi a misura della crescita dei diritti e dei doveri che l’Unione Europea garantisce ai cittadini italiani e di ogni Stato membro in quanto cittadini europei.
48 4. Il coerente ripudio della guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (Cost. art. 11) e l’estensione oltre i confini nazionali dei doveri di solidarietà richiedono un impegno dello Stato, in un rapporto rafforzato con gli altri Stati membri dell’Unione Europea, per anticipare tensioni e fonti di conflitto, per scongiurare disegni geopolitici e militari costruiti su disinformazione e per sviluppare interventi di cooperazione internazionale efficaci e valutati in modo aperto.
5. La tutela dell’ambiente, del paesaggio e del “patrimonio storico e artistico” e la promozione della cultura (Cost. art. 9) sono beni pubblici, richiedono un continuo intenso confronto fra visioni diverse che dia rilievo agli interessi di generazioni future che non possono ancora far valere le proprie convinzioni.
6. La separazione fra capitale (materiale e immateriale) e lavoro è caratteristica costitutiva del capitalismo: il capitale è controllato da “imprenditori” che traggono dal controllo l’incentivo stesso a innovare; il lavoro è posto in condizione di svantaggio contrattuale da tale controllo.
Per bilanciare questo squilibrio sono necessari liberi sindacati (Cost. art. 39) e altre forme organizzative, come la partecipazione dei lavoratori “alla gestione delle aziende” (Cost. art.
46). La tutela normativa di queste forme è necessaria per promuovere “le condizioni che rendano effettivo” il diritto al lavoro (Cost. art.4) con particolare attenzione alle donne (Cost. art. 37).
7. Mercato aperto, libera iniziativa privata e concorrenza costituiscono condizione per lo sviluppo. Lo Stato deve impegnarsi a produrre i beni pubblici che sono necessari al funzionamento del mercato (prima di tutto la salvaguardia della proprietà, una giustizia efficiente e la tutela della concorrenza, tanto più forte quanto maggiori sono gli ostacoli all’entrata) e tutti quei beni per i quali il controllo privato delle risorse è insufficiente o relativamente inefficiente. Appropriate politiche devono promuovere la piena occupazione del lavoro e il contrasto da fluttuazioni economiche.
8. L’esistenza in determinati luoghi di trappole del sottosviluppo, con una persistente sottoutilizzazione delle risorse umane e materiali e la negazione di condizioni di pari opportunità, in genere dovuta alla consapevole scelta delle classi dirigenti di privilegiare interessi distributivi rispetto a interessi generali, va contrastata alterando gli equilibri economici e sociali esistenti e promuovendo innovazione.
9. L’azione pubblica dello Stato è limitata da un deficit cognitivo, la conoscenza necessaria essendo dispersa fra una moltitudine di soggetti, dal rischio di cattura da parte di interessi particolari e dalla tensione che spesso esiste fra i diversi principi che la guidano. A 49 governare questi limiti soccorre il metodo dello “sperimentalismo democratico” che, fissando quadri regolativi volutamente provvisori, li rivede poi attraverso un processo ricorsivo di verifica pubblica e aperta degli esiti negli specifici contesti. È compito del partito promuovere e animare questo metodo, sia incalzando lo Stato, sia selezionando classe dirigente che lo governi.
10. Allo stesso metodo della verifica pubblica e aperta lo Stato deve ricorrere, in una società aperta a culture diverse e che voglia valorizzare le molteplici identità di ogni individuo, per affrontare temi etici attinenti le scelte di vita e di morte e i diritti legati alla convivenza.
L’obiettivo è di ricercare di volta in volta, per l’intera società nazionale, soluzioni sulle quali esiste l’“accordo” di una parte prevalente della società, ossia in merito alle quali le argomentazioni contrarie siano superate da quelle a favore, essendo soddisfatti i requisiti della riflessione pubblica aperta all’esterno e le condizioni di imparzialità.
11. Il conseguimento degli obiettivi di breve e medio termine dell’azione pubblica è favorito dal continuo confronto su visioni, anche alternative, di lungo periodo della società che, interpretando le innovazioni tecnologiche, organizzative e di comportamento sociale che continuamente si determinano, configurino possibili assetti della società più giusti, sostenibili e augurabili per le generazioni future.
12. I partiti, frutto di libera associazione “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (Cost. art. 49), sono i luoghi per la valutazione pubblica informata, accesa, aperta e ragionevole, necessaria a spronare lo Stato affinché individui e produca i beni pubblici necessari a dare corpo a tutti gli altri convincimenti. I partiti devono assicurare con strumenti cogenti la “disciplina e onore” (Cost. art 54) dei loro eletti, la selezione di questi per merito e capacità, e la loro condivisione delle condizioni comuni di vita dei cittadini che rappresentano.
1 Voglio citare: Ignazi, P. (2012) Forza senza legittimità. Il Vicolo cieco dei partiti, Laterza; Rescigno, G.U. (2008) Corso di diritto pubblico, Bologna, Zanichelli; la raccolta tematica di saggi su Politica e partiti della rivista “parole Chiave” (n.47, 2012), Revelli, M.
(2013), Finale di partito, Torino, Einaudi; oltre che lo straordinario schema analitico di Amartya Sen (cfr. in particolare Sen, A.
(2009) The Idea of Justice, Harvard University Press; Sen, A. (2010) L’idea di Giustizia, Mondadori) e la visione dello sperimentalismo democratico di Charles Sabel (cfr. le sintesi in Sabel, C.F. e Zeitlin, J. (2012) “Experimentalist Governance”, in The Oxford Handbook of Governance, Oxford University Press e in Sabel, C. (2012), “Dewey, Democracy and Democratic Experimentalism”, Contemporary Pragmatism, Vol. 9, No. 2).
2 Per le basi di questa definizione, cfr. Sen, A. (2009).
3 Cfr. Barca, F. (2006), “Istituzioni e sviluppo: lezioni dal caso italiano”, in Stato e Mercato, n. 76, e Simoni, M. (2012), Senza alibi. Perché il capitalismo italiano non cresce più, Marsilio editori.
4 Cfr. in particolare Biorcio, R., Natale, P. (2013), Politica a 5 stelle, Feltrinelli, e Corbetta, P., Gualmini, E. (2013), Il partito di Grillo, Il Mulino.
5 Cfr. Cassese, S. (2013), La qualità delle politiche pubbliche, ovvero del metodo di governare, Camera dei Deputati, 11 Febbraio, p.1.
6 Si veda lo stesso Cassese, S. (2013) per alcune indicazioni.
7 Per il termine “partito Stato-centrico” e per la citazione, cfr. Ignazi, P. (2012). Sullo stesso tema scrive Mastropaolo, A. (2012), Donde vengono e dove stanno andando i partiti politici?, in “Parole Chiave”, n.47, richiamando il precedente concetto di “political parties as public utilities”: “[I partiti] avevano visto la luce con l’ambizione di impadronirsi dello Stato. Una volta che sono entrati in possesso del capitale politico, economico, ecc. dello Stato, è quest’ultimo che si è impadronito dei partiti. O i partiti si sono messi al riparo di esso, divenendone delle articolazioni: fra tutte le utilities, quelle meno a rischio di privatizzazione” (p. 45).
8 Quella della presunta “italianità” è il rifugio delle menti, anche migliori, di fronte all’insuccesso nel rinnovare il paese: cfr.
Patriarca, S. (2010), Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Bari.
9 Per un richiamo alla copiosa letteratura, cfr. Rescigno, G.U. (2008), Ignazi, P. (2012), Mastropaolo, A. (2012) e Revelli, M.
(2013).
10 Cfr. Manin, B. (2012), Principi del governo rappresentativo, Il Mulino.
11 Cfr. Rizzoni, G. “art. 49”, in Bifulco, R., Celotto, A. e Olivetti, M. (a cura di) Commentario alla Costituzione, I, Utet, Torino (2006): “l’adesione dei parlamentari ai diversi gruppi avviene sulla base di una semplice dichiarazione del parlamentare interessato, senza che vi sia alcuna verifica di coerenza tra gruppo di appartenenza e l’identità della formazione politica sotto il cui contrassegno è avvenuta l’elezione”, a differenza, ad esempio, del Bundestag tedesco. Questo tratto risente evidentemente della – ma non appare richiesto dalla – previsione costituzionale per cui “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67). Il divieto espresso del vincolo di mandato e l’enfasi sulla rappresentanza della Nazione furono introdotte per “sottrarre il deputato alla rappresentanza di interessi particolari” (dall’intervento del relatore Costantino Mortati nella discussione della Sottocommissione II dell’Assemblea Costituente del 19.9.1946). Fu solo Ruggero Grieco a notare che gli eletti sono per loro non eliminabile natura “vincolati a un mandato” – il “programma … [l’] orientamento politico particolare” con cui “si presentano alle elezioni” – e che con l’esclusione di vincoli “si favorirebbe il sorgere del malcostume politico”.
12 La distinzione fra i due ruoli e dunque la conduzione di primarie separate è chiaramente una condizione necessaria per separare partiti e Stato, ma per tutto ciò che si è argomentato non ne è assolutamente condizione sufficiente.
13 Nella definizione della Enciclopedia Treccani leggiamo: “regime politico il cui fondamento è costituito da un rapporto diretto, veicolato da tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso, fra un leader e gli appartenenti a una comunità politica”.
14 Il riferimento evidente è a Hirschman, A.O. (1970), Exit, voice and loyalty: responses to decline in Firms, Organizations and States, Cambridge, MA: Harvard University Press; Hirschman, A.O. (1982), Lealtà, defezione, protesta. Rimedi alla crisi delle imprese, dei partiti e dello stato, Bompiani, Milano.
15 Si tratta dell’espressione e del neologismo usati nel 1962 da Raffaele Mattioli per indicare il legame perverso prodottosi in Italia alla vigilia della crisi del 1930-31 fra grandi banche italiane di credito ordinario e industria: la fratellanza siamese consistendo nella circostanza che le banche controllavano le imprese e la sopravvivenza di queste ultime era essenziale alle banche; il catoblepismo, nel fatto che le banche avevano finito per controllare se stesse. Nel nostro caso, i partiti, anziché essere controllati dai cittadini che ne fanno parte, finiscono per controllare se stessi, esercitando un controllo sullo Stato che a sua volta è a loro essenziale. Cfr. Mattioli (1962), “I problemi attuali del credito”, in Mondo Economico, n.2, gennaio, anche in Villari, L.
(1972), Il capitalismo italiano del Novecento, Laterza, Bari. Sulla tesi di Mattioli cfr. Rodano,G. (1983), Il credito all’economia, Ricciardi, Milano-Napoli.
16 Cfr. Ignazi,P. (2012), p. 15.
17 Cfr. Ignazi, P. (2012), p. 15.
18 Cfr. Revelli, M. (2013), p. 25.
19 Entro la vasta letteratura che da tempo descrive la crisi dei modelli educativi in Italia, si veda: CEI (2000), La sfida educativa, Laterza e Rossi-Doria, M. (2011), La scena multiforme: le sfide educative di genitori e insegnanti, in Genitori e Insegnanti, Astrolabio, pp. 11-54.
20 Utilizzo la ripartizione in fasi utilizzata da Cassese, S. (2013).
21 Sostengo questa tesi in Barca, F. (1999), Il capitalismo italiano. Storia di un compromesso senza riforme, Donzelli editore, Roma. La fragilità riguarda sia la soluzione adottata per la macchina pubblica, sostituita in sue fondamentali funzioni dalla soluzione “nittiana” degli enti pubblici, sia l’assenza di una regolazione concorrenziale dei mercati, di una soluzione adeguata alla separazione proprietà-controllo e di un rapporto di forza abusivo del capitale nei confronti del lavoro (che attiverà l’instabilità drammatica degli anni ’60 e ’70).
22 È non a caso il modello di riferimento usato da Cassese, S. (2013), per la sua critica del caso italiano. Del vasto dibattito italiano e internazionale sul tema, cito per tutti Bobbio, L. (“Le arene deliberative”, in Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, n.
3, 2002).
23 Cfr. Sabel, C.F. e Zeitlin, J. (2012) e Sabel. C. (2012).
24 Cfr. Judt, T. (2010), Ill Fares the Land, Penguin Press, Guasto è il mondo, (2011), Laterza.
25 Ovviamente, l’accantonamento non è stato integrale e, non solo in Europa continentale, ma anche nei paesi anglo-sassoni il modello socialdemocratico sopravvive, seppur indebolito, accanto al nuovo modello.
26 Per una rappresentazione della ricchezza del metodo socialdemocratico e dei suoi risultati e problemi, si veda il carteggio e confronto fra Willy Brandt, Bruno Kreisky e Olaf Palme in Brandt, W., Kreisky, B., Palme, O. (1976), Quale socialismo per l’Europa, Lerici. Notevole anche la prefazione di Gaetano Arfè.
27 Sull’infondatezza di questa ipotesi, cfr Rodrik, D. (2008), “Second-Best Institutions”, American Economic Review, Papers and Proceedings, Maggio.28 Per una franca esposizione di questa impostazione, cfr World Bank Development Report del 2009. Per un riconoscimento della sua infondatezza cfr. Acemoglou, D. (2009), “The Crisis of 2008: Structural Lessons for and from Economics”, CEPR Policy Insight, n.28. Questo mito e quello delle “istituzioni perfette”, nonché il loro superamento, sono discussi, nel contesto specifico delle politiche di sviluppo, in Barca, F. (2011), “Alternative Approaches to Development Policy: Intersections and Divergencies”, in OECD Regional Outlook.
29 Nel ragionamento e nelle aspirazioni dei rappresentanti più alti del modello socialdemocratico “propositi e proposte non sono mai concepiti – scrive Arfè nella premessa a Brandt, W., Kreisky, B., Palme, O. (1976), p.XV – in moduli di tecnocrazia efficientistica o paternalistica, ma in funzione dell’elevamento non soltanto della condizione di vita del lavoratore ma della capacità di partecipazione alla vita della società”.
30 Su questo punto e sul nesso decisivo fra innovazione e conflitto – nelle imprese, nel governo della cosa pubblica, nella politica – cfr. Seravalli, G. (2011), Conflitto e Innovazione, Egea.
31 Per questa argomentazione si veda Sabel, C. (2012).
32 Scrive ad esempio Brandt a Kreisky e Palme nel luglio 1973, citando Erhard Eppler in una lettera che rileva una ricerca profonda sul tema della “qualità della vita” che l’azione pubblica deve prendere a riferimento (così lontana dall’argomentare e fare delle attuali classi dirigenti europee). “Se riteniamo la libertà e la partecipazione alle decisioni una parte essenziale della qualità della vita, allora il metodo in base al quale determiniamo la qualità della vita è già una parte essenziale di essa … il processo democratico per la definizione e l’attuazione della qualità della vita è già una parte essenziale di essa” (in Brandt, W., Kreisky, B., Palme, O. (1976), p.67).
33 Cfr. ancora Sabel, C. (2012), p. 9.
34 Come scrive Sabel, C. (2012) secondo questa impostazione, il livello di governo federale o statale dà ai livelli di governo inferiori “la discrezionalità di perseguire l’obiettivo generale a loro modo, ma a condizione che essi elaborino … standard che specifichino gli obiettivi e fissino la metrica per misurare i progressi.” Sarà questa la base per valutare in itinere e decidere i cambiamenti (degli obiettivi, degli standard, delle regole).
35 Cfr. Cottica, A. (2010), Wikicrazia, Navarra Editore. Il libro esplora alcuni importanti esempi di creazione di questa cooperazione attraverso la rete, identificando quattro distinte finalità, tutte nella sfera dello sperimentalismo democratico (per una valutazione cfr. http://www.eticaeconomia.it/wikicrazia.html): assicurare banche dati aperte per apprendere, monitorare e valutare azioni pubbliche (ai casi considerati si è ora aggiunto il sito http://www.opencoesione.gov.it/ per le azioni pubbliche finanziate da fondi europei per la coesione); consentire una comunicazione fra istituzione pubblica e cittadini in merito alla missione della prima; offrire a realizzatori di soluzioni locali l’opportunità di apprendere errori e soluzioni di altri realizzatori di simili interventi; incentivare il gratuito contributo privato alla soluzione di problemi pubblici.
36 Conclusioni al Convegno dell’Eliseo del 15 gennaio 1977, ora in Berlinguer, E. (1977), Austerità occasione per trasformare l’Italia, Editori Riuniti, Roma. Miguel Gotor, nel ripubblicare questo testo e nel ricostruire il contesto storico in cui Berlinguer propose la strategia dell’austerità (cfr. Gotor, M. (2013), La passione non è finita, Einaudi, Torino), sostiene che la sua proposta ha “maggior attualità e interesse sul terreno dell’elaborazione culturale che non quella della politica economica”, osservando come essa colga la permanente, insostenibile tensione fra opulenza dei paesi avanzati e povertà del resto del mondo e la centralità della questione ambientale. In realtà, anche sul piano della politica economica, l’idea che l’azione pubblica frutto di un confronto pubblico aperto e appassionato possa condurre a eliminare “sprechi, sperperi e … particolarismi” – come scrive Berlinguer - nella produzione di beni pubblici e possa orientare la domanda di beni privati è intuizione assolutamente attuale. E’ in questa chiave, di politica dell’azione pubblica e non “moralistica”, che va riletto il consenso allora raccolto nell’area cattolica e laica.
37 Cfr. ancora Sabel, C. (2012).
38 Per questa tesi cfr ad esempio Casaleggio, G. e Grillo, B. (2011), Siamo in guerra. La rete contro i partiti. Chiarelettere, Milano. Per una sintesi della tesi e una loro critica, ripresa nel testo, cfr. Revelli, M. (2013). Cfr. anche Biorcio, R., Natale, P.
(2013) e Corbetta, P., Gualmini, E. (2013).
39 Cfr. ancora Cottica, A. (2010) e i suoi numerosi esempi di “contributo” in stile Wikepedia. Cfr. anche http://www.eticaeconomia.it/wikicrazia.html.
40 Cfr. ancora Revelli, M. (2013), pp.120-121.
41 Su questo punto cfr. anche Morozov, E. (2011), The Net delusion. The dark side of internet freedom, PublicAffairs; Morozov, E. (2011) L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet, Codice Edizioni, Torino.
42 Cfr. Rodrik, D. (2013), The Tyranny of Political Economy, [http://www.project-syndicate.org/commentary/how-economistskilled- policy-analysis-by-dani-rodrik]; La tirannide dell’conomia politica [http://www.project-syndicate.org/commentary/howeconomists- killed-policy-analysis-by-dani-rodrik/italian]. Rodrik riconosce che la lettura economicistica del comportamento politico esclusivamente in termini di interessi particolari ha oscurato il fatto che “i cambiamenti economici spesso avvengono non quando gli interessi particolari sono sconfitti, ma quando cambiano le strategie utilizzate per perseguirli”.
43 Si intendono qui, come in tutto il testo, in senso lato, gli eletti delle assemblee e i membri degli “esecutivi” di tutti i livelli di governo.
44 Cfr. Mastropaolo, A. (2012). Questa intuizione ha certo concorso al successo del movimento “5 stelle”, ma è stata da esso declinata sulla base dell’assunto che la rete possa sostituire i partiti.
45 Per questo termine, cfr. Revelli, M. (2012).
46 Cfr. Hunter, J.D. (2010) To Change the World, citato in Douthat, R. (2012), Bad Religion, Free Press. Hunter contrappone alla cultura forte una “cultura debole”, oggi prevalente, “sempre segnata dal risentimento per i propri nemici e insicura degli amici e volta indietro a guardare il passato migliore anziché in avanti al futuro”, una descrizione straordinariamente calzante per l’Italia dell’ultimo venticinquennio.
47 Pinelli, C. (2012) - “Parole Chiave” n.47 - scrive che “al di là di una certa retorica, [gli strumenti della democrazia deliberativa] presentano modalità di apprendimento e trasmissione del sapere che richiedono un profondo ripensamento dei paradigmi di organizzazione delle conoscenze nella sfera pubblica, e che nello stesso tempo potrebbero scardinare la stessa tradizionale dicotomia democrazia/tecnocrazia”, p. 148.
48 Cfr. ancora Pinelli, C. (2012).
50 I principi sono ricavati da Sen, A. (2009). Cfr. anche la sintesi in http://www.eticaeconomia.it/lidea-di-giustizia-di-amartyasen- sintesi-e-osservazioni-per-luso-quotidiano.html.
51 Cfr. Settis, S. (2012), Azione popolare. Cittadini per il bene comune, Einaudi, Torino.
52 Cfr. March, G. (1991) “Exploration and Exploitation in Organizational Learning”, in Organizatione Science, ripreso da Surowiecki, J. (2004), The Wisdom of Crowds; Surowiecki, J. (2007), La saggezza della folla, Internazionale Edizioni.
53 Occorre avere ben presente che la tendenza del partito a perseguire per i propri affiliati benefici particolari non è certo eliminata dalla trasformazione suggerita. Può esserlo solo come esito (non come incipit) di un processo più generale di rinnovamento del paese di cui il nuovo partito è peraltro necessario, punto di partenza.
54 Cfr. ancora Sen, A. (2009).