Tratto da: Arrigo Petacco, Joe Petrosino. Mondadori, Milano 2001, 12 aprile 2013
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Che fine hanno i quindici imputati del caso Petrosino?
Tratto da: Arrigo Petacco, Joe Petrosino. Mondadori, Milano 2001
Ma quale fu la sorte dei quindici personaggi che il questore Ceola aveva denunciato per concorso in omicidio, a conclusione della sua indagine sull’assassinio di Petrosino? Possiamo rispondere a questa domanda grazie anche a una documentata inchiesta del giornalista Nicola Volpes, pubblicata dal «Giornale di Sicilia» nel sessantesimo anniversario della morte del detective. Lasciamo per ultima la storia della «decadenza e caduta» di don Vito
Antonino Passananti, l’unico dei quindici che nel 1909 sfuggì all’arresto. Nell’aprile del 1911, pochi mesi prima che si concludesse il processo istruttorie, la polizia fece delle retate nella zona di Sciacca, dove si presumeva che egli fosse nascosto con il fratello Giuseppe e con Nicolò Lo Manto, fratello della sua fidanzata Rosalia. Passananti non fu trovato, ma si fece vivo poco tempo dopo a San Cipiriello, dove uccise per vendetta certo Calogero Vaccaro e ferì gravemente i fratelli di quest’ultimo, Natale e Salvatore. Per questo delitto egli fu condannato in contumacia a trent’anni, il 19 giugno 1912. Alcuni mesi dopo si ebbe un colpo di scena. In seguito a non si sa quali accordi, Antonino Passananti fece sapere che era disposto a costituirsi. E così fece, pretendendo che il delegato di Partinico, Augusto Battioni, andasse a rilevarlo in carrozza. Evidentemente, il Passananti sapeva cosa faceva quando decise di consegnarsi alla polizia. Quattro anni dopo, nell’agosto del 1916, malgrado la condanna all’ergastolo, era infatti rimesso in libertà. Le sue tracce si perdono poi per molti anni. Nel 1926 risulta denunciato in stato di irreperibilità per associazione a delinquere, falso e corruzione di pubblico ufficiale. Nel 1933 si rifà vivo per chiedere la restituzione di una Fiat 514 «torpedo», targata PA 6428, che gli era stata sequestrata. Nel 1934 gli viene ritirata la patente di guida perché pregiudicato per omicidio, falsificazione di passaporti, favoreggiamento di latitanti ecc. Segue ancora un lungo periodo di silenzio poi, nel 1961, all’età di ottantatré anni, Passananti riemerge dall’oblio per chiedere e ottenere il rilascio della patente di guida. Questa tanto desiderata patente gli sarà revocata, per motivi di salute, nel 1968. Ma qualche mese dopo, il 6 marzo 1969, una breve notizia di cronaca annuncia che «il pensionato Antonino Passananti si è ucciso nella sua casa di Partinico con un colpo di pistola alla tempia». E un cronista commenta: «È penoso pensare che si è tolto la vita quando stava per essere riammesso nella società». Passananti aveva infatti avviato le pratiche per la riabilitazione, e in un rapporto del commissario di Partinico si legge: «Non frequenta più elementi della malavita. Non è più da ritenersi individuo socialmente pericoloso». Aveva novant’anni.
Gaspare Tedeschi, amico di don Vito, ebbe momenti di alterna fortuna. Schedato come anarchico e poi come capomafia di Villafrati, Mezzojuso e Baucina, riuscì anche a farsi eleggere sindaco di Villafrati. Graziato da Mussolini nel 1926, gli inviò il seguente telegramma: «Oggi stesso scarcerato nella gioia di vedermi liberamente abbracciato dai miei figli, a Voi Duce rivolgo il mio primo pensiero. Pronti a immolarci per Voi e per le Vostre idee con fedeltà e devozione indelebile». In complesso. Tedeschi totalizzò dodici mandati di cattura per rapine, tre omicidi, incendi dolosi, estorsione, fabbricazione di monete false ecc. Nel 1950, poco prima della sua morte, fu condannato per furto di energia elettrica e di gas. Il viale del tramonto.
Giovanni Ruisi, rientrato dagli Stati Uniti nel 1908 perché espulso da Petrosino, espatriò ancora dopo il delitto. Risulta arrestato a Marsiglia, ad Algeri e a Tunisi. Nel 1920 è nuovamente a New York, membro influente della malavita locale. Rientrato definitivamente in Italia, aprì nel 1935 un negozio di macelleria a Palermo. Il suo metodo di lavoro era molto redditizio: portava via, senza che nessuno si opponesse, la carne che gli occorreva per il suo spaccio senza pagarla. L’ammontare veniva equamente ripartito fra gli altri compratori che pagavano una maggiorazione di venti centesimi al chilo.
Giovanni Battista Finazzo, classe 1879, era stato denunciato nel 1908 da Giuseppe Petrosino per l’omicidio di Epifanio Arcara, un emigrante trovato ucciso con trentadue pugnalate e mutilato degli organi genitali. Quando il detective giunse a Palermo, il processo era ancora aperto. Sarà assolto in contumacia dai giudici di New York nel 1910 per insufficienza di prove. Schedato dai carabinieri come «delinquente senza scrupoli al servizio della mafia», Finazzo, fra un reato e l’altro, riuscì a entrare nelle grazie del cardinale Alessandro Lualdi che lo chiamò a far parte della congregazione per l’erigendo santuario di Santa Rosalia sul monte Pellegrino.
Paolo Palazzotto non ha lasciato molte tracce di sé negli archivi della polizia. Abbrutito dall’alcol, passava di rissa in rissa. Morì nel 1958. Anche Pasquale Enea, deceduto nel 1951, non ha lasciato un fascicolo voluminoso. Risulta pregiudicato per gioco del lotto clandestino, lesioni, bancarotta, truffa, falso e violenza.
Giovanni Dazzò era anche lui un reduce di Little Italy. Pregiudicato per tentato omicidio, aveva un conto in sospeso con Petrosino che era più volte intervenuto, tra l’altro, per difendere dai suoi selvaggi maltrattamenti la moglie Fanny Favarino, ed era poi riuscito a farlo espellere dagli Stati Uniti.
Salvatore Seminara, Camillo e Francesco Perico, Giuseppe Fatta e Giuseppe Bonfardeci, non offrono motivi di particolare interesse. Tutti pregiudicati con un reato in comune, quello della fabbricazione di dollari falsi, erano vecchi compagni di Giuseppe Morello. Un solo particolare curioso: in un rapporto di polizia, Bonfardeci viene indicato come l’amico «preferito» di Paolo Palazzotto.
Carlo Costantino era nato a Partinico il 20 gennaio 1874. Sposato con Rosalia Casarubbia, dalla quale ebbe tre figli, convisse poi con una certa Carmela, dalla quale ebbe altri figli. I carabinieri scrissero di lui: «Innata tendenza a delinquere, all’ozio, alla vita dissoluta, al vagabondaggio». Risulta pregiudicato per associazione a delinquere, tentato omicidio, rapine, falsi, truffa ecc. Arrestato il 19 marzo per il delitto Petrosino, fu scarcerato il 13 novembre dello stesso 1909. In seguito si trasferì a Ravenna e poi a Bardonecchia, dove fu arrestato per una serie di truffe. Rinchiuso all’Ucciardone di Palermo, confidò al medico del carcere, dottar Di Liberto, di avere contratto la sifìlide all’età ditrent’anni e di aver conservato, in conseguenza delle cure, un ronzio alle orecchie e disturbi alla memoria. Nel 1932 fu deportato a Lampedusa e vi rimase quattro anni, organizzando nella colonia penale una mescita clandestina di alcolici. Tornato a Palermo, aprì un deposito di foraggi in via del Fervore. Morì poco tempo dopo in manicomio, roso dalla sifilide.
Prosciolto dall’accusa di avere ucciso Petrosino, Vito Cascio Ferro riprese indisturbato l’attività. La sua carriera fu splendida e diventò il più grande capo che la mafia abbia mai avuto. Ancora oggi, in Sicilia, il suo nome è famoso. Per circa quindici anni, egli «governò» la parte occidentale dell’isola senza incontrare il minimo ostacolo. Egli portò l’organizzazione ai massimi fastigi. Giunse a costituire una flottiglia di pescherecci per poter tranquillamente avviare sui mercati africani il bestiame rubato.
Don Vito governò soprattutto servendosi del suo naturale ascendente: ricorreva alla violenza, con spietata freddezza, solo quando era necessario. Invecchiando assunse modi quasi regali e, d’altra parte, era effettivamente una specie di re. I ricchi lo temevano, le masse dei contadini lo idolatravano; sapeva, infatti, con doni, beneficenza, riparazione di piccoli torti, conquistarsi stima e fiducia. Per questa ragione don Vito giunse ad avere, oltre all’obbedienza assoluta dei suoi mafiosi, l’incondizionato appoggio delle autorità. Sotto di lui i contadini stavano buoni, nessuno si azzardava a scioperare, e se qualche temerario sindacalista cercava di «sobillare i lavoratori», la lunga mano di don Vito lo raggiungeva prima dei carabinieri.
In quegli anni di grande fortuna, Vito Cascio Ferro non pensò, per la verità, ad arricchirsi, tutto preso com’era dall’eccitante esercizio del potere. Ebbe un figlio da un’amante (lui, nei verbali, la definisce amasia) che aveva assunto per accudire la moglie paralitica. Volle molto bene a questo ragazzo e lo fece studiare tenendolo lontano dal suo ambiente, con la tipica ambizione dei capi mafiosi di fare dei propri figli delle persone per bene.
Il suo regno cominciò a vacillare intorno al 1923. È di quell’anno la seguente segnalazione del sottoprefetto di Corleone al ministro dell’Interno: «È uno dei peggiori pregiudicati. Capacissimo di commettere ogni delitto. La gente onesta ne ha un sacro terrore. Reso forte dal fatto che sta a capo di una potente associazione delittuosa pronta a difenderlo in tutti i modi, si è dato al crimine con tutta dedizione. Io lo denunzio per il provvedimento dell’ammonizione. Purtroppo, a causa della triste piaga dell’omertà, nessuna persona, sia pure la più onesta e coraggiosa, verrà a deporre contro di lui. Una potente organizzazione criminale agisce dietro di lui ed è pronta a difenderlo, per cui niuno oserà mettersi nel rischio di buscarsi una fucilata per il gusto di testimoniare coscienziosamente...».
La segnalazione del sottoprefetto di Corleone non ebbe seguito. Nel 1924, infatti, il questore di Palermo non solo respinse la richiesta di ammonizione, ma, rifiutando anche soltanto di revocargli il porto d’armi, lo definì «ottimo cittadino, onesto, laborioso e rispettoso con le autorità».
Ma era il principio della fine. Dopo il 1924, con l’avvento della dittatura fascista, la mafia si trovò isolata, essendo venuta a perdere sia l’appoggio della classe politica, che aveva abdicato di fronte alla dittatura, sia quello della classe agraria, che ora, poiché il regime garantiva la «stabilità sociale», non aveva più bisogno degli «uomini di rispetto» per tenere a bada i contadini.
Nel maggio del 1925, Vito Cascio Ferro fu arrestato quale mandante, e Vito Campegna, di quarant’anni, da Frizzi, quale esecutore dell’assassinio di Francesco Falconieri e di Gioacchino Lo Voi, «colpevoli» di essersi ribellati alle imposizioni della mafia.
Anche per questo delitto, in altri tempi, don Vito se la sarebbe sicuramente cavata con un proscioglimento per insufficienza di indizi. E di fatto, non gli fu difficile ottenere la libertà su cauzione. Solo che, appena un anno dopo, giunse in Sicilia il prefetto Mori per dare inizio alla sua operazione antimafia. L’isola, com’è noto, fu messa praticamente a ferro e fuoco, molti innocenti pagarono insieme ai colpevoli e non si fece molta differenza fra nemici della legge e nemici del regime. Don Vito fu così nuovamente arrestato e inviato, dopo quattro anni di carcere preventivo, davanti alla Corte d’Assise di Agrigento con l’accusa di «correità morale» nel duplice omicidio. La Corte lo condannò, il 6 giugno 1930, all’ergastolo con nove anni di segregazione cellulare.
Poiché il fascismo aveva posto severissime restrizioni alla pubblicazione di notizie di cronaca nera, la stampa non fece il minimo accenno all’episodio. Ma a renderlo pubblico ci pensò il prefetto Mori. Egli voleva che tutti sapessero qual era stata la fine del potente don Vito e, alla maniera del Far West, fece stampare dei manifesti con la foto dell’imputato e il testo della sentenza, che furono poi affissi alle cantonate di tutta l’isola. Soltanto un giornale americano pubblicò la notizia della condanna dell’«assassino di Petrosino».
Secondo una diffusa leggenda, anche dal carcere don Vito continuò a esercitare una notevole influenza, ma probabilmente non è vero. Dall’Ucciardone, dove in effetti era riverito dagli altri detenuti (si dice che nella sua cella avesse scritto con la punta di un chiodo: «II carcere, la malattia e la povertà rivelano il cuore del vero amico»), egli fu molto presto trasferito a Portolongone e quindi alla casa penale di Pozzuoli, dove rimase per il resto dei suoi giorni.
Così come la vita, anche la morte di don Vito fu avvolta da un alone di mistero. Morì, come siamo riusciti a stabilire, nell’estate del 1943, all’età di ottantun anni; ma due anni dopo, nel 1945, risultava ufficialmente ancora vivo. In quell’anno, infatti, giunse sul tavolo del questore di Palermo la richiesta di grazia sovrana da lui avanzata molto tempo prima. E il questore la respinse con la seguente motivazione: «Potrebbe produrre. Fatto di clemenza, atti di rappresaglia da parte dei parenti delle persone che lui fece uccidere».
La spiegazione del singolare episodio va ricercata nella confusa situazione dell’estate del 1943. Crollato il fascismo, con l’esercito alleato che risaliva la penisola e le «fortezze volanti» che non davano tregua, le autorità carcerarie avevano ordinato lo sgombero del carcere di Pozzuoli, troppo esposto ai bombardamenti. In poche ore tutti i detenuti furono trasferiti, tranne uno: don Vito, che fu «dimenticato» nella sua cella.
Morì di sete e di terrore, nel penitenziario lugubre e deserto, come il «cattivo» di un vecchio romanzo d’appendice.
Ma quale fu la sorte dei quindici personaggi che il questore Ceola aveva denunciato per concorso in omicidio, a conclusione della sua indagine sull’assassinio di Petrosino? Possiamo rispondere a questa domanda grazie anche a una documentata inchiesta del giornalista Nicola Volpes, pubblicata dal «Giornale di Sicilia» nel sessantesimo anniversario della morte del detective. Lasciamo per ultima la storia della «decadenza e caduta» di don Vito
Antonino Passananti, l’unico dei quindici che nel 1909 sfuggì all’arresto. Nell’aprile del 1911, pochi mesi prima che si concludesse il processo istruttorie, la polizia fece delle retate nella zona di Sciacca, dove si presumeva che egli fosse nascosto con il fratello Giuseppe e con Nicolò Lo Manto, fratello della sua fidanzata Rosalia. Passananti non fu trovato, ma si fece vivo poco tempo dopo a San Cipiriello, dove uccise per vendetta certo Calogero Vaccaro e ferì gravemente i fratelli di quest’ultimo, Natale e Salvatore. Per questo delitto egli fu condannato in contumacia a trent’anni, il 19 giugno 1912. Alcuni mesi dopo si ebbe un colpo di scena. In seguito a non si sa quali accordi, Antonino Passananti fece sapere che era disposto a costituirsi. E così fece, pretendendo che il delegato di Partinico, Augusto Battioni, andasse a rilevarlo in carrozza. Evidentemente, il Passananti sapeva cosa faceva quando decise di consegnarsi alla polizia. Quattro anni dopo, nell’agosto del 1916, malgrado la condanna all’ergastolo, era infatti rimesso in libertà. Le sue tracce si perdono poi per molti anni. Nel 1926 risulta denunciato in stato di irreperibilità per associazione a delinquere, falso e corruzione di pubblico ufficiale. Nel 1933 si rifà vivo per chiedere la restituzione di una Fiat 514 «torpedo», targata PA 6428, che gli era stata sequestrata. Nel 1934 gli viene ritirata la patente di guida perché pregiudicato per omicidio, falsificazione di passaporti, favoreggiamento di latitanti ecc. Segue ancora un lungo periodo di silenzio poi, nel 1961, all’età di ottantatré anni, Passananti riemerge dall’oblio per chiedere e ottenere il rilascio della patente di guida. Questa tanto desiderata patente gli sarà revocata, per motivi di salute, nel 1968. Ma qualche mese dopo, il 6 marzo 1969, una breve notizia di cronaca annuncia che «il pensionato Antonino Passananti si è ucciso nella sua casa di Partinico con un colpo di pistola alla tempia». E un cronista commenta: «È penoso pensare che si è tolto la vita quando stava per essere riammesso nella società». Passananti aveva infatti avviato le pratiche per la riabilitazione, e in un rapporto del commissario di Partinico si legge: «Non frequenta più elementi della malavita. Non è più da ritenersi individuo socialmente pericoloso». Aveva novant’anni.
Gaspare Tedeschi, amico di don Vito, ebbe momenti di alterna fortuna. Schedato come anarchico e poi come capomafia di Villafrati, Mezzojuso e Baucina, riuscì anche a farsi eleggere sindaco di Villafrati. Graziato da Mussolini nel 1926, gli inviò il seguente telegramma: «Oggi stesso scarcerato nella gioia di vedermi liberamente abbracciato dai miei figli, a Voi Duce rivolgo il mio primo pensiero. Pronti a immolarci per Voi e per le Vostre idee con fedeltà e devozione indelebile». In complesso. Tedeschi totalizzò dodici mandati di cattura per rapine, tre omicidi, incendi dolosi, estorsione, fabbricazione di monete false ecc. Nel 1950, poco prima della sua morte, fu condannato per furto di energia elettrica e di gas. Il viale del tramonto.
Giovanni Ruisi, rientrato dagli Stati Uniti nel 1908 perché espulso da Petrosino, espatriò ancora dopo il delitto. Risulta arrestato a Marsiglia, ad Algeri e a Tunisi. Nel 1920 è nuovamente a New York, membro influente della malavita locale. Rientrato definitivamente in Italia, aprì nel 1935 un negozio di macelleria a Palermo. Il suo metodo di lavoro era molto redditizio: portava via, senza che nessuno si opponesse, la carne che gli occorreva per il suo spaccio senza pagarla. L’ammontare veniva equamente ripartito fra gli altri compratori che pagavano una maggiorazione di venti centesimi al chilo.
Giovanni Battista Finazzo, classe 1879, era stato denunciato nel 1908 da Giuseppe Petrosino per l’omicidio di Epifanio Arcara, un emigrante trovato ucciso con trentadue pugnalate e mutilato degli organi genitali. Quando il detective giunse a Palermo, il processo era ancora aperto. Sarà assolto in contumacia dai giudici di New York nel 1910 per insufficienza di prove. Schedato dai carabinieri come «delinquente senza scrupoli al servizio della mafia», Finazzo, fra un reato e l’altro, riuscì a entrare nelle grazie del cardinale Alessandro Lualdi che lo chiamò a far parte della congregazione per l’erigendo santuario di Santa Rosalia sul monte Pellegrino.
Paolo Palazzotto non ha lasciato molte tracce di sé negli archivi della polizia. Abbrutito dall’alcol, passava di rissa in rissa. Morì nel 1958. Anche Pasquale Enea, deceduto nel 1951, non ha lasciato un fascicolo voluminoso. Risulta pregiudicato per gioco del lotto clandestino, lesioni, bancarotta, truffa, falso e violenza.
Giovanni Dazzò era anche lui un reduce di Little Italy. Pregiudicato per tentato omicidio, aveva un conto in sospeso con Petrosino che era più volte intervenuto, tra l’altro, per difendere dai suoi selvaggi maltrattamenti la moglie Fanny Favarino, ed era poi riuscito a farlo espellere dagli Stati Uniti.
Salvatore Seminara, Camillo e Francesco Perico, Giuseppe Fatta e Giuseppe Bonfardeci, non offrono motivi di particolare interesse. Tutti pregiudicati con un reato in comune, quello della fabbricazione di dollari falsi, erano vecchi compagni di Giuseppe Morello. Un solo particolare curioso: in un rapporto di polizia, Bonfardeci viene indicato come l’amico «preferito» di Paolo Palazzotto.
Carlo Costantino era nato a Partinico il 20 gennaio 1874. Sposato con Rosalia Casarubbia, dalla quale ebbe tre figli, convisse poi con una certa Carmela, dalla quale ebbe altri figli. I carabinieri scrissero di lui: «Innata tendenza a delinquere, all’ozio, alla vita dissoluta, al vagabondaggio». Risulta pregiudicato per associazione a delinquere, tentato omicidio, rapine, falsi, truffa ecc. Arrestato il 19 marzo per il delitto Petrosino, fu scarcerato il 13 novembre dello stesso 1909. In seguito si trasferì a Ravenna e poi a Bardonecchia, dove fu arrestato per una serie di truffe. Rinchiuso all’Ucciardone di Palermo, confidò al medico del carcere, dottar Di Liberto, di avere contratto la sifìlide all’età ditrent’anni e di aver conservato, in conseguenza delle cure, un ronzio alle orecchie e disturbi alla memoria. Nel 1932 fu deportato a Lampedusa e vi rimase quattro anni, organizzando nella colonia penale una mescita clandestina di alcolici. Tornato a Palermo, aprì un deposito di foraggi in via del Fervore. Morì poco tempo dopo in manicomio, roso dalla sifilide.
Prosciolto dall’accusa di avere ucciso Petrosino, Vito Cascio Ferro riprese indisturbato l’attività. La sua carriera fu splendida e diventò il più grande capo che la mafia abbia mai avuto. Ancora oggi, in Sicilia, il suo nome è famoso. Per circa quindici anni, egli «governò» la parte occidentale dell’isola senza incontrare il minimo ostacolo. Egli portò l’organizzazione ai massimi fastigi. Giunse a costituire una flottiglia di pescherecci per poter tranquillamente avviare sui mercati africani il bestiame rubato.
Don Vito governò soprattutto servendosi del suo naturale ascendente: ricorreva alla violenza, con spietata freddezza, solo quando era necessario. Invecchiando assunse modi quasi regali e, d’altra parte, era effettivamente una specie di re. I ricchi lo temevano, le masse dei contadini lo idolatravano; sapeva, infatti, con doni, beneficenza, riparazione di piccoli torti, conquistarsi stima e fiducia. Per questa ragione don Vito giunse ad avere, oltre all’obbedienza assoluta dei suoi mafiosi, l’incondizionato appoggio delle autorità. Sotto di lui i contadini stavano buoni, nessuno si azzardava a scioperare, e se qualche temerario sindacalista cercava di «sobillare i lavoratori», la lunga mano di don Vito lo raggiungeva prima dei carabinieri.
In quegli anni di grande fortuna, Vito Cascio Ferro non pensò, per la verità, ad arricchirsi, tutto preso com’era dall’eccitante esercizio del potere. Ebbe un figlio da un’amante (lui, nei verbali, la definisce amasia) che aveva assunto per accudire la moglie paralitica. Volle molto bene a questo ragazzo e lo fece studiare tenendolo lontano dal suo ambiente, con la tipica ambizione dei capi mafiosi di fare dei propri figli delle persone per bene.
Il suo regno cominciò a vacillare intorno al 1923. È di quell’anno la seguente segnalazione del sottoprefetto di Corleone al ministro dell’Interno: «È uno dei peggiori pregiudicati. Capacissimo di commettere ogni delitto. La gente onesta ne ha un sacro terrore. Reso forte dal fatto che sta a capo di una potente associazione delittuosa pronta a difenderlo in tutti i modi, si è dato al crimine con tutta dedizione. Io lo denunzio per il provvedimento dell’ammonizione. Purtroppo, a causa della triste piaga dell’omertà, nessuna persona, sia pure la più onesta e coraggiosa, verrà a deporre contro di lui. Una potente organizzazione criminale agisce dietro di lui ed è pronta a difenderlo, per cui niuno oserà mettersi nel rischio di buscarsi una fucilata per il gusto di testimoniare coscienziosamente...».
La segnalazione del sottoprefetto di Corleone non ebbe seguito. Nel 1924, infatti, il questore di Palermo non solo respinse la richiesta di ammonizione, ma, rifiutando anche soltanto di revocargli il porto d’armi, lo definì «ottimo cittadino, onesto, laborioso e rispettoso con le autorità».
Ma era il principio della fine. Dopo il 1924, con l’avvento della dittatura fascista, la mafia si trovò isolata, essendo venuta a perdere sia l’appoggio della classe politica, che aveva abdicato di fronte alla dittatura, sia quello della classe agraria, che ora, poiché il regime garantiva la «stabilità sociale», non aveva più bisogno degli «uomini di rispetto» per tenere a bada i contadini.
Nel maggio del 1925, Vito Cascio Ferro fu arrestato quale mandante, e Vito Campegna, di quarant’anni, da Frizzi, quale esecutore dell’assassinio di Francesco Falconieri e di Gioacchino Lo Voi, «colpevoli» di essersi ribellati alle imposizioni della mafia.
Anche per questo delitto, in altri tempi, don Vito se la sarebbe sicuramente cavata con un proscioglimento per insufficienza di indizi. E di fatto, non gli fu difficile ottenere la libertà su cauzione. Solo che, appena un anno dopo, giunse in Sicilia il prefetto Mori per dare inizio alla sua operazione antimafia. L’isola, com’è noto, fu messa praticamente a ferro e fuoco, molti innocenti pagarono insieme ai colpevoli e non si fece molta differenza fra nemici della legge e nemici del regime. Don Vito fu così nuovamente arrestato e inviato, dopo quattro anni di carcere preventivo, davanti alla Corte d’Assise di Agrigento con l’accusa di «correità morale» nel duplice omicidio. La Corte lo condannò, il 6 giugno 1930, all’ergastolo con nove anni di segregazione cellulare.
Poiché il fascismo aveva posto severissime restrizioni alla pubblicazione di notizie di cronaca nera, la stampa non fece il minimo accenno all’episodio. Ma a renderlo pubblico ci pensò il prefetto Mori. Egli voleva che tutti sapessero qual era stata la fine del potente don Vito e, alla maniera del Far West, fece stampare dei manifesti con la foto dell’imputato e il testo della sentenza, che furono poi affissi alle cantonate di tutta l’isola. Soltanto un giornale americano pubblicò la notizia della condanna dell’«assassino di Petrosino».
Secondo una diffusa leggenda, anche dal carcere don Vito continuò a esercitare una notevole influenza, ma probabilmente non è vero. Dall’Ucciardone, dove in effetti era riverito dagli altri detenuti (si dice che nella sua cella avesse scritto con la punta di un chiodo: «II carcere, la malattia e la povertà rivelano il cuore del vero amico»), egli fu molto presto trasferito a Portolongone e quindi alla casa penale di Pozzuoli, dove rimase per il resto dei suoi giorni.
Così come la vita, anche la morte di don Vito fu avvolta da un alone di mistero. Morì, come siamo riusciti a stabilire, nell’estate del 1943, all’età di ottantun anni; ma due anni dopo, nel 1945, risultava ufficialmente ancora vivo. In quell’anno, infatti, giunse sul tavolo del questore di Palermo la richiesta di grazia sovrana da lui avanzata molto tempo prima. E il questore la respinse con la seguente motivazione: «Potrebbe produrre. Fatto di clemenza, atti di rappresaglia da parte dei parenti delle persone che lui fece uccidere».
La spiegazione del singolare episodio va ricercata nella confusa situazione dell’estate del 1943. Crollato il fascismo, con l’esercito alleato che risaliva la penisola e le «fortezze volanti» che non davano tregua, le autorità carcerarie avevano ordinato lo sgombero del carcere di Pozzuoli, troppo esposto ai bombardamenti. In poche ore tutti i detenuti furono trasferiti, tranne uno: don Vito, che fu «dimenticato» nella sua cella.
Morì di sete e di terrore, nel penitenziario lugubre e deserto, come il «cattivo» di un vecchio romanzo d’appendice.
Arrigo Petacco