Tratto da: Arrigo Petacco, Joe Petrosino. Mondadori, Milano 2001, 12 aprile 2013
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Il colloquio tra Petrosino e il questore di Palermo Baldassarre Ceola (del 6/3/1909)
Tratto da: Arrigo Petacco, Joe Petrosino. Mondadori, Milano 2001
Venerdì mattina 6 marzo, alle 11, quando l’usciere gli annunciò la visita di uno sconosciuto che veniva a nome del console americano, il commendator Ceola era di buonumore. La prima tornata elettorale si era risolta in modo favorevole per i candidati governativi e il ballottaggio della domenica successiva avrebbe confermato tale successo. L’onorevole Giolitti, che era nello stesso tempo capo del governo e ministro dell’Interno, si sarebbe sicuramente felicitato con lui. Pochi minuti dopo, Petrosino era nel suo studio. Appena letta la lettera di presentazione di Bishop e quella del capo della polizia Leonardi, Baldassarre Ceola salutò molto calorosamente il nuovo venuto.
«Ho sentito molto parlare di voi» gli disse poi. «In che
cosa posso esservi utile?»
«Sono incaricato dal mio governo di verificare se i passaporti agli emigranti vengono rilasciati in conformità alle leggi» spiegò Petrosino. «Troppi delinquenti giungono nel mio paese dalla Sicilia. Noi siamo stanchi di questo.»
Ceola avvertì il rimprovero implicito nelle parole del
suo interlocutore.
«I passaporti rilasciati da questa questura sono sempre in regola con la legge» ribattè secco.
«Allora perché molti criminali da me arrestati, pur essendo pregiudicati, presentavano certificati penali perfettamente puliti?»
«Forse perché erano stati riabilitati» osservò Ceola. «Voi saprete cos’è l’istituto della riabilitazione, immagino.»
«No. Non so niente di questo. So soltanto che voi ci mandate dei malviventi con tanto di fedina pulita. È proprio questo strano sistema che il mio governo intende eliminare.»
«Io mi resi subito conto» scriverà in seguito Baldassarre Ceola al prefetto «che il signor tenente Petrosino non era per sua sfortuna dotato di molta cultura. Fra l’altro ignorava i regolamenti nostri, e così gli spiegai cos’era l’istituto della riabilitazione...» Ma non gli spiegò, naturalmente, che si era soliti «riabilitare» i criminali e i mafiosi proprio quando chiedevano un passaporto per l’America.
Fin dalle prime battute del colloquio, Petrosino provò ostilità e diffidenza per quel distinto funzionario che lo trattava con una certa aria di paternalistica superiorità. E i suoi sospetti verso la polizia italiana si acuirono.
«In ogni modo» gli stava intanto dicendo il questore Ceola «ritenetemi a vostra disposizione. Anzi, darò ordine subito che vi sia affidata una scorta personale.»
Petrosino scosse energicamente la testa. «Grazie, ma non desidero essere scortato.»
«Ma sarà pericoloso per voi girare solo per Palermo!» esclamò l’altro. «Siete troppo conosciuto. I giornali hanno annunciato il vostro arrivo in Italia e chissà quanti nemici contate in questa città.»
«Ho anche degli amici a Palermo, signor questore» ribattè Petrosino con sussiego. «Basteranno loro a proteggermi.»
«Invidio la vostra sicurezza, tenente» tagliò corto Coela, che cominciava a seccarsi per la manifesta diffidenza del poliziotto. «Posso comunque sapere dove abitate?»
«Non intendo rivelarlo» fu la risposta. «Potrete cercarmi presso il consolato del mio paese.»
Baldassarre Ceola, a questo punto, chiamò l’usciere e gli disse di pregare il cavalier Poli, comandante della Brigata Mobile, di raggiungerlo subito.
«Il cavalier Poli» spiegò Ceola a Petrosino quando il commissario sopraggiunse «è un ottimo funzionario. Per qualsiasi cosa potrete prendere contatto con lui. E ora, se volete scusarmi, ho altre cose da fare.»
Il questore era chiaramente infastidito.
Petrosino e Poli si recarono a conversare in un’altra stanza. Neanche a Poli, tuttavia, il detective volle dare il suo recapito.
«Verrò io a cercarvi quando avrò bisogno di consultarvi» gli disse. E se ne andò.
Più tardi, l’altro si recò a riferire al suo superiore.
«Ho l’impressione che non si fidi assolutamente di noi» commentò. «Sono soltanto riuscito a farmi promettere che non lascerà Palermo senza avvertirmi».
Baldassarre Ceola alzò le spalle: «Lasciatelo fare, ma non perdetelo troppo di vista».
Nei giorni che seguirono, Petrosino s’incontrò alcune volte con Poli fissandogli degli appuntamenti a mezzo lettera, ma non volle mai tornare in questura. Questi incontri furono essenzialmente tecnici, e fra i due non si stabilì il minimo rapporto di amicizia. Petrosino forniva a Poli dei ragguagli sulle indagini svolte e gli chiedeva ulteriori dettagli sui pregiudicati di cui si stava occupando.
Il cavalier Poli si rese subito conto che il collega americano doveva disporre di un certo numero d’informatori, alcuni dei quali dovevano essere personaggi altolocati. Infatti, certe notizie delicate in possesso di Petrosino potevano essere state raccolte solo da persone che disponevano di autorevoli entrature negli ambienti giudiziari. Poli confidò anche a Ceola di nutrire timori per l’incolumità del detective, che si mostrava così temerario da avventurarsi anche di notte nei quartieri più malfamati di Palermo, dove aveva misteriosi conciliaboli con degli sconosciuti.
«Il tenente Petrosino» scriverà Ceola più tardi nel suo rapporto a Giolitti «frequentava i centri più pericolosi della malavita, si metteva in relazione, senza averne bisogno, con diverse persone addette a pubblici uffici, parlava troppo, spesso e volentieri anche col personale del Caffè Oreto dove prendeva i pasti, portava addosso buona parte dei suoi appunti e della sua corrispondenza: in una parola, mentre con la questura e con lo stesso suo console mostravasi di una riservatezza spinta all’eccesso, non usò fuori, in tutti i suoi atti, quella elementare prudenza che si rendeva assolutamente necessaria non solo a salvaguardia della sua vita, ma altresì alla riuscita del delicato servizio che si era assunto. Seguiva in tutto il pregiudizio di coloro fra i siciliani che credono di essere meglio protetti rivolgendosi anziché alle autorità e alla giustizia, a qualche noto e temuto delinquente che eserciti autorità e influenza nella malavita.»
Venerdì mattina 6 marzo, alle 11, quando l’usciere gli annunciò la visita di uno sconosciuto che veniva a nome del console americano, il commendator Ceola era di buonumore. La prima tornata elettorale si era risolta in modo favorevole per i candidati governativi e il ballottaggio della domenica successiva avrebbe confermato tale successo. L’onorevole Giolitti, che era nello stesso tempo capo del governo e ministro dell’Interno, si sarebbe sicuramente felicitato con lui. Pochi minuti dopo, Petrosino era nel suo studio. Appena letta la lettera di presentazione di Bishop e quella del capo della polizia Leonardi, Baldassarre Ceola salutò molto calorosamente il nuovo venuto.
«Ho sentito molto parlare di voi» gli disse poi. «In che
cosa posso esservi utile?»
«Sono incaricato dal mio governo di verificare se i passaporti agli emigranti vengono rilasciati in conformità alle leggi» spiegò Petrosino. «Troppi delinquenti giungono nel mio paese dalla Sicilia. Noi siamo stanchi di questo.»
Ceola avvertì il rimprovero implicito nelle parole del
suo interlocutore.
«I passaporti rilasciati da questa questura sono sempre in regola con la legge» ribattè secco.
«Allora perché molti criminali da me arrestati, pur essendo pregiudicati, presentavano certificati penali perfettamente puliti?»
«Forse perché erano stati riabilitati» osservò Ceola. «Voi saprete cos’è l’istituto della riabilitazione, immagino.»
«No. Non so niente di questo. So soltanto che voi ci mandate dei malviventi con tanto di fedina pulita. È proprio questo strano sistema che il mio governo intende eliminare.»
«Io mi resi subito conto» scriverà in seguito Baldassarre Ceola al prefetto «che il signor tenente Petrosino non era per sua sfortuna dotato di molta cultura. Fra l’altro ignorava i regolamenti nostri, e così gli spiegai cos’era l’istituto della riabilitazione...» Ma non gli spiegò, naturalmente, che si era soliti «riabilitare» i criminali e i mafiosi proprio quando chiedevano un passaporto per l’America.
Fin dalle prime battute del colloquio, Petrosino provò ostilità e diffidenza per quel distinto funzionario che lo trattava con una certa aria di paternalistica superiorità. E i suoi sospetti verso la polizia italiana si acuirono.
«In ogni modo» gli stava intanto dicendo il questore Ceola «ritenetemi a vostra disposizione. Anzi, darò ordine subito che vi sia affidata una scorta personale.»
Petrosino scosse energicamente la testa. «Grazie, ma non desidero essere scortato.»
«Ma sarà pericoloso per voi girare solo per Palermo!» esclamò l’altro. «Siete troppo conosciuto. I giornali hanno annunciato il vostro arrivo in Italia e chissà quanti nemici contate in questa città.»
«Ho anche degli amici a Palermo, signor questore» ribattè Petrosino con sussiego. «Basteranno loro a proteggermi.»
«Invidio la vostra sicurezza, tenente» tagliò corto Coela, che cominciava a seccarsi per la manifesta diffidenza del poliziotto. «Posso comunque sapere dove abitate?»
«Non intendo rivelarlo» fu la risposta. «Potrete cercarmi presso il consolato del mio paese.»
Baldassarre Ceola, a questo punto, chiamò l’usciere e gli disse di pregare il cavalier Poli, comandante della Brigata Mobile, di raggiungerlo subito.
«Il cavalier Poli» spiegò Ceola a Petrosino quando il commissario sopraggiunse «è un ottimo funzionario. Per qualsiasi cosa potrete prendere contatto con lui. E ora, se volete scusarmi, ho altre cose da fare.»
Il questore era chiaramente infastidito.
Petrosino e Poli si recarono a conversare in un’altra stanza. Neanche a Poli, tuttavia, il detective volle dare il suo recapito.
«Verrò io a cercarvi quando avrò bisogno di consultarvi» gli disse. E se ne andò.
Più tardi, l’altro si recò a riferire al suo superiore.
«Ho l’impressione che non si fidi assolutamente di noi» commentò. «Sono soltanto riuscito a farmi promettere che non lascerà Palermo senza avvertirmi».
Baldassarre Ceola alzò le spalle: «Lasciatelo fare, ma non perdetelo troppo di vista».
Nei giorni che seguirono, Petrosino s’incontrò alcune volte con Poli fissandogli degli appuntamenti a mezzo lettera, ma non volle mai tornare in questura. Questi incontri furono essenzialmente tecnici, e fra i due non si stabilì il minimo rapporto di amicizia. Petrosino forniva a Poli dei ragguagli sulle indagini svolte e gli chiedeva ulteriori dettagli sui pregiudicati di cui si stava occupando.
Il cavalier Poli si rese subito conto che il collega americano doveva disporre di un certo numero d’informatori, alcuni dei quali dovevano essere personaggi altolocati. Infatti, certe notizie delicate in possesso di Petrosino potevano essere state raccolte solo da persone che disponevano di autorevoli entrature negli ambienti giudiziari. Poli confidò anche a Ceola di nutrire timori per l’incolumità del detective, che si mostrava così temerario da avventurarsi anche di notte nei quartieri più malfamati di Palermo, dove aveva misteriosi conciliaboli con degli sconosciuti.
«Il tenente Petrosino» scriverà Ceola più tardi nel suo rapporto a Giolitti «frequentava i centri più pericolosi della malavita, si metteva in relazione, senza averne bisogno, con diverse persone addette a pubblici uffici, parlava troppo, spesso e volentieri anche col personale del Caffè Oreto dove prendeva i pasti, portava addosso buona parte dei suoi appunti e della sua corrispondenza: in una parola, mentre con la questura e con lo stesso suo console mostravasi di una riservatezza spinta all’eccesso, non usò fuori, in tutti i suoi atti, quella elementare prudenza che si rendeva assolutamente necessaria non solo a salvaguardia della sua vita, ma altresì alla riuscita del delicato servizio che si era assunto. Seguiva in tutto il pregiudizio di coloro fra i siciliani che credono di essere meglio protetti rivolgendosi anziché alle autorità e alla giustizia, a qualche noto e temuto delinquente che eserciti autorità e influenza nella malavita.»