la Repubblica, lunedì 18 marzo 2013, 19 marzo 2013
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Intervista a Bergoglio sulla crisi argentina (del 18/3/2013)
la Repubblica, lunedì 18 marzo 2013
Nel 2001 la crisi economica in Argentina toccò il fondo. Ce ne ricordiamo bene anche in Italia, dove i risparmiatori che avevano investito nei “tango bond” si ritrovarono con un pugno di mosche. La crisi provocò, naturalmente, anche agitazione sociale e manifestazioni popolari.
L’immagine della crisi che il cardinal Bergoglio, però, in quei dolorosi momenti ha sempre davanti agli occhi non è quella chiassosa e arrabbiata del cacerolazo in piazza, ma quella intima e piena di dignità umiliata delle madri e dei padri che piangono di notte, quando i bambini dormono e nessuno li vede: «Piangono come quando erano bambini e la madre li consolava». Davanti a un popolo strangolato dai meccanismi anonimi e perversi dell’economia speculativa, anche lui, che passa per essere una persona mite e riservata, arriva ad usare parole taglienti.
Eminenza, che cos’è successo in Argentina in questo inizio di millennio?
«La Conferenza episcopale ha descritto nella lettera al popolo di Dio pubblicata il 17 novembre 2001 i tanti aspetti di questa crisi inedita: la dilapidazione del denaro del popolo, il liberalismo estremo mediante la tirannia del mercato, l’evasione fiscale, la mancanza di rispetto della legge, la perdita del senso del lavoro. In una parola, una corruzione generalizzata che mina la coesione della nazione».
Quella argentina appare anche come una crisi del modello economico che si era imposto lungo gli ultimi due decenni.
«C’è stato in questo tempo un vero terrorismo economico-finanziario. Che ha prodotto effetti facilmente registrabili, come l’aumento dei ricchi, l’aumento dei poveri e la drastica riduzione della classe media. E altri meno congiunturali, come il disastro nel campo dell’educazione. In questo momento, a Buenos Aires e dintorni ci sono due milioni di giovani che non studiano né lavorano. Davanti al modo barbaro in cui si è compiuta in Argentina la globalizzazione, la Chiesa di questo paese si è sempre rifatta alle indicazioni del magistero. I nostri punti di riferimento sono, ad esempio, i criteri esposti con chiarezza nell’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Ecclesia in America».
Ha citato il magistero. Settant’anni fa, nell’enciclica Quadragesimo anno, scritta poco dopo la crisi delle Borse del ’29, Pio XI aveva definito «imperialismo internazionale del denaro» il modello di economia speculativa capace di impoverire all’istante milioni di famiglie. Applicherebbe quella definizione all’Argentina di oggi?
«È una formula che non perde mai di attualità, e contiene una radice biblica. Quando Mosè sale al monte per ricevere la legge di Dio, il popolo pecca d’idolatria fabbricando il vitello d’oro. Anche l’attuale imperialismo del denaro mostra un inequivocabile volto idolatrico. E dove c’è idolatria, si cancellano Dio e la dignità dell’uomo. L’economia speculativa non ha più bisogno neppure del lavoro, non sa che farsene del lavoro. Insegue l’idolo del denaro che si produce da se stesso. Per questo non si hanno remore nel trasformare in disoccupati milioni di lavoratori».
In qualità di pastore, come considera il ruolo svolto dalla comunità internazionale e dagli organismi finanziari centrali nella crisi argentina?
«Non mi sembra che pongano al centro della loro riflessione l’essere umano, nonostante le belle parole. Indicano sempre ai governi le loro rigide direttive, parlano sempre di etica, di trasparenza, ma mi appaiono come dei moralisti senza bontà».
La Chiesa è interessata in diversi modi dalla crisi argentina. Quali criteri guidano la sua azione?
«In questo tentativo comune di uscire dalla crisi si tiene presente quanto insegna la Tradizione della chiesa, che riconosce l’oppressione del povero e la frode nel salario agli operai come due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Queste due formule tradizionali hanno una totale attualità nel magistero dell’episcopato argentino. Siamo stanchi di sistemi che producono i poveri perché poi la Chiesa li mantenga».
Il coinvolgimento della Chiesa nella crisi si esprime soprattutto in aiuto concreto, materiale.
«Alle fasce più bisognose arriva solo un quaranta per cento delle risorse a esse destinate dallo Stato, il resto si perde per strada. Ci sono tangenti. La Chiesa ha già aperto nelle parrocchie una rete capillare di mense per i bambini e per la gente sempre più numerosa che vive sulla strada».
La gerarchia cattolica ha anche accettato di sedere al tavolo della riconciliazione. Ma si è guardata dall’assumere un ruolo di entità moralmente superiore. «Abbiamo peccato tutti», ha detto il presidente della Conferenza episcopale, Estanislao Esteban Karlic.
«Siamo parte del nostro popolo. Partecipiamo con esso del peccato e della grazia. Possiamo annunciare la gratuità del dono di Dio solo se abbiamo sperimentato tale gratuità nel perdono dei nostri peccati. Nel 2000 la Chiesa argentina ha fatto, anche pubblicamente, un periodo di penitenza e di richiesta di perdono alla società, pure in riferimento agli anni della dittatura. Nessun settore della società argentina ha chiesto perdono allo stesso modo».
Nell’ampia partecipazione ecclesiale al dialogo nazionale non c’è il rischio di protagonismo, o di snaturare l’immagine della Chiesa, facendone un’agenzia di consenso che fornisce il collante culturale all’identità nazionale?
«La Chiesa ha fatto solo le dichiarazioni necessarie, invitando sempre a cercare un dialogo tra le parti della società. Ma, come è scritto nel documento della Conferenza episcopale del 14 gennaio, “il dialogo tra gli argentini è stato convocato dal presidente della nazione per riunire i settori rappresentativi di tutto il paese […]. La Chiesa, come istituzione, non partecipa come un membro in più, ma come chi offre uno spazio di incontro”. Questo è bene che sia chiaro. Il dialogo non lo convoca la Chiesa né lo conduce la Chiesa. Lo ha convocato e lo porta avanti il presidente, con l’assistenza tecnica delle Nazioni Unite. La Chiesa offre l’ambito per il dialogo, come uno che offre la casa perché due fratelli si incontrino per riconciliarsi. Ma non è una lobby che interviene nel dialogo a fianco di altri gruppi di pressione».
La classe dirigente si trova in un totale discredito. Sembrerebbe aver ragione chi teorizza l’eliminazione della politica e la destrutturazione dello Stato.
«Bisogna rivendicare l’importanza della politica, anche se i politici l’hanno screditata, perché, come diceva Paolo VI, può essere una delle forme più alte della carità».
Come andrà a finire?
«Credo nei miracoli. E l’Argentina ha un popolo grande e bello. Queste risorse spirituali che conserva il nostro popolo già sono un principio di miracolo. E sono d’accordo con il Manzoni, che dice: “Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene”. Io mi aspetto che finisca bene».
Nel 2001 la crisi economica in Argentina toccò il fondo. Ce ne ricordiamo bene anche in Italia, dove i risparmiatori che avevano investito nei “tango bond” si ritrovarono con un pugno di mosche. La crisi provocò, naturalmente, anche agitazione sociale e manifestazioni popolari.
L’immagine della crisi che il cardinal Bergoglio, però, in quei dolorosi momenti ha sempre davanti agli occhi non è quella chiassosa e arrabbiata del cacerolazo in piazza, ma quella intima e piena di dignità umiliata delle madri e dei padri che piangono di notte, quando i bambini dormono e nessuno li vede: «Piangono come quando erano bambini e la madre li consolava». Davanti a un popolo strangolato dai meccanismi anonimi e perversi dell’economia speculativa, anche lui, che passa per essere una persona mite e riservata, arriva ad usare parole taglienti.
Eminenza, che cos’è successo in Argentina in questo inizio di millennio?
«La Conferenza episcopale ha descritto nella lettera al popolo di Dio pubblicata il 17 novembre 2001 i tanti aspetti di questa crisi inedita: la dilapidazione del denaro del popolo, il liberalismo estremo mediante la tirannia del mercato, l’evasione fiscale, la mancanza di rispetto della legge, la perdita del senso del lavoro. In una parola, una corruzione generalizzata che mina la coesione della nazione».
Quella argentina appare anche come una crisi del modello economico che si era imposto lungo gli ultimi due decenni.
«C’è stato in questo tempo un vero terrorismo economico-finanziario. Che ha prodotto effetti facilmente registrabili, come l’aumento dei ricchi, l’aumento dei poveri e la drastica riduzione della classe media. E altri meno congiunturali, come il disastro nel campo dell’educazione. In questo momento, a Buenos Aires e dintorni ci sono due milioni di giovani che non studiano né lavorano. Davanti al modo barbaro in cui si è compiuta in Argentina la globalizzazione, la Chiesa di questo paese si è sempre rifatta alle indicazioni del magistero. I nostri punti di riferimento sono, ad esempio, i criteri esposti con chiarezza nell’esortazione apostolica di Giovanni Paolo II Ecclesia in America».
Ha citato il magistero. Settant’anni fa, nell’enciclica Quadragesimo anno, scritta poco dopo la crisi delle Borse del ’29, Pio XI aveva definito «imperialismo internazionale del denaro» il modello di economia speculativa capace di impoverire all’istante milioni di famiglie. Applicherebbe quella definizione all’Argentina di oggi?
«È una formula che non perde mai di attualità, e contiene una radice biblica. Quando Mosè sale al monte per ricevere la legge di Dio, il popolo pecca d’idolatria fabbricando il vitello d’oro. Anche l’attuale imperialismo del denaro mostra un inequivocabile volto idolatrico. E dove c’è idolatria, si cancellano Dio e la dignità dell’uomo. L’economia speculativa non ha più bisogno neppure del lavoro, non sa che farsene del lavoro. Insegue l’idolo del denaro che si produce da se stesso. Per questo non si hanno remore nel trasformare in disoccupati milioni di lavoratori».
In qualità di pastore, come considera il ruolo svolto dalla comunità internazionale e dagli organismi finanziari centrali nella crisi argentina?
«Non mi sembra che pongano al centro della loro riflessione l’essere umano, nonostante le belle parole. Indicano sempre ai governi le loro rigide direttive, parlano sempre di etica, di trasparenza, ma mi appaiono come dei moralisti senza bontà».
La Chiesa è interessata in diversi modi dalla crisi argentina. Quali criteri guidano la sua azione?
«In questo tentativo comune di uscire dalla crisi si tiene presente quanto insegna la Tradizione della chiesa, che riconosce l’oppressione del povero e la frode nel salario agli operai come due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. Queste due formule tradizionali hanno una totale attualità nel magistero dell’episcopato argentino. Siamo stanchi di sistemi che producono i poveri perché poi la Chiesa li mantenga».
Il coinvolgimento della Chiesa nella crisi si esprime soprattutto in aiuto concreto, materiale.
«Alle fasce più bisognose arriva solo un quaranta per cento delle risorse a esse destinate dallo Stato, il resto si perde per strada. Ci sono tangenti. La Chiesa ha già aperto nelle parrocchie una rete capillare di mense per i bambini e per la gente sempre più numerosa che vive sulla strada».
La gerarchia cattolica ha anche accettato di sedere al tavolo della riconciliazione. Ma si è guardata dall’assumere un ruolo di entità moralmente superiore. «Abbiamo peccato tutti», ha detto il presidente della Conferenza episcopale, Estanislao Esteban Karlic.
«Siamo parte del nostro popolo. Partecipiamo con esso del peccato e della grazia. Possiamo annunciare la gratuità del dono di Dio solo se abbiamo sperimentato tale gratuità nel perdono dei nostri peccati. Nel 2000 la Chiesa argentina ha fatto, anche pubblicamente, un periodo di penitenza e di richiesta di perdono alla società, pure in riferimento agli anni della dittatura. Nessun settore della società argentina ha chiesto perdono allo stesso modo».
Nell’ampia partecipazione ecclesiale al dialogo nazionale non c’è il rischio di protagonismo, o di snaturare l’immagine della Chiesa, facendone un’agenzia di consenso che fornisce il collante culturale all’identità nazionale?
«La Chiesa ha fatto solo le dichiarazioni necessarie, invitando sempre a cercare un dialogo tra le parti della società. Ma, come è scritto nel documento della Conferenza episcopale del 14 gennaio, “il dialogo tra gli argentini è stato convocato dal presidente della nazione per riunire i settori rappresentativi di tutto il paese […]. La Chiesa, come istituzione, non partecipa come un membro in più, ma come chi offre uno spazio di incontro”. Questo è bene che sia chiaro. Il dialogo non lo convoca la Chiesa né lo conduce la Chiesa. Lo ha convocato e lo porta avanti il presidente, con l’assistenza tecnica delle Nazioni Unite. La Chiesa offre l’ambito per il dialogo, come uno che offre la casa perché due fratelli si incontrino per riconciliarsi. Ma non è una lobby che interviene nel dialogo a fianco di altri gruppi di pressione».
La classe dirigente si trova in un totale discredito. Sembrerebbe aver ragione chi teorizza l’eliminazione della politica e la destrutturazione dello Stato.
«Bisogna rivendicare l’importanza della politica, anche se i politici l’hanno screditata, perché, come diceva Paolo VI, può essere una delle forme più alte della carità».
Come andrà a finire?
«Credo nei miracoli. E l’Argentina ha un popolo grande e bello. Queste risorse spirituali che conserva il nostro popolo già sono un principio di miracolo. E sono d’accordo con il Manzoni, che dice: “Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene”. Io mi aspetto che finisca bene».
Gianni Valente