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 2013  marzo 17 Domenica calendario

La battaglia per le presidenze parlamentari si è conclusa ieri. La Camera ha eletto Laura Boldrini al posto che fu di Fini

La battaglia per le presidenze parlamentari si è conclusa ieri. La Camera ha eletto Laura Boldrini al posto che fu di Fini. I senatori hanno scelto come loro presidente Pietro Grasso. Laura Boldrini è entrata a Montecitorio nelle liste di Sela (Vendola). Faceva parte di quel gruppo ristretto di privilegiati che ha ottenuto il seggio senza passare per le primarie. Bersani l’ha scelta all’ultimo momento, sacrificando Dario Franceschini, e lei s’è presa lo scranno più alto di Montecitorio senza problemi: alla Camera il Pd ha 340 seggi, cioè la maggioranza assoluta, e su queste cose può fare quello che vuole. Infatti non c’è stata competizione. Tutto diverso il discorso per il Senato. Il regolamento vuole che i due più votati del terzo scrutinio, nel caso non abbiano raggiunto il numero minimo per essere eletti, si affrontino poi in ballottaggio al quarto giro e il più votato al quarto giro risulti poi eletto, non importa quanti voti abbia ottenuto (prima della lettura dello scrutinio Calderoli ha preso la parola e sostenuto che la maggioranza relativa non bastava per vincere, affermazione che ha impegnato l’aula in un breve duello giuridico e che è poi stata bocciata dal presidente Colombo). Gli sfidanti, nel nostro caso, erano Pietro Grasso, candidato del centro-sinistra, e Renato Schifani, portato dal centro-destra. Ha vinto Grasso 137 a 117, un risultato estremamente interessante.

Perché?
Perché Grasso aveva a disposizione, in teoria, solo 117 voti. Da dove vengono gli altri 20? I montiani avevano deciso di votare scheda bianca, i berlusconiani sostenevano Schifani, non restano che quelli del Movimento 5 Stelle. Ebbene sì: i venti voti in più vengono dai grillini, una parte dei quali ha rotto la consegna dell’equidistanza spostandosi verso Pietro Grasso e il Pd. Il capogruppo Vito Crimi ha sdrammatizzato: «Abbiamo mantenuto la linea, per alcuni c’è stato un voto secondo coscienza». Quando s’è saputo che Bersani avrebbe puntato su Grasso, i cinquestelle si sono riuniti e hanno litigato di brutto. La maggior parte voleva restare (e poi è restata) nel solco dell’indicazione di Beppe Grillo, il Pdl e il Pd sono uguali, quindi tra Grasso e Schifani non c’è differenza, perciò dobbiamo votare scheda bianca. Replica di alcuni senatori siciliani: «Come ce ne torniamo in Sicilia se poi vince Schifani?» (notiamo che sia Schifani che Grasso sono siciliani). Altra obiezione: come possiamo essere equidistanti se Pietro Grasso è stato procuratore nazionale antimafia mentre Schifani è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa? Alla fine venti grillini hanno votato Grasso. Fatto che apre scenari.  

Perché a questo punto, e con lo stesso ragionamento, potrebbero votare anche per il governo di Bersani.
Bersani ha scelto due figure emblematiche, due campioni, due icone – una della battaglia in favore degli emigranti e dei diseredati, l’altro per la lunga militanza da magistrato contro la criminalità organizzata – per gettare lo scompiglio nelle fila di quelli che si ostinano a non prendere posizione. Boldrini e Grasso, oltre tutto, sono freschi di Parlamento, non appartengono a correnti e non sono espressione di apparati. La linea Grillo, su di loro, si trova in qualche imbarazzo. Imbarazzo che si è colto bene a Palazzo Madama, dove il voto dei cinquestelle poteva essere decisivo.  

Chi sono questi due nuovi presidenti?
La Boldrini, una bella signora di quasi 52 anni, separata, una figlia, è famosa come portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (in sigla: Uhncr). Da quella posizione ha condotto una lotta senza quartiere alla politica dei respingimenti e osteggiato in ogni modo Maroni. Non ha nessun grado di parentela con il celebre partigiano, e capo di partigiani, Arrigo Boldrini, di cui tanti hanno preteso che fosse figlia. Altro equivoco: non è toscana, come pare dall’inflessione, ma marchigiana. È la terza donna che si trova a guidare Montecitorio, dopo la Jotti e la Pivetti.  

Di Grasso abbiamo già detto che è stato procuratore generale antimafia e campione della lotta alla criminalità organizzata.
Aggiungiamo che è nemico di Ingroia dal tempo in cui era procuratore capo a Palermo e Ingroia sostituto procuratore in quello stesso ufficio. A Grasso faceva la guerra soprattutto Caselli, di cui Ingroia è stato convinto seguace. Insomma, sono vecchie beghe. Per i lettori di “Gazzetta” è forse più interessante sapere che, da giovane (Grasso ha compiuto 68 anni lo scorso Capodanno), il presidente del Senato è stato un ottimo centrocampista, quasi in procinto di intraprendere sul serio la carriera. Giocava nel Bacigalupo, squadra di calcio della borgata dell’Arenella a Palermo. Lo so che sembra incredibile, ma per un po’ il suo allenatore è stato Marcello Dell’Utri.  

Che significato politico hanno queste due nomine?
Significano che non ci sono accordi e che andiamo alle consultazioni di Napolitano, a partire da mercoledì prossimo, nella confusione più assoluta. Non parliamo poi della battaglia per la presidenza della Repubblica.