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 2013  marzo 07 Giovedì calendario

Se si guarda ai numeri, Bersani ha trionfato nella direzione del partito di ieri: relazione approvata quasi all’unanimità, con un solo astenuto

Se si guarda ai numeri, Bersani ha trionfato nella direzione del partito di ieri: relazione approvata quasi all’unanimità, con un solo astenuto. Il leader dell’opposizione al segretario, cioè il sindaco di Firenze Matteo Renzi, non ha neanche preso la parola. Cioè, successo pieno, si direbbe. Se non fosse che in politica le cose vanno troppe volte giudicate a rovescio e quella che sembra una vittoria deve spesso essere interpretata, se non come una sconfitta sostanziale, come un preannuncio di sconfitta, e anzi, nel nostro caso, quasi come un preannuncio di catastrofe.

Come sarebbe?
In realtà ieri è successo questo: che gli avversari di Bersani, sentendosi ripetere, ovviamente, le cose che il segretario sta dicendo in pratica dal primo giorno, gli hanno risposto: vai vai caro, sbatti pure il muso sulla parete d’acciaio che il Movimento 5 Stelle e il presidente Napolitano ti stanno tirando su, ci vediamo al ritorno e allora, puoi star tranquillo, non ci sarà nessuna unanimità. Vuole sapere da dove si capisce che il segretario ha tenuto una relazione da sconfitto? Dal fatto che non ha mai parlato di elezioni anticipate, come aveva fatto nelle prime ore dopo il voto. Cioè, quando era stata chiara la dimensione della non-vittoria democratica, Bersani e i suoi avevano dichiarato a gran voce che esistevano due sole possibilità: o il governo Bersani non sfiduciato in qualche modo dai grillini; oppure, in caso di caduta del governo al primo passaggio al Senato, elezioni immediate. Già a giugno. Questo punto, nel discorso di un’ora di Bersani, è stato trasformato così: il nostro piano «è un sentiero molto stretto. O lo si supera, e quindi si comincia con un governo che cambi le cose. O il sentiero lo si sgombrerà dalla nebbia. Ci sarà il Capo dello Stato e nel governo del presidente, per definizione, non dobbiamo interferire».  

Cioè Bersani ha presentato alla direzione del partito, che gliel’ha approvato, il suo piano di fare un governo che al momento della fiducia abbia l’appoggio, comunque dato, del Movimento 5 Stelle. E che poi si vada a cercare di volta in volta la sua maggioranza sui singoli provvedimenti.
Sì. Il segretario ha ribadito anche gli otto punti su cui, per usare le sue parole, «sfida» il Movimento 5 Stelle. Il punto di partenza è sempre lo stesso: certe cose devono venirmele a dire in Parlamento, tutto quello che è stato dichiarato fuori del Parlamento non conta. Gli otto punti lei li conosce già, ma per comodità del lettore ripetiamone il succo: sedersi al tavolo con l’Europa e costringerla ad abbandonare le politiche di austerità; lo Stato saldi i 70-90 miliardi che deve alle imprese, si dia il via libera i comuni per spendere i soldi che hanno e che sono congelati dal patto di stabilità, ridurre il costo del lavoro a tempo indeterminato e aumentare quello del lavoro a tempo determinato, salario minimo per i disoccupati, spending review, esodati, redistribuzione dell’Imu, carte di credito invece dei contanti, Sud e ridimensionamento di Equitalia; meno soldi ai partiti e loro riforma in modo da garantire la democrazia interna, riforma dell’amministrazione; leggi su corruzione, falso in bilancio e frodi fiscali; legge sui conflitti d’interesse; economia verde e sviluppo sostenibile; cittadinanza ai figli di immigrati che nascono da noi e norme sulle unioni omosessuali; istruzione e ricerca.  

• I grillini potrebbero starci?
Ieri Grillo ha lasciato che sul suo blog il militante Ernesto spiegasse che il Pd è più vicino al Pdl di quanto sia vicino al M56. Ernesto ha elencato dieci punti che affratellano i due partiti vecchia maniera: «1) entrambi vogliono la Tav, 2) entrambi sono per il Meccanismo europeo di stabilità, 3) entrambi per il Fiscal Compact, 4) entrambi per il pareggio di bilancio, 5) entrambi per le ’missioni di pace’, 6) entrambi per l’acquisto degli F-35, 7) entrambi per lo smantellamento dell’art.18, 8) entrambi per la perdita della sovranità monetaria, 9) entrambi per il finanziamento della scuola privata, 10) entrambi per i rimborsi elettorali». Il Pd ha risposto sul web assai vivacemente, invitando a linkare le sue otto proposte e sfidando i grillini a dire cosa ne pensano. Ma è una replica inutile, ufficialmente da quel lato non è mai arrivata nessuna risposta affidabile.  

Come mai Renzi non ha parlato?
È già eccezionale il fatto che sia apparso. Di solito, le direzioni lui le diserta. Renzi ha spiegato bene, nei giorni scorsi, che vuole restare fedele al segretario finché il suo tentativo non sia eventualmente fallito. Però vuole giocare la sua partita dopo aver conquistato il Pd e non prima. Il tempo dei discorsi ai compagni verrà, e forse anche preso. Monti, nel colloquio di due ore dell’altro giorno, gli avrebbe fatto sapere che “Scelta civica”, alle prossime elezioni, è pronta a indicare lui come candidato premier.  

Possibilità di un governo Pd-Pdl?
Dal discorso di Bersani è assolutamente escluso. D’Alema però, nel suo intervento, ha detto: «Non possiamo rinunciare a fare un discorso sulla destra e alla destra. La destra esiste. Io mi rammarico del fatto che in un momento così drammatico non sia possibile in questo paese una risposta in termini di unità nazionale. Purtroppo non è possibile, e l’impedimento si chiama Silvio Berlusconi». Cioè: se Berlusconi si toglie di mezzo, possiamo sederci al tavolo con loro. D’Alema ha detto un’altra cosa che mi ha colpito: «Noi facciamo tante cose nuove, ma un signore di 65 anni che fa le riunioni a porte chiuse e prende a calci i giornalisti – tutte cose molto vecchie - appare più nuovo di noi». Ha ragione, ma dovrebbe almeno chiedersi: perché?