20 febbraio 2013
Tags : Vittorio Emanuele III
Giovinezza di Vittorio Emanuele III
• II 31 luglio del 1900 egli era con lei sul Yela in crociera nei mari della Grecia. Navigavano da oltre un mese, Kodak a tracolla, per fissare sulla lastra panorami, visitare scavi, cercare monete. Ora il pànfìlo era sulla via del ritorno, e puntava su Reggio Calabria. Mattiniero come sempre, il Principe se ne stava sul ponte a guardare il levar del sole, quando sul semaforo di Capo dell’Armi si vide uno sventolio di bandiere. Il comandante decifrò immediatamente la segnalazione: il Principe era invitato ad accorrere a Monza perché il Re era gravemente ammalato. Dopo un’altra ora di navigazione, una torpediniera si fece incontro al Yela, con la bandiera abbrunata e a mezz’asta sull’albero. Non c’era da equivocare: Umberto era morto, e il nuovo Re era lui, Vittorio Emanuele. «Maestà» gli disse infatti il Prefetto di Reggio, venuto a prenderlo al porto per scortarlo fino alla stazione, dove attendeva il treno reale.
• Per l’interminabile viaggio non volle nel vagone speciale altra compagnia che quella di sua moglie. Non aveva che trentun anni, e di politica sapeva solo che il momento era dei peggiori. Suo padre non ve lo aveva mai iniziato, e coi suoi protagonisti non aveva alcuna dimestichezza. Uno di essi lo aspettava a Napoli per fargli le sue condoglianze in lacrime: Crispi. Vittorio Emanuele lo accolse a occhio asciutto e lo congedò freddamente. Salirono anche, per accompagnarlo, il Duca di Genova e i Duchi di Ascoli, latori di una lettera di Margherita col resoconto del regicidio. Leggendolo ad Elena, la sua voce non ebbe un trasalimento. A Monza arrivarono dopo sessanta ore di treno e di caldo torrido dentro il vagone con le tendine abbassate. La salma era ancora lì, contesa alla putrefazione con iniezioni e ghiaccio. Depose un bacio sulla fronte del padre, la prima udienza la concesse a Osio che lo trovò "calmo e risoluto”, e il primo ordine che diede come Re fu di sbarrare il sentiero che conduceva dal parco della villa reale a quello della marchesa Litta, che Margherita invece aveva invitato a vegliare il cadavere la notte dell’uccisione. Al Pantheon, durante la cerimonia funebre, lo udirono mormorare con impazienza : «Quanto la tirano lunga, questi preti!» E bastò per far circolare la voce che il nuovo Re era massone.
• La voce era infondata, ma era vero che qualcosa, nei rapporti fra Quirinale e Vaticano, stava per cambiare. Carlo Alberto era stato un Re bigotto; Vittorio Emanuele II un incredulo pieno di reverenza e perfino di una specie di superstizioso timore nei confronti della Chiesa; Umberto I un agnostico osservante e pieno di riguardi per la Gerarchia. Il nuovo Re non credeva, non praticava, e non trovava nemmeno necessario salvare le apparenze di una certa devozione. Il suo anticlericalismo veniva un po’ dalle letture di cui si era nutrito - Comte, Stuart Mili, Ardigò -, tutte positiviste, ma un po’ anche dalla coscienza del suo ruolo. Più che un laico, era un ghibellino profondamente conscio del ruolo anti nazionale che la Chiesa aveva sempre svolto in Italia, e pieno di diffidenza nei suoi confronti. Instaurò rapporti cordiali col cappellano di Corte; ma, a differenza di quanto avevano fatto Umberto e Margherita, gli fece subito capire che il suo regno era limitato alla cappella e che nemmeno lì avrebbe avuto molto da fare.
• Non fu la sola novità. Appena insediatosi in Quirinale, ne chiuse le porte alle amanti di suo padre, fece vendere i centocinquanta cavalli di cui Umberto aveva riempito le scuderie reali, e abolì i banchetti di Corte. Per obbligo di cerimoniale, appena finito il lutto, diede un ballo, vi comparve in ritardo, rimase per un poco a guardare le quadriglie degli ospiti senza parteciparvi, si ritirò quasi subito, e l’indomani fece chiudere i saloni. Tutti i servizi di Corte furono ridotti all’essenziale, messi sotto chiave i liquori e perfino i sigari. Forse, se avesse potuto, il nuovo Re avrebbe licenziato volentieri anche i corazzieri che con la loro prestanza sembravano messi lì per far vieppiù risaltare la sua miseria.
• Come la Regina Madre accogliesse questa ventata di austerità in flagrante contrasto col fastoso tono ch’essa aveva dato al Quirinale, non sappiamo. Comunque, essa ne aveva sloggiato per trasferirsi nel palazzo Boncompagni comprato a bella posta dal figlio. Elena invece ci si adeguò benissimo. Ridusse all’osso il servitorame, assunse di persona l’amministrazione di casa facendo i conti della spesa, arruolò una sartina per rivoltare i vestiti, e deliziò il marito con marmellate di castagne confezionate con le sue mani. Anche per lei fu un giorno di gioia quando comprarono e andarono a stare a Villa Savoia: in quel Quirinale tutto fasto, specchi e spocchia, non si era mai sentita a casa sua.
• Ma il cambiamento più importante fu quello dei rapporti col potere politico. Vittorio Emanuele II, pur avendo sempre formalmente rispettato la Costituzione, non aveva mai rinunziato a considerare i suoi Ministri come esecutori di ordini, e lo dimostravano le sue collere contro coloro che vi si rifiutavano. Pretendeva ch’essi si sentissero legati dai suoi personali impegni d’onore come quando tentò di schierare l’Italia a fianco di Napoleone III contro la Prussia e quando ritardò il trasferimento della capitale a Roma per non dare un altro dispiacere al Papa. Umberto, pur senza il suo piglio e le sue impennate, teneva lo stesso paternalitico atteggiamento. Volubile e chiacchierone (non riusciva mai a tenere un segreto), trattava bonariamente i suoi Ministri fino a imprestargli denaro come aveva fatto con Crispi, serbando con loro rapporti confidenziali anche dopo ch’erano scaduti di carica, e andando a trovarli a casa loro. Anche lui rispettò sempre la Costituzione, ma c’è da dubitare che l’avesse letta, e comunque non ebbe mai un senso esatto delle “prerogative”. Entrambi poi detestavano il lavoro di tavolino, avevano orrore delle “carte”, e le firmavano senza leggerle. Vittorio Emanuele non attese nemmeno l’investitura per instaurare un nuovo stile. Quando suo padre cadde sotto la rivoltella di Bresci, Presidente del Consiglio era il piemontese Saracco, un probo magistrato ottuagenario, ultimo scampolo della vecchia Destra di Sella e di Lanza con la sua religiosa concezione dello Stato e del bilancio dello Stato. Avarissimo, «non va mai in vettura» scriveva di lui il repubblicano Barzilai, suo avversario «rinunciando ai fondi stabiliti all’uopo in bilancio e mangia al caffè Colonna un po’ di minestra e un pezzo di carne. Gli basterebbe la cucina di Sparta. E portava abiti talmente lisi e impillaccherati che, quando prendeva il fucile per mettersi dietro a lepri o pernici (suo unico svago), gli amici dicevano che andava a caccia “fra le sue macchie”». La sera del regicidio, Saracco era in piazza Esedra, ad ascoltare l’orchestrina d’un caffè, ma in piedi per risparmiare la consumazione. Rientrando, trovò un telegramma con l’annuncio dell’accaduto. Corse al Ministero degl’Interni per impartire disposizioni nell’eventualità di qualche disordine, e partì la notte stessa per Monza, a rendere omaggio al defunto. Era appena uscito dalla camera ardente che Vittorio Emanuele lo convocò nel suo studio. Senza dargli tempo di pronunciare le solite parole di cordoglio, gli mostrò le carte che si ammucchiavano sul tavolo. Erano decreti su cui il padre non aveva fatto in tempo ad apporre la firma, ma che secondo lui andavano poco d’accordo con la Costituzione. Sbalordito, Saracco replicò che quello non era problema di competenza del Re, il quale doveva limitarsi a firmare come sin allora aveva sempre fatto. «Già – rispose il Principe –, ma d’ora in avanti il Re firmerà solo gli errori suoi, non quelli degli altri». Saracco, che oltre tutto passava per un grande esperto di Diritto, si sentì offeso e offrì seduta stante le dimissioni. Il Principe fece finta di non sentire, ma insistette che i decreti, prima che alla firma, gli fossero portati in lettura. Dopodiché spiegò al presidente come concepiva i doveri suoi e quelli altrui. «Non ho la pretesa - disse - di rimediare con le sole mie forze alle presenti difficoltà. Ma sono convinto che queste difficoltà hanno una causa unica. In Italia pochi compiono esattamente il loro dovere: v’è troppa mollezza e rilassatezza. Bisogna che ognuno, senza eccezioni, osservi esattamente i suoi obblighi. Io sarò d’esempio, adempiendo a tutti i miei doveri. I Ministri mi aiuteranno, non cullando alcuno in vane illusioni, non promettendo quanto saranno certi di poter mantenere». Così almeno riferisce Saracco, ignaro dell’opinione che di lui si era fatta Vittorio Emanuele, il quale la riassunse in questo ritrattino, compilato in occasione della sua morte: «Saracco, sotto apparenze liberali, era molto reazionario. Vecchio uomo, non s’era fermato nemmeno al 1848; la sua cultura e la sua vita erano quelle del periodo della rivoluzione francese, e gli uomini fra i quali pareva vivesse erano Royer-Collard, Barras e simili. Aveva studiato da prete, poi prese due mogli; nei suoi discorsi, oltre ai continui ricordi dei tempi di Luigi Filippo, c’erano sempre citazioni dei Salmi della Bibbia. Era incapace di qualsiasi favore a chicchessia. Si trincerava in un severissimo riserbo, sproporzionato alla causa. “Questo non si può fare” diceva, ripetendolo come un intercalare in piemontese: Ma l’on peul nen fese».
• Un Savoia capace di penetrare un carattere con tanta precisione, di descriverlo con tanta sintassi, stringatezza, umorismo, e più ancora di trovarlo eccessivamente «reazionario», fin allora non si era mai visto.
[Indro Montanelli, Storia D’Italia. L’età di Giolitti. Vol 35-cap 1. Fabbri / Rizzoli, Milano 1994]