Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  febbraio 20 Mercoledì calendario

Il matrimonio di Vittorio Emenuele III e Yela

• Si sposarono in ottobre, e subito scomparvero di scena. Vittorio Emanuele prese in affitto per pochi soldi l’isola di Montecristo, completamente deserta e senza altra abitazione che un padiglione di caccia mezzo diroccato. Si divertì a ricostruirselo da sé, mattone su mattone, mentre Elena gli preparava il pranzo in cucina. Non fu una bizzarria da luna di miele. Anche quando, saliti sul trono, avranno a disposizione palazzi e castelli, preferiranno sempre una vita appartata e piccolo borghese. Elena, che da ragazza dipingeva, suonava il violino, componeva poesie come suo padre, e amava il tennis e la danza, rinunziò a questi passatempi appena vide che lui li detestava, anzi adottò come hobbies quelli di lui: la numismatica e l’archeologia. Per il resto fu soltanto una donna di casa, come lo era stata a Cettigne. Sapendolo insofferente dei camerieri, era lei che lo serviva a tavola, e per farsi i vestiti si prese in casa una sartina. Molti trovarono da ridire su questi suoi costumi poco regali, specialmente la sua omonima cugina, Elena d’Orléans, andata sposa al Duca d’Aosta, che la chiamava la bergère, la pastora. Ma il marito glien’era gratissimo e, pur nel suo burbero modo, glielo dimostrava con piccole attenzioni. Non tornava mai a casa senza portarle un mazzolino di fiori di campo, e per tutta la vita si vanterà di non aver mai baciato la mano ad altra donna che a sua moglie.
• Non risulta infatti che abbia avuto delle amanti, e neanche delle avventure: la sua intraprendenza l’aveva sfogata a Napoli. Fra loro parlavano in francese perché lei non riuscirà mai a imparare bene l’italiano. Ma parlavano, e molto. Lei era l’unica persona a cui lui diceva tutto. 
• Purtroppo, quest’armonia non dava frutti, e ciò preoccupava sia la Corte che il governo. Che quella ragazzona impalmata per irrobustire il ceppo stanco dei Savoia fosse invece sterile? O fosse impotente lui, magari per qualche malattia venerea contratta a Napoli? Il dubbio era tanto più assillante in quanto, se il trono fosse rimasto senza eredi diretti, sarebbe passato all’Aosta che tutti sapevano un trastullo nelle mani della Orléans, miscuglio di spocchia francese e di devozione al Papa. Specie negli ambienti della Sinistra, quasi tutti massoni, si parlava con allarme di una “Monarchia guelfa”. 
• Gli unici che non condividevano questi timori erano i due interessati, paghi della loro armonia. Gran parte del loro tempo la passavano a viaggiare sul pànfilo ora ribattezzato Yela, che costituiva il loro unico lusso, perché entrambi avevano la passione del mare e delle fotografie: cioè l’aveva lui, e lei l’aveva adottata. Si spinsero fino alle Spitzbergen, di ogni paese che visitavano studiando prima la storia e le caratteristiche sui libri, e poi redigendo diligenti e puntigliosi rapporti ch’egli inoltrava alla Reale Società Geografica. Il resto dell’anno Io passavano a Napoli, dove si trovava il Corpo d’Armata di cui lui aveva il comando. Ma delle vecchie amicizie ne riesumò due sole: Brancaccio, con cui del resto aveva sempre mantenuto confìdenzialissimi rapporti, e la principessa Caracciolo di Candriano, che diventò dama di compagnia di Elena e svolse una parte importante nella vita della coppia. Ogni volta che lui era di cattivo umore (e dopo l’incoronazione gli capitò spesso), Elena la tratteneva a colazione o a cena perché raccontasse qualcosa in dialetto. E il rimedio si rivelava infallibile. 
• Nei confronti della politica, egli seguitava a tenere l’atteggiamento di sempre, cioè di totale disinteresse. Sebbene il momento fosse tra i più inquieti per via delle agitazioni sociali e delle misure repressive adottate da Rudinì e da Pelloux, che poi sboccarono nei moti di Milano, nelle lettere del Principe a Osio, che restava il suo costante punto di riferimento, non si trovano che due accenni: uno all’attentato dell’anarchico Acciarito contro il Re (22 aprile 1897, ndr), l’altro al tentativo di ottenere una “concessione” in Cina (ma lui la chiamava China). Dell’attentato dava la colpa al Questore ma senz’aggiungere una sola parola di deplorazione, e nemmeno di trepidazione per il padre. All’impresa di Cina si mostrava avverso vedendoci il pericolo di “una seconda Africa”. Ma di queste opinioni non mise a parte che il suo ex precettore, e naturalmente la moglie.