20 febbraio 2013
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Vittorio Emenuele III incontra Yela di Montenegro
• Come Osio gli aveva insegnato, Vittorio Emanuele aveva obbedito sempre e in tutto. Finché non era andato a Napoli, neanche gli amici li aveva scelti di testa sua. Non si era ribellato nemmeno quando avevano allontanato da Corte Daisy Francesetti, l’unica compagna di giuochi ch’era riuscita a vincere la sua ritrosia. Ma quando gli parlarono di moglie, puntò i piedi, e non ci fu nulla da fare: i risultati dei matrimoni combinati solo per motivi dinastici glieli documentava lo specchio, quando ci si guardava. Come disse più tardi al generale Porro: «Guardi bene come mi hanno fottuto le gambe!».
• Per sua fortuna, il Re era distratto in quel momento da ben altri pensieri. Spinti da Crispi, ma col pieno consenso di Umberto, i soldati italiani risalivano l’altopiano eritreo. Ligio alla regola di famiglia per cui «si regna uno alla volta», il Principe seguiva gli avvenimenti da semplice spettatore. «Non capisco più nulla di questa benedetta Africa - scrisse a Osio - e mi pare che a Roma sian tutti allo stesso punto mio, ciò che è disastroso.» Ma non chiedeva né informazioni né spiegazioni, tutto preso unicamente dai suoi compiti di Generale, di cui seguitava a rendere minuzioso conto al suo ex-precettore. In caserma si comportava come se i suoi scatti di grado dipendessero unicamente dallo zelo che vi spiegava. La notizia di Adua l’apprese dai giornali. «Quanto è accaduto – scrisse al solito Osio – era purtroppo inevitabile. Parecchie cose non ho potuto ancora capire: perché hanno attaccato con truppe affannate, dopo una lunga marcia; perché hanno manovrato in terreno difficilissimo e poco conosciuto, per tre colonne; e perché non hanno atteso i rinforzi, ch’erano vicini. Qui corre voce che Baratieri ha abbandonato Adua al più tardi alle 10, mentre le truppe hanno valorosamente combattuto fino al tramonto. La città è piena di pettegolezzi, il mondo politico in fermento.» Tutto qui. Come se quel disastro fosse capitato a un altro Paese invece che a quello di cui stava per diventare Re.
• Da questa lettera non erano trascorsi che pochi mesi, quando Osio ne ricevette dal suo ex pupillo un’altra datata da Cettigne: «Carissimo Generale, non voglio lasciare il Montenegro senza prima ringraziarla dei suoi tanto gentili auguri. Ella è sempre stato tanto buono per me; mi ha fatto infinito piacere di sapere la parte che Ella prende alla mia festa; ho fatto tutto di testa mia e senza alcun aiuto della politica, la quale per fortuna è lontana mille miglia dal mio fidanzamento...».
• Il Principe era certamente in buona fede. Ma le cose non stavano esattamente come lui credeva che stessero. Prima che per quella sua, l’idea di dargli in moglie una principessa montenegrina era passata per la testa di Crispi, che nella sua consueta mania di grandezza sognava un’attiva politica italiana nei Balcani, di cui il Montenegro poteva essere il punto d’appoggio. Il Montenegro era un Principato indipendente sotto lo scettro di Nicola Petrovich Niegos, una specie di capopastore che, rivestito di pelli di capra, amministrava la giustizia sotto l’albero di fico, a tempo perso componeva poesie, e a chi gli chiedeva quanti sudditi avesse, rispondeva: «Io e il mio amico lo zar di tutte le Russie ne abbiamo centocinquantunmilioni». La sua dinastia si reggeva infatti grazie all’appoggio dello Zar, che paternamente provvedeva anche ad ospitare alla Corte di Pietroburgo i suoi nove figli – tre maschi e sei femmine –, a farli istruire e a procurargli vantaggiosi matrimoni. Due ragazze le aveva già accasate con Granduchi di famiglia. Ne restavano quattro senza una lira di dote, ma di poche pretese, di gusti semplici, di costumi illibati, e soprattutto di sangue sano e di fusto buono.
• Vittorio Emanuele credette di essere stato lui a scoprire la sua Yela, quando la conobbe a Venezia nella primavera del 1895. Viceversa l’incontro era stato discretamente combinato da Crispi con l’assenso di Umberto e Margherita. Essi dovevano recarsi a Venezia per l’inaugurazione di una mostra d’arte. Ma all’ultimo momento, allegando non so quale pretesto, vi si fecero rappresentare dal Principe perché facesse gli onori di casa alle personalità che venivano a visitarla. Fra di esse c’era appunto, con la madre e la sorella, la principessa Yela, che invece sapeva benissimo perché si trovava lì. Era una bella ragazzona di ventitré anni, che a Pietroburgo era stata lì lì per andare sposa a un giovane ufficiale della nobiltà baltica, il barone Mannerheim, futuro eroe nazionale della Finlandia, di cui nel 1918 guiderà la vittoriosa lotta di liberazione dalla Russia e nel 1940 l’eroica resistenza. Chi scrive è stato ospite nella sua casa di campagna presso Helsinki, e ci ha visto la fotografia di Yela con affettuosa dedica.
• Vittorio Emanuele simpatizzò con quella bella figliola dagli occhi languidi, ma nulla di più. L’anno dopo fu invitato a Pietroburgo per l’incoronazione dello zar Nicola II. Guarda caso, c’era anche Yela. E, a quanto pare, fu il solo a non capire come mai se la ritrovava accanto ai banchetti e ai balli. Tutti facevano a gara per lasciarli a tuppertù, e lo Zar ogni tanto li prendeva paternamente sotto braccio per un giro in giardino. Insomma, era un vero e proprio complotto internazionale. Ma lui era convinto che a Roma non ne sapessero nulla, e fu con un certo tremore che, rientrato in patria, comunicò le proprie intenzioni al padre: temeva che questi trovasse la scelta inadeguata al suo rango. Viceversa l’assenso fu condizionato soltanto alla preventiva conversione di Yela alla religione cattolica. Il Papa si sarebbe contentato anche di una conversione successiva alle nozze. Ma Margherita si mostrò più intransigente di lui.