20 febbraio 2013
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Il felice periodo napoletano di Vittorio Emanuele III
• È difficile dire se per la vita militare avesse un vero trasporto. Ma da quando Crispi, avendolo visto una sera a cena in un ristorante romano, aveva raccomandato al Re di proibirgli gli abiti civili, non aveva quasi mai più smesso la divisa. Per risparmiargli l’umiliazione di venire scartato, si era dovuto abbassare di alcuni centimetri il già basso minimo di altezza richiesto. E ora, per fargli far pratica di comando, gli venne affidato quello del 1° Reggimento di Fanteria a Napoli.
• Furono i suoi anni più belli. Strano a dirsi, Vittorio Emanuele amava Napoli, ne parlava benissimo il dialetto, e napoletano fu l’unico amico al quale concesse il tu: il Principe Nicola Brancaccio. Fu lui a istradarlo nella vita segreta di Napoli, che non era quella dell’alta società, ma dei camerini di teatro e di certi salotti e salottini che di rispettabile avevano solo la facciata. Il povero prefetto Basile ebbe il suo daffare a seguire le piste dei due giovanotti e stabilirvi misure di sicurezza. Ma i suoi rapporti, invece di allarmarli, rallegravano il Re e la Regina, i quali avevano sempre temuto che il loro erede non fosse in grado di procurarne altri alla dinastia. Il sole di Napoli e la contagiosa allegria di Brancaccio avevano sciolto la ritrosia del Principe, che mostrava anzi notevole intraprendenza. Per fare fronte agl’impegnì del rango, egli ebbe anche un’amante d’alto bordo, la baronessa Barracco, di cui le venne anche attribuita una figlia. Ma le sue preferenze andavano alle ballerinette e alle sciantose di approccio facile e di coscia lesta. Brancaccio aveva fatto presto a capire i suoi gusti, e li secondava da perfetto ciambellano. Con lui il principe si apriva, anzi si spalancava alle confidenze, anche perché fra loro parlavano napoletano, una lingua in cui le confidenze diventano facili, e perfino obbligatorie. Vittorio Emanuele gliene serbò eterna gratitudine. Quando Brancaccio fu congedato da Generale per limiti di età, Vittorio Emanuele, ormai Re da un pezzo, lo fece nominare direttore della Biblioteca Reale a Torino, ma ogni poco lo chiamava a Roma perché solo lui riusciva a procurargli qualche intermezzo di buonumore con le sue piccanti e mimate storielle. Era l’unico a cui concedeva di raccontarne anche su Mussolini. Tanto è vero che, quando morì, si sparse la voce che lo avessero avvelenato i fascisti. La voce era certamente infondata perché tutto l’antifascismo di Brancaccio si sfogava solo nelle storielle. Ma la sua scomparsa fu per il Re un gran dolore. Per le esequie andò apposta a Torino, e fu una delle rare apparizioni che vi fece nel corso del suo lungo Regno. Parlava il piemontese, e specie in campo militare non si fidava che dei piemontesi. Ma non amava il Piemonte.
• La felice stagione napoletana durò fino al ‘94 quando, promosso Generale, lo trasferirono a Firenze. Ci si trovò malissimo. Scostante, insolente e beffarda, quella città sembrava fatta apposta per fargli rimpiangere il calore, la tolleranza, l’ossequiosità di Napoli. Di Brancaccio, fra i toscani, non ce n’erano, e negli occhi della gente, quando doveva sfidarli per qualche cerimonia ufficiale, non vedeva che lampi d’ironia. Per di più doveva difendersi dalle insistenze dei genitori, impazienti di dargli moglie: mai erede al trono di Casa Savoia era arrivato a venticinqu’anni da scapolo.