20 febbraio 2013
Tags : Vittorio Emanuele III
L’infanzia di Vittorio Emanuele III
• Il nuovo Re era nato l’11 novembre 1869 a Napoli dove suo padre, tuttora Principe ereditario, era stato mandato per conquistare alla Casa Savoia gli ex-sudditi dei Borbone. Privo di calore e di colore, Umberto non era molto adatto al compito. Ma Margherita lo svolse a meraviglia, e fra le tante sue trovate per toccare il cuore di quella città ci fu anche l’attribuzione al neonato del nome Gennaro dopo quelli di Vittorio Emanuele e Ferdinando per ragioni di famiglia, e di Maria per addolcire la Chiesa con cui i rapporti restavano pessimi.
• Il parto era stato laborioso e qualcosa doveva essere andato storto perché i medici pronosticarono che la puerpera non avrebbe potuto avere altri figli, come infatti avvenne. Ma il neonato appariva, come dimensioni e peso, assolutamente normale: e di questo fu subito informato l’ansioso nonno che giaceva a Firenze ammalato. Per l’allattamento, il piccino fu dato in appalto a una balia locale, e per la prima educazione a una nurse irlandese, Elizabeth Lee, vedova di un ufficiale britannico, e naturalmente cattolica perché la devota Margherita non avrebbe mai accettato una protestante. Elizabeth, detta Bessie, rimase quattordici anni col suo pupillo, e fu una delle poche creature che questi abbia amato.
• Il piccolo Principe aveva dieci mesi quando i cannoni di Cadorna sfondarono Porta Pia, e aveva da poco compiuto un anno quando fu trasferito a Roma al seguito dei suoi genitori. Naturalmente la sua memoria non registrò quegli avvenimenti. Ma registrò una frase di suo padre che un giorno, additandolo all’ambasciatore Tomielli, esclamò in tono di scherno: «Guardi che bei frutti danno i matrimoni fra parenti!»
• Effettivamente, come frutto, Vittorio Emanuele non era da vetrina. Era cresciuto, ma solo di testa e di tronco. Di arti era rimasto sottosviluppato, e sulle gambe rachitiche si reggeva a stento: «Me le sento di vetro» diceva a Bessie. Che questo dipendesse dalle consanguineità ancestrali, è molto probabile. Anche suo padre, figlio di due cugini, aveva sposato una cugina. Comunque, il ragazzo si rendeva conto della propria anomalia, ne soffriva, e i genitori non facevano nulla per alleviargli la pena. Un po’ perché priva di senso materno, un po’ perché assorta dai suoi compiti di grande hostess del Quirinale, un po’ perché forse si vergognava di aver messo al mondo un prodotto così avariato, Margherita si occupava ben poco di lui. E quanto a suo padre, lo trattava come lui stesso era stato trattato dal padre suo, e come del resto era regola in casa Savoia: con una freddezza che poteva arrivare alla brutalità.
• Tutto questo non poteva non avere riflessi sul carattere del piccolo Principe. Anche se nell’infanzia egli covò entusiasmi e abbandoni, questo trattamento glieli spense. Un giorno che sua madre, in vena di tenerezza, gli propose una passeggiata per le vie di Roma, le rispose: «E dove vuoi andare a mostrarti con un nano?» Ad aprirsi, non trovava aiuto nemmeno negli amici. Gliene concedevano alcuni solo la domenica, ma scelti unicamente secondo il rango e dietro impegno di non dimenticarsi che avevano a che fare col futuro Re. E da futuro Re il Principino li trattava. «Oggi non si giuoca perché è l’anniversario della battaglia di Novara» disse loro una volta congedandoli, e non aveva che sette anni (23 mazo 1876, ndr). La sola che riuscì a stabilire con lui un rapporto abbastanza confidenziale fu una ragazza dell’aristocrazia piemontese, Daisy Francesetti de Hautecour, che con la sua schiettezza seppe vincerne la ritrosia. Da vecchia essa lo ricordava come un bambino timido, cosciente della propria inferiorità fisica, ma smanioso di nasconderla e di rivalersene in qualche modo. Malgrado i lancinanti dolori ai piedi ingabbiati nelle scarpe ortopediche, si sforzava di ballare e di stare correttamente in sella. Ma soprattutto si accaniva sui libri. Fin d’allora sfoggiava una memoria quasi prodigiosa, di cui si serviva per confondere e prendersi qualche rivincita sul suo aitante ma ignorantello cugino, il Duca d’Aosta, di cui era e sarebbe sempre rimasto geloso.
• Aveva nove anni quando tornò in visita a Napoli con suo padre, da pochi mesi salito al trono, sua madre, e il Capo del Governo, Cairoli. In carrozza, questi si accorse di dare la sinistra al Principe, e fece per cambiar di posto, ma Umberto lo trattenne. Fu per questa svista di cerimoniale ch’egli potè interporre il proprio corpo fra quello del Re e il pugnale del cuoco Passannante. Il piccolo Principe ebbe la sua divisa di marinaretto imbrattata dal sangue di Cairoli. Rimase, dicono, impassibile, e ci crediamo: di coraggio fisico non fu mai a corto. Ma l’episodio dovette fargli una certa impressione e insegnargli qualcosa sugl’incerti del mestiere di Re. Agli omaggi dei sudditi e alle loro proteste di fedeltà non credette mai.