La Stampa, sabato 28 agosto 1993, 17 febbraio 2013
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Mimmo profeta in patria (articolo del 28/8/1993)
La Stampa, sabato 28 agosto 1993
«Eccolo, di lì, da quel mare meraviglioso sono nate le mie canzoni». Domenico Modugno, dopo 40 anni, torna nella sua patria, Polignano a Mare, e si prepara al concerto più impegnativo della sua vita. Canterà stasera davanti alla sua gente che lo ama e lo odia, che lo porta in trionfo come il conoscente che lo guarda estasiato o lo respinge come una sua vecchia zia disposta solo a dire «Che gli venisse un colpo» con un’appendice di improperi intraducibili. Modugno, Mimì come lo chiama il suo amico Anselmo Galluzzi, qui è una leggenda, anche se adesso ha i capelli canuti, non più i baffetti malandrini, ma una barba incolta da Ulisse che torni alla sua Itaca. Polignano non lo amava: «Finge d’essere siciliano» dicevano i suoi compaesani accusandolo di aver dimenticato le origini. E lui: «Cantavo in siciliano perché o così o non si lavorava». Ora la rappacificazione, il Modugno-day, anzi due giorni di festa e un gran finale: «Due ore, due ore canterò, sarà uno spettacolo indimenticabile».
Modugno lascia la sua carrozzella su cui passa parte della giornata dopo l’ictus e cammina aiutandosi con il bastone. Si arrampica da solo sul cabinato che lo porta al largo, nelle acque dell’Adriatico in cui imparò a nuotare da ragazzino. Siede a poppa calando sulla testa un cappello da marinaio che un signore gli lancia mentre a centinaia, dalla spiaggia di Cala San Giovanni, intonano Volare, un successo che ha fatto di un giovane squattrinato figlio del Sud un personaggio amato in tutto il mondo. In queste acque Mimì si lanciava da uno scoglio alto dieci metri. «Di piedi, con l’amico Anselmo ma un giorno arrivò un ragazzo handicappato che, senza l’uso delle gambe, correva quasi stando seduto, sulle mani, veloce come una lepre. Arrivò in cima a uno scoglio più alto e con un guizzo si lanciò in acqua, di testa. Ci umiliò. Io amo questi posti, hanno ispirato le mie canzoni. Trascorro le vacanze a Lampedusa perché mi ricorda Polignano di cinquant’anni fa».
Non si può che cadere nell’apologia descrivendo cosa accade adesso nel suo paese, e qui proprio questo volevano, la celebrazione del divo da portare in processione sul mare come un santo. Non fa il bagno, come aveva promesso, Modugno, ma lo fanno giornalisti e fotografi, caduti dalle barche sovraffollate al seguito. Modugno si accontenta di mangiare i polpi crudi che gli offrono i pescatori. Una sola garanzia aveva chiesto mister Volare: «Mi fanno cantare gratis? Bene, se no non mi vedete».
Mimmo Modugno era arrivato all’aeroporto di Bari giovedì alle 20.25. L’attendevano il fido Anselmo, la figlia, un groppone di curiosi. Modugno lancia la prima battuta: «Hai visto, Anselmo, hai visto che barba ho? Sono invecchiato più di te». Un abbraccio forte e poi verso l’uscita e verso la Maserati biturbo marrone che Mimmo raggiunge con passo incerto, esclamando «porca miseria che schianto di macchina».
Nessuno lo riconosce, Mimì, con quel barbone, fino a quando, cristallo abbassato, l’auto passa dinanzi al «Bar Peppino», un santuario di «modugnesi» al pari del «Supermago del Gelo», caffè che espone come cimeli le foto di Mimì. Cena sulla rotonda, lo sguardo fisso al mare. E giù la gente aspetta. Un giovanotto s’infiltra, sfugge. È mezzanotte. Maglietta da marinaio a fasce rosa e bianche, Alberto Selvaggi teme che Modugno lo strangoli. È lui che ha scritto un librettino che mandò in bestia Mimì. «Quante palle hanno raccontato i miei paesani».
«Eccolo, di lì, da quel mare meraviglioso sono nate le mie canzoni». Domenico Modugno, dopo 40 anni, torna nella sua patria, Polignano a Mare, e si prepara al concerto più impegnativo della sua vita. Canterà stasera davanti alla sua gente che lo ama e lo odia, che lo porta in trionfo come il conoscente che lo guarda estasiato o lo respinge come una sua vecchia zia disposta solo a dire «Che gli venisse un colpo» con un’appendice di improperi intraducibili. Modugno, Mimì come lo chiama il suo amico Anselmo Galluzzi, qui è una leggenda, anche se adesso ha i capelli canuti, non più i baffetti malandrini, ma una barba incolta da Ulisse che torni alla sua Itaca. Polignano non lo amava: «Finge d’essere siciliano» dicevano i suoi compaesani accusandolo di aver dimenticato le origini. E lui: «Cantavo in siciliano perché o così o non si lavorava». Ora la rappacificazione, il Modugno-day, anzi due giorni di festa e un gran finale: «Due ore, due ore canterò, sarà uno spettacolo indimenticabile».
Modugno lascia la sua carrozzella su cui passa parte della giornata dopo l’ictus e cammina aiutandosi con il bastone. Si arrampica da solo sul cabinato che lo porta al largo, nelle acque dell’Adriatico in cui imparò a nuotare da ragazzino. Siede a poppa calando sulla testa un cappello da marinaio che un signore gli lancia mentre a centinaia, dalla spiaggia di Cala San Giovanni, intonano Volare, un successo che ha fatto di un giovane squattrinato figlio del Sud un personaggio amato in tutto il mondo. In queste acque Mimì si lanciava da uno scoglio alto dieci metri. «Di piedi, con l’amico Anselmo ma un giorno arrivò un ragazzo handicappato che, senza l’uso delle gambe, correva quasi stando seduto, sulle mani, veloce come una lepre. Arrivò in cima a uno scoglio più alto e con un guizzo si lanciò in acqua, di testa. Ci umiliò. Io amo questi posti, hanno ispirato le mie canzoni. Trascorro le vacanze a Lampedusa perché mi ricorda Polignano di cinquant’anni fa».
Non si può che cadere nell’apologia descrivendo cosa accade adesso nel suo paese, e qui proprio questo volevano, la celebrazione del divo da portare in processione sul mare come un santo. Non fa il bagno, come aveva promesso, Modugno, ma lo fanno giornalisti e fotografi, caduti dalle barche sovraffollate al seguito. Modugno si accontenta di mangiare i polpi crudi che gli offrono i pescatori. Una sola garanzia aveva chiesto mister Volare: «Mi fanno cantare gratis? Bene, se no non mi vedete».
Mimmo Modugno era arrivato all’aeroporto di Bari giovedì alle 20.25. L’attendevano il fido Anselmo, la figlia, un groppone di curiosi. Modugno lancia la prima battuta: «Hai visto, Anselmo, hai visto che barba ho? Sono invecchiato più di te». Un abbraccio forte e poi verso l’uscita e verso la Maserati biturbo marrone che Mimmo raggiunge con passo incerto, esclamando «porca miseria che schianto di macchina».
Nessuno lo riconosce, Mimì, con quel barbone, fino a quando, cristallo abbassato, l’auto passa dinanzi al «Bar Peppino», un santuario di «modugnesi» al pari del «Supermago del Gelo», caffè che espone come cimeli le foto di Mimì. Cena sulla rotonda, lo sguardo fisso al mare. E giù la gente aspetta. Un giovanotto s’infiltra, sfugge. È mezzanotte. Maglietta da marinaio a fasce rosa e bianche, Alberto Selvaggi teme che Modugno lo strangoli. È lui che ha scritto un librettino che mandò in bestia Mimì. «Quante palle hanno raccontato i miei paesani».
s. t.