La Repubblica, domenica 3 febbraio 2008, 16 febbraio 2013
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Nell’Italia di “Volare” (articolo del 3/2/2008)
La Repubblica, domenica 3 febbraio 2008
Per dire come fosse cambiato il clima, quasi all’improvviso, nell’Italia di Volare, occorre ripensare a quella luce azzurrina, il chiarore notturno che traspariva dagli scuri e dalle persiane, e che significava: nelle nostre città, e anche nei paesi, perfino in qualche sperduto casolare di campagna, è arrivato un oggetto strano, una cosa aliena, la scatola magica dei desideri, insomma la televisione. E dunque quando si assiste allo spettacolo di Domenico Modugno che con il suo smoking bianco spalanca le braccia nel ritornello di quella canzone culturalmente sovversiva, non bisogna avere in mente soltanto la platea di Sanremo, con la gente impazzita che alla fine del brano ride, piange, agita i fazzoletti, presa com’è da un’emozione indicibile e nuova. No, le strofe e il ritornello di quella canzone arrivano dappertutto.
Arrivano nelle case, nei salotti, e anche nelle canoniche e nei caffè parrocchiali dove i cappellani più volonterosi e moderni hanno sistemato alla meglio le panche della chiesa, per consentire a tutti, vecchi e bambini compresi, di vedere la serata finale del Festival.
Non conviene credere molto alle interpretazioni più o meno psicoanalitiche, secondo cui il volo sarebbe un sinonimo della sessualità liberata e quindi la solita metafora dell’orgasmo. Tutte storie, è meglio affidarsi all’analisi della civiltà materiale. Allorché Modugno vince, è una grande sorpresa poiché per settimane i suoi colleghi di prima classe lo avevano amichevolmente sfottuto e snobbato, perché «quello lì non sa fare il vibrato»: già, perché non è un melodista tradizionale, e nemmeno uno di quei tenorini di grazia che vanno per la maggiore come Claudio Villa e Luciano Tajoli e che strappano l’applauso con l’acuto. Basta una minima attenzione alla sociologia, e ci si accorge che quando vince quel meridionale figlio della Puglia, quel tipo con i baffetti che “fa” il siciliano, sembra davvero che non abbia vinto soltanto una canzone, e che non ci sia di mezzo soltanto una festa popolare come il Festival di Sanremo.
Altroché, è tutta l’Italia che ha trovato un modo nuovo per vincere. In quel «blu dipinto di blu», inventato da Franco Migliacci su diretta ispirazione chagalliana, vola un Paese intero e quel volo sembra prodigiosamente riassumere una infinità di simboli: compreso, senza saperlo, l’angelo della storia di Walter Benjamin, mutuato da Paul Klee, che procede a ritroso contemplando un teatro di rovine. Solo che qui si tratta di un cantante un po’ matto, né nuovo né antico, genialmente diverso da tutti gli altri, che vola lasciando alle spalle, dietro di sé, gli anni Cinquanta e quindi la paura, la rassegnazione, la povertà, l’angoscia del dopoguerra. E magari abbandona sul terreno anche tutto il centrismo postdegasperiano, che appare già così asfittico mentre si comincia a ragionare seriamente sull’apertura a sinistra.
«Volare, oh oh», e traspare immediatamente la sensazione di un riscatto. Vola Modugno, si solleva sugli anni Cinquanta, si sporge sul decennio successivo, e l’austero critico Massimo Mila scriverà che nella sua voce e nelle sue canzoni sono depositati strati millenari di civiltà musicale e di sonorità mediterranee. Spalanca le braccia, colui che diventerà per i rotocalchi «il Mimmo nazionale», e il suo librarsi in volo, autentico «angelus novus» della canzone, rivela pressoché a tutti la consapevolezza di un’Italia diversa, che ci è già cambiata sotto il naso.
Difatti, basta guardarsi in giro. Stanno asfaltando le strade provinciali. Hanno cominciato a circolare le utilitarie della Fiat, le strepitose creature tecniche di Dante Giacosa, prima la Seicento e poi la Cinquecento, cioè le eredi della Topolino, le auto volute da Vittorio Valletta per dare corpo al capitalismo italiano e a una variante locale del fordismo, nutrita ovviamente dall’idea che la crescita economica è tanto più solida se la classe operaia può comprarsi la macchina che produce alla catena di montaggio.
Ma non ci sono soltanto quelle piccole auto dai colori buffi, che un operaio qualificato della Fiat può acquistare con una decina di stipendi messi da parte o con pacchi di cambiali. Sembra davvero che tutto il Paese abbia deciso di mettersi in volo. E l’oggetto nuovo, il nuovo totem domestico, la televisione, ha un ruolo potentissimo nel propagare la trasformazione degli stili di vita. Figurarsi: il Festival di Sanremo, che le sobrie annunciatrici come Nicoletta Orsomando pronunciano ancora «Festivàl», come pare raccomandi la Crusca, dura soltanto tre serate, mentre Carosello arriva tutte le sere, dopo il telegiornale. E allora Modugno è una sintesi clamorosa, una specie di esplosione improvvisa in cui si ha però l’impressione che si inneschino tutti i fattori e i fenomeni della grande trasformazione. I primi supermercati self service a Roma e Milano, il Mottarello «gelato da passeggio igienico e gustoso», le vacanze in riviera, l’Autostrada del Sole. I consumi vecchi e i consumi nuovi, «Supercortemaggiore la potente benzina italiana», il detersivo Tide con dentro la sorpresa-regalo per i ragazzini, la lavatrice e addirittura il lusso della lavastoviglie, le calze Omsa, il brandy Cavallino rosso, il caffè decaffeinato, insomma tutti i gadget del cambio di stagione sociale e culturale.
È proprio come se la modernizzazione arrivasse dentro le case, dentro il cuore delle famiglie. Passeranno alcuni mesi, dopo l’urlo di Modugno, e poi il Financial Times scriverà che quello dell’economia italiana è davvero un «miracolo», e assegnerà alla lira l’Oscar delle monete. Alla fine, cinquant’anni dopo, Volare è qualcosa di più di un simbolo. Per come sigilla un’epoca sembra quasi il manifesto canoro di una prima integrazione italiana, una specie di unione fra il Sud e il Nord, mentre i «fratelli d’Italia» stanno per conoscere la grande migrazione che cambierà il paesaggio urbano e umano del triangolo industriale. In fondo, e anche per questo, non c’è da stupirsi allora se Volare è diventata un’alternativa legittima, dal basso, all’inno nazionale.
Per dire come fosse cambiato il clima, quasi all’improvviso, nell’Italia di Volare, occorre ripensare a quella luce azzurrina, il chiarore notturno che traspariva dagli scuri e dalle persiane, e che significava: nelle nostre città, e anche nei paesi, perfino in qualche sperduto casolare di campagna, è arrivato un oggetto strano, una cosa aliena, la scatola magica dei desideri, insomma la televisione. E dunque quando si assiste allo spettacolo di Domenico Modugno che con il suo smoking bianco spalanca le braccia nel ritornello di quella canzone culturalmente sovversiva, non bisogna avere in mente soltanto la platea di Sanremo, con la gente impazzita che alla fine del brano ride, piange, agita i fazzoletti, presa com’è da un’emozione indicibile e nuova. No, le strofe e il ritornello di quella canzone arrivano dappertutto.
Arrivano nelle case, nei salotti, e anche nelle canoniche e nei caffè parrocchiali dove i cappellani più volonterosi e moderni hanno sistemato alla meglio le panche della chiesa, per consentire a tutti, vecchi e bambini compresi, di vedere la serata finale del Festival.
Non conviene credere molto alle interpretazioni più o meno psicoanalitiche, secondo cui il volo sarebbe un sinonimo della sessualità liberata e quindi la solita metafora dell’orgasmo. Tutte storie, è meglio affidarsi all’analisi della civiltà materiale. Allorché Modugno vince, è una grande sorpresa poiché per settimane i suoi colleghi di prima classe lo avevano amichevolmente sfottuto e snobbato, perché «quello lì non sa fare il vibrato»: già, perché non è un melodista tradizionale, e nemmeno uno di quei tenorini di grazia che vanno per la maggiore come Claudio Villa e Luciano Tajoli e che strappano l’applauso con l’acuto. Basta una minima attenzione alla sociologia, e ci si accorge che quando vince quel meridionale figlio della Puglia, quel tipo con i baffetti che “fa” il siciliano, sembra davvero che non abbia vinto soltanto una canzone, e che non ci sia di mezzo soltanto una festa popolare come il Festival di Sanremo.
Altroché, è tutta l’Italia che ha trovato un modo nuovo per vincere. In quel «blu dipinto di blu», inventato da Franco Migliacci su diretta ispirazione chagalliana, vola un Paese intero e quel volo sembra prodigiosamente riassumere una infinità di simboli: compreso, senza saperlo, l’angelo della storia di Walter Benjamin, mutuato da Paul Klee, che procede a ritroso contemplando un teatro di rovine. Solo che qui si tratta di un cantante un po’ matto, né nuovo né antico, genialmente diverso da tutti gli altri, che vola lasciando alle spalle, dietro di sé, gli anni Cinquanta e quindi la paura, la rassegnazione, la povertà, l’angoscia del dopoguerra. E magari abbandona sul terreno anche tutto il centrismo postdegasperiano, che appare già così asfittico mentre si comincia a ragionare seriamente sull’apertura a sinistra.
«Volare, oh oh», e traspare immediatamente la sensazione di un riscatto. Vola Modugno, si solleva sugli anni Cinquanta, si sporge sul decennio successivo, e l’austero critico Massimo Mila scriverà che nella sua voce e nelle sue canzoni sono depositati strati millenari di civiltà musicale e di sonorità mediterranee. Spalanca le braccia, colui che diventerà per i rotocalchi «il Mimmo nazionale», e il suo librarsi in volo, autentico «angelus novus» della canzone, rivela pressoché a tutti la consapevolezza di un’Italia diversa, che ci è già cambiata sotto il naso.
Difatti, basta guardarsi in giro. Stanno asfaltando le strade provinciali. Hanno cominciato a circolare le utilitarie della Fiat, le strepitose creature tecniche di Dante Giacosa, prima la Seicento e poi la Cinquecento, cioè le eredi della Topolino, le auto volute da Vittorio Valletta per dare corpo al capitalismo italiano e a una variante locale del fordismo, nutrita ovviamente dall’idea che la crescita economica è tanto più solida se la classe operaia può comprarsi la macchina che produce alla catena di montaggio.
Ma non ci sono soltanto quelle piccole auto dai colori buffi, che un operaio qualificato della Fiat può acquistare con una decina di stipendi messi da parte o con pacchi di cambiali. Sembra davvero che tutto il Paese abbia deciso di mettersi in volo. E l’oggetto nuovo, il nuovo totem domestico, la televisione, ha un ruolo potentissimo nel propagare la trasformazione degli stili di vita. Figurarsi: il Festival di Sanremo, che le sobrie annunciatrici come Nicoletta Orsomando pronunciano ancora «Festivàl», come pare raccomandi la Crusca, dura soltanto tre serate, mentre Carosello arriva tutte le sere, dopo il telegiornale. E allora Modugno è una sintesi clamorosa, una specie di esplosione improvvisa in cui si ha però l’impressione che si inneschino tutti i fattori e i fenomeni della grande trasformazione. I primi supermercati self service a Roma e Milano, il Mottarello «gelato da passeggio igienico e gustoso», le vacanze in riviera, l’Autostrada del Sole. I consumi vecchi e i consumi nuovi, «Supercortemaggiore la potente benzina italiana», il detersivo Tide con dentro la sorpresa-regalo per i ragazzini, la lavatrice e addirittura il lusso della lavastoviglie, le calze Omsa, il brandy Cavallino rosso, il caffè decaffeinato, insomma tutti i gadget del cambio di stagione sociale e culturale.
È proprio come se la modernizzazione arrivasse dentro le case, dentro il cuore delle famiglie. Passeranno alcuni mesi, dopo l’urlo di Modugno, e poi il Financial Times scriverà che quello dell’economia italiana è davvero un «miracolo», e assegnerà alla lira l’Oscar delle monete. Alla fine, cinquant’anni dopo, Volare è qualcosa di più di un simbolo. Per come sigilla un’epoca sembra quasi il manifesto canoro di una prima integrazione italiana, una specie di unione fra il Sud e il Nord, mentre i «fratelli d’Italia» stanno per conoscere la grande migrazione che cambierà il paesaggio urbano e umano del triangolo industriale. In fondo, e anche per questo, non c’è da stupirsi allora se Volare è diventata un’alternativa legittima, dal basso, all’inno nazionale.
Edmondo Berselli