13 febbraio 2013
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Biografia di Elena Curti
• Milano 19 ottobre 1922. Figlia naturale di Benito Mussolini, nata da una relazione con Angela Cucciati, moglie del capo fascista Bruno Curti.• «(...) È nata a Milano il 19 ottobre 1922, una settimana prima della Marcia su Roma, e s’interroga da una vita sulla sua vera identità. Che era figlia del capo del fascismo, e non di Bruno Curti, glielo rivelò sua madre, Angela Cucciati, una donna bellissima originaria di Lodi, amante del Duce dal 1921 al 1945, morta nel 1978. “Avevo già 20 anni. Me lo confessò a bruciapelo, una sera dopo cena. Le chiesi se Mussolini ne fosse informato. “Sì, certo, ma preferisce che per ora tu non lo sappia”, rispose. Da quel giorno passai intere giornate a interrogarmi davanti allo specchio con le foto del Duce e di mio papà”. Elena era stata ammessa al cospetto del suo vero padre per la prima volta nel 1929, all’inaugurazione dell’Umanitaria, un’istituzione milanese di assistenza: “Passava tra due ali di folla festante. Si fermò di colpo, guardò per un attimo mia mamma, poi chinò il capo verso di me, sorrise e mi accarezzò i capelli. Ebbi la sensazione d’essere prescelta”. Fu forse per corrispondere a quella fissazione infantile che, caduto il fascismo, volle rimanere col Duce fino all’ultimo. Quando venne fermata a Dongo, era sull’autoblindo col padre. Un frate la sottrasse alla fucilazione. Rimase in galera cinque mesi. Sua madre testimoniò davanti al vicequestore di Como che era la figlia naturale di Mussolini, evitandole così una condanna per collaborazionismo. Qualcuno ha descritto Elena Curti come una mitomane. (...) “La Domenica del Corriere, allora diretta da Silvio Bertoldi, scrisse che a Dongo ci arrendemmo ai partigiani sventolando come bandiera bianca le mie mutandine. Un’ignominia assurda, che Bertoldi ha riportato anche in un suo libro e che è stata ripresa da altri storici, compreso Antonio Spinosa, col quale poi però feci pace. Circola una foto che mi ritrae ragazzina, in divisa da giovane italiana, accanto al Duce e ad Alessandro Pavolini. È stata messa persino sulla copertina del libro Dal 25 luglio a piazzale Loreto di Filippo Giannini. C’è un piccolo particolare: quella fanciulla non sono io. Concetto Pettinato, il giornalista che Mussolini aveva messo a dirigere La Stampa durante la Rsi e che per primo pubblicò l’immagine nel 1954, mi telefonò: “Su, Elena, non negare. Di che cosa hai paura? Adesso non corri più pericoli”. Si figuri se ho paura. È che la ragazzina non sono io. Mica per altro: a quell’età ero sottotenente del Servizio ausiliario femminile, non giovane italiana”. Elena Curti ha vissuto in Spagna per 40 anni. Oggi abita ad Acquapendente, in provincia di Viterbo. Nel 2008 ha perso il marito, Enrico Miranda, tenente dell’aviazione che il Duce decorò sul campo per l’eroico comportamento tenuto come primo pilota nella battaglia di Pantelleria, quando furono affondate alcune navi inglesi e silurata la corazzata Malaya. “Siamo stati insieme mezzo secolo. Negli ultimi tempi abbiamo sofferto entrambi, perché aveva il morbo di Alzheimer e lo dovevo assistere in tutto e per tutto (...)” (...) Come cominciò la storia d’amore fra sua madre e il Duce? “Per colpa di mio padre, in un certo senso. Si erano sposati troppo giovani. Bruno Curti era un ardito, faceva parte di quelle che oggi vengono definite squadracce (...) Nel 1921 la gente aveva paura a uscire di casa. I reduci di guerra e persino i mutilati venivano insultati per strada. Zio Piero, fratello di mia madre, colpevole solo d’essere uno studente universitario, fu inseguito da un gruppo di esaltati che lo ritenevano un privilegiato. Riuscì a nascondersi nell’androne di un palazzo, mentre il suo amico Ugo Pepe veniva ammazzato a calci e pugni. In questo clima di odio, di fronte alla latitanza di polizia e carabinieri, gli arditi cercavano di mantenere l’ordine pubblico con l’olio di ricino e i manganelli. Senonché durante un’azione di rappresaglia rimase mortalmente ferito il professor Gadda, noto sovversivo, e mio padre finì in galera. Dalla cella supplicava mia madre d’interessare al caso Benito Mussolini, fondatore e direttore del Popolo d’Italia (...) Papà contava molto sul fascino di mia madre, che era attraente e popputa, proprio il tipo di donna preferito da Mussolini. Il mio nonno materno, Giacomo Cucciati, socialista della prima ora, accompagnò la figlia in redazione, in via Paolo da Cannobio. Il direttore la invitò a ritornare. Cominciarono gli appuntamenti al ponte del Naviglio. La chiamava ‘Piccola mia’. Nel riaccompagnarla a casa le diceva: ‘Vorrei che questa strada non finisse mai’. La faceva sognare. La metteva a parte dei suoi progetti: ‘Io voglio salire, salire sempre!’. Telefonava personalmente per fissarle gli appuntamenti. Se non la trovava, si spazientiva e richiamava anche cinque volte di seguito. Quando mio papà uscì dal carcere erano i primi di marzo del 1922”. Ciò significa che lei è settimina. “Oppure che sono nata a termine se mio padre è Mussolini. Per questo non ho mai affermato d’essere la figlia del Duce. Quando mia madre mi svelò il suo segreto, fu uno choc terribile, meditai il suicidio. Ho risolto la mia vita volendo bene a tutti”. Suo padre, Bruno Curti intendo, era al corrente del tradimento? “Probabile, e infatti nel 1929 si separò da mia madre. A Natale del 1945 andai a trovarlo nel carcere di Como. Lo avevano arrestato e mandato sotto processo per la morte del professor Gadda. Mi strinse forte, quasi per impedire che quello che era stato si frapponesse tra noi, e sussurrò: ‘Dimmi, dimmi che sei la mia bambina!’. Mi spezzò il cuore (...) La mia prima udienza a Palazzo Venezia fu il 13 aprile 1941. Difficile dimenticare la data: era la domenica di Pasqua. Mi accompagnava la mamma. Il suo cameriere, Quinto Navarra, ci introdusse nella Sala del Mappamondo. Il Duce salutò mia madre in modo non troppo confidenziale, poi mi guardò intensamente, con aria interrogativa. Vestiva in borghese. L’abito non era né nuovo né di gran taglio. Mi regalò un suo ritratto con dedica che ancora conservo. Era un uomo ipersensibile, in continua lotta con sé stesso. Un giorno gli parlai della mia timidezza, del fatto che non mi sentivo sicura di me stessa. ‘Figurati che io non posso dormire la notte quando ho il dubbio di non essermi comportato in modo appropriato: temo terribilmente il ridicolo’, mi confidò. La violenza lo turbava. A ogni notizia di azioni degli squadristi degenerate nel sangue, scuoteva la testa: ‘Fare è un conto, strafare un altro’. Ce l’aveva a morte con gli inglesi: ‘Sono stufo di questi dannati egoisti, che pretendono d’avere tutto il mondo ai loro piedi. Sono falsi, altezzosi, indesiderabili, disumani. Non sanno perdonare. Non mi avranno mai. Ho in mano documenti sufficienti per svergognarli’ (...) Di sicuro non era il prepotente vendicativo descritto sui libri di storia. Mia madre diceva che era buono, talvolta addirittura ingenuo. Suo fratello Arnaldo e il commendator Reali scoprirono che un fattorino del Popolo d’Italia s’era intascato gli incassi degli abbonamenti, 10.000 lire. Reali mi raccontò che ne parlarono con Benito: volevano la sua autorizzazione per denunciare il dipendente disonesto. ‘Avete detto 10.000 lire? Sono molte?’, replicò lui. Arnaldo s’infuriò: ‘Ma in che mondo vivi? Altro che molte!’. ‘Mandate da me il fattorino’, concluse Mussolini brusco. Quando lo ebbe di fronte, gli disse: ‘Quello che avete fatto è gravissimo. Avete rubato e quindi siete un ladro. Meritate un castigo. Avete moglie?’. Aveva una compagna. ‘Ebbene, andate dalla vostra donna e ditele quello che avete fatto e che siete un ladro. Lei vi disprezzerà e vi abbandonerà. Questa sarà la vostra punizione’. Arnaldo era sbalordito. Il fattorino fu comunque licenziato. Ma qualche tempo dopo, ancora senza lavoro, si ripresentò da Mussolini. E fu riassunto (...) Una volta la mamma andò a mostrargli un pacco di mie fotografie, sperando che mi spianasse la carriera di attrice. ‘Mi piace Elena, ha la mascella quadrata, come la mia’, commentò (...) Ma poi fu irremovibile: ‘Elena è un fiore e non va sciupato’. Convinse mia madre che il mondo del cinema era corrotto e le citò come esempi negativi Amedeo Nazzari e Alida Valli. Qualche tempo dopo mi fece recapitare un volume, Storia della filosofia greca. Grondava di note scritte di suo pugno in matita rossoblù. Fra le pagine c’era una mazzetta di banconote per i miei studi. M’iscrissi al primo anno di Filosofia alla Regia Università di Milano. Dopo qualche tempo mi diede una copia di Cristo si è fermato a Eboli. Lo so che rischio di non essere creduta, perché il libro scritto al confino dall’antifascista Carlo Levi fu pubblicato da Einaudi solo nel 1945, eppure le giuro che il Duce l’aveva letto e volle che anch’io facessi altrettanto (...) La Petacci era piuttosto spudorata nell’esibire socialmente il loro rapporto. Anche mia madre andava a letto col Duce, ma faceva la sarta per mantenersi (...) Dopo averlo frequentato a Gargnano per tutto il periodo della Repubblica sociale, avevo fatto l’impossibile pur di riunirmi a lui sul lago di Como. Quando salì sull’autoblindo, si mostrò stupito: ‘Anche voi qui?’. Teneva sulle ginocchia una cartelletta di pelle a forma di busta, dentro potevano starci al massimo una decina di fogli. Mi guardò: ‘Qui ci sono i destini d’Italia!’. Presumo che si trattasse del carteggio compromettente con Winston Churchill, la prova a suo discarico di fronte al tribunale della storia. Fu tradito dall’ufficiale nazista che era andato a parlamentare con i partigiani, il quale gli fece credere che gli insorti avrebbero lasciato passare i tedeschi ma non gli italiani e lo esortò a seguirlo solo per poterlo usare come merce di scambio. ‘Duce salvatevi!’, urlava la Petacci. Lui era indeciso. Alla fine mormorò: ‘Me ne vado, perché mi fido più dei tedeschi che degli italiani’ (...)”» (Stefano Lorenzetto) [Grn 12/4/2009].