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 2013  febbraio 12 Martedì calendario

Shel Shapiro – Non ho colpe del passato (intervista dell’1 Febbraio 2013)

L’Europeo, 1 Febbraio 2013
La linea telefonica va e viene, come se fossimo negli anni Sessanta. Shel Shapiro, che poi si chiama David Norman, è in un hotel di Roma e parla come Enrico Montesano quando faceva il verso (è passato molto tempo) a una romantica gentildonna inglese, sospiri inclusi. È passato molto tempo anche da quel 45 giri del gruppo di Shapiro, i Rokes, Che colpa abbiamo noi, che vendette 490mila copie. E dal successo dopo il Festival di Sanremo 1967, quello del suicidio di Luigi Tenco.
Shapiro di quel suo periodo d’oro non vuole parlare: «Perché non parliamo dell’attuale situazione politica in Italia?», mi suggerisce. «Perché non mi interessa», tento di spiegare. Insomma non ci capiamo. E la linea telefonica intermittente complica tutto: io urlo come se fossi agli antipodi e lui risponde con lo stesso ac cento di Napoletanx, il ladro bretone incrociato da Asterix in Asterix e la pozione magica, disquisendo di 1968 e politica, di Costituzione e filosofia esistenziale. Il tutto mi sembra piuttosto confuso, ma do la colpa al telefono. E riprovo.
Signor Shapiro...
Shel...
Ok Shel, saltiamo la parte britannica della sua autobiografia e arriviamo subito al momento in cui è arrivato in Italia, nel 1963: lei fece da appoggio a Rita Pavone. Non fu uno shock? Arrivava dall’Inghilterra, dai Beatles...
I Beatles non c’erano ancora!

Veramente erano attivi dal 1960, Love Me Do è del 1962... In ogni caso, mi scusi: ma Rita Pavone?
Lavoro, mia cara, solo lavoro. Ci facevano fare cinque o sei pezzi prima del suo concerto... Io non sapevo neanche chi fosse Rita Pavone. Però così suonavamo davanti a 10mila, che dico, 20mila, l00mila persone...

E poi l’accompagnavate quando cantava le sue canzoni...
Io me ne andavo. Gli altri sì, restavano ad accompagnarla.

Ma mi racconti di quel Sanremo del 1967, un successo... mentre Luigi Tenco si ammassava...
Oh senta, io di quel periodo ho pochissimi ricordi. Ci ho messo una croce sopra. Parliamo d’altro...

Mi scusi ma devo insistere...
Dammi del tu. Io non vivo nel passato, non lo rimpiango. Non lo vorrei indietro.

Beato lei... Ma lo insisto ancora. Allora: radici anglosassoni. Anche musicali?
Oh sentiii! Mia zia era professoressa di pianoforte alla Royal Academy di Londra, mio zio suonava l’organo in tutto il mondo, mia madre era pianista, mio cugino era una voce bianca del coro di Westminster. E mio nonno, oh mio nonno Salomon, che era ebreo e russo, suonava il corno nella banda dello zar Nicola II e fece una stola...

Sì, sì questa storia la so: fece una stola alla zarina, perché era anche pellicciaio e questo servì ad avere i permessi per emigrare in Inghilterra ed evitare i pogrom... Ma torniamo alla musica, Shel, la prego: insomma la sua è stata una formazione prettamente classica.
Oh no, cioè sì, ma io ero un ribelle e mi piaceva il rock.

E forse anche il jazz?
No, il jazz non mi piaceva.

Ora le piace? Sa, per i musicisti è importante...
Oh storie! Dipende da chi suona. Miles Davis starei ad ascoltarlo settimane. Gli altri...

Va, bene, allora il rock. E che cosa significava piombare in Italia a inizio anni Sessanta, nell’Italia di Orietta Berti, Domenico Modugno e Claudio Villa, e suonare il rock?
Che domanda! Noi mica ci chiedevamo queste cose! Volevamo suonare e basta, nessuno ci rifletteva. Era solo voglia di suonare...

E quindi andava bene anche suonare con Rita Pavone...
No, senti, scusa...

Ah già ci diamo del tu. Ma allora perché sei rimasto in Italia? Che interesse aveva dal punto di vista musicale? C’erano molti altri stranieri che arrivavano e...
Dal punto di vista musicale?! Ma che domande?! Qui ho avuto successo e ho la mia famiglia. Sono cose a cui non si rinuncia facilmente. E poi ho passato tutti gli anni Ottanta negli Stati Uniti.

Mettiamola così allora: perché non sei andato prima negli Stati Uniti?
Perché qui potevo lavorare bene, ho trovato i miei affetti. In America sono andato quando ho iniziato a fare il produttore. Ho portato lì Mia Martini, Riccardo Cocciante: erano molto conosciuti sul mercato ispano-americano. Ho prodotto anche Rino Gaetano ed Enrico Ruggeri.

Da musicista a produttore: com’è il passaggio? Hai continuato a scrivere per loro la musica?
Suggerivo... no, decidevo.

Sintetico, direi. E poi, nel 1991, è arrivato anche il teatro: fare il produttore non ti bastava più?
Oh, sai, la musica può essere troppo piccola a volte... ma no, insomma, non ci sono motivazioni logiche. Uno ti fa una proposta e tu dici: ok, proviamo.

E anche 11, il video che hai appena fatto uscire, in cui canti i primi articoli della Costituzione italiana, anche quello è un caso ? Singolare...
Oh be’ sai, va così. Uno dice: proviamo! E si prova.

Senti Shel, ti ho chiesto di 11 perché mi sembra che tu non abbia voglia di parlare degli anni Sessanta e della canzone. Se vuoi lasciamo perdere, non posso mica chiederti delle stragi di Stato!
Oh, perché no?! Dai, parliamo delle stragi di Stato, quello mi interessa. Di quello parlo.

Ma non interessa a me, non in questo momento almeno...
Anni Sessanta, anni Sessanta... tutti che vogliono parlare degli anni Sessanta: volevano parlarne anche l’altro giorno, a una presentazione di 11...

Forse c’è qualche ragione, forse lì ci sono le radici della nostra storia attuale...
Ma perché invece non ti chiedi come mai uno che ha inaugurato un locale come il Piper, a Roma, è finito a cantare la Costituzione italiana?
Ma è proprio quello che ti sto chiedendo!
Allora parliamo di stragi di Stato?

No!
Oh senti, alle origini del successo di chiunque c’è un colpo di culo: ti trovi al posto giusto, nel momento giusto...

Non vedo il nesso...
Mi sono trovato al momento giusto e nel posto giusto, ossia il Piper, a Roma. Ma poi uno va avanti perché ha la convinzione...
Al Piper?
Noi Rokes abbiamo scritto le canzoni più sociali di questo Paese! Curioso, no?, che l’abbiano fatto degli stranieri, non trovi?

Non tanto: avete preparato il 1968 in un Paese molto provinciale...
Noi siamo i simboli della pre-rivoluzione... che poi non c’è stata: il 1968 è fallito al 90%, la voglia di cambiare è diventata un pretesto per coprire gli estremismi di destra e sinistra e...

Ok, ok, ma torniamo al Piper...
Noi non c’entravamo nulla con i ragazzi che ballavano al Piper!

Ma i Giganti, proprio a Sanremo nel 1967, cantavano, in Proposta: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni...».
Storie! Era una musica condizionata da una finta rivoluzione, che ha creato nuovi eroi post-1968: Antonello Venditti, Francesco De Gregori, Riccardo Cocciante... noi no, a noi Rokes, a Mina, a Gianni Morandi, ad Adriano Celentano, all’Equipe 84 ci hanno dimenticato...

Vi hanno scippato la rivoluzione, in poche parole...
Oh, dopo hanno scritto migliaia di parole su musiche inesistenti!

De Gregori e Cocciante?!
Ma no! Quattro o cinque, quelli che ho citato, erano persone di talento. Poi ci sono casi di sopravvissuti: i Pooh, che avevano fatto Piccola Katy nel 1968, ma non sono stati associati ai simboli pre-rivoluzione.

Scusa non capisco: si sono salvati i Pooh e non voi che facevate canzoni "sociali"?
Sì, noi siamo stati cancellati. Ma poi ci hanno recuperato. Ci pensi, una volta Mario Capanna mi ha confessato: «Lo sai che pensavo che foste fascisti?!». Fascisti noi?!! C’era una grande confusione, allora.

Però tu hai smesso con i Rokes...
Già, non mi piacevano i contesti...

I contesti?
Insomma io non voglio partecipare, voglio condurre!

Vero spirito rivoluzionario...
Ma che hai capito?! In ogni caso ho scelto di scrivere, ho fatto l’arrangiatore e il produttore. Volevo cercare di fare la mia musica.

Capisco, si rischia sempre di rimanere prigionieri dei clichés...
Be’ sai, mi ero sposato, avevo trovato il mio equilibrio, non avevo bisogno di aver per forza successo... oh, questa è una fesseria: la verità è che rimaniamo tutti in qualche modo imprigionati. Il successo è una brutta bestia, sai: non è mica facile rinunciarvi.

E quindi che cosa hai fatto?
Ho lavorato in Italia e all’estero al successo di tanti altri cantanti: Raffaella Carrà, Patty Pravo, Ornella Vanoni, Mia Martini, Riccardo Cocciante...

E ti divertivi così?
Mentre lo facevo mi divertivo...

Poi non ti sei divertito più. E adesso come ti diverti?
Facendo concerti o teatro: mi piace il contatto diretto con il pubblico. Se ci pensi: fare Il mercante di Venezia in prova, ossia William Shakespeare con Moni Ovadia... una follia. Per questo mi è piaciuto: dai locali, anzi dai bordelli di Amburgo a Shakespeare, ragazzi, è pazzesco!

Scusa: bordelli?
Oh sì, nel 1963 facemmo una tournée ad Amburgo: quei locali erano pessimi, capisci. È in quei locali che siamo cresciuti... quando andava bene erano solo ubriachi, il pubblico voglio dire. Se no, droga, prostituzione, gentaglia... Passavi il 90 per cento del tempo a difenderti.

Epico...
È poetico solo sulla carta. Già in foto è molto meno bello.

Va bene, torniamo alla canzone. Con chi hai lavorato bene?
Luca Barbarossa, Mimì (Mia Martini)... oh sai, non è carino fare nomi... Alcuni sono stati deludenti, certo, ma siamo tutti deludenti in qualche modo, no?

Eh già... Proviamo ancora: non credi che negli anni Sessanta la musica avesse un ruolo davvero importante?
Oh, dai, era l’unica cosa che c’era! L’unico punto di aggregazione. Ora la musica è uno dei tanti modi per i giovani di aggregarsi, solo uno...

A me sembra che la consumino molto in solitario, con l’iPod...
Già ma pensa al video Gangnam Style: l’ha visto un miliardo di persone, capisci? È un cambiamento storico.

Anni Sessanta, anni Sessanta. Com’erano gli italiani negli anni Sessanta agli occhi di uno straniero?
Era un Paese innocente.

Scherzi?! Era il Paese che preparava le stragi di Stato, ricordi?
Forse i genitori erano un po’ meno innocenti... ma vedi, quando si esce da una guerra si cerca la normalità. E la normalità è l’innocenza. Comunque era un Paese grigio. No anzi, in bianco e nero: hai idea di quante donne girassero vestite di nero per il lutto?

Capisco che potesse colpire... ma tu...
Senti, mi rendo conto che non ti sto raccontando niente. Perché non leggi Io sono immortale, la mia autobiografia (Mondadori)?

La divorerò. Ma insomma, voi com’eravate? Innocenti, anche voi?
Oh sì, noi sognavamo l’anarchia, una libertà vergine... eravamo piccoli anarchici innocenti... per questo cantavamo Che colpa abbiamo noi... ma tu ti rendi conto che è tutto lì? Io lo chiedo sempre: vi rendete conto che quello è il problema degli italiani?

Scusa?
Ma sì: diciamo sempre che la colpa è di qualcun altro!

No, no, scusa: eravate voi a dire che la colpa era di qualcun altro...
Già, e così nessuno si è preso la sua responsabilità e il Paese è andato com’è andato... Non c’è nulla che si consuma in fretta come la rabbia giovanile... oh bella questa frase!

Perché non te la segni? Magari potrebbe servirti ancora.
Già messa: nel prossimo spettacolo. (Il 27 gennaio 2013 Shapiro ha interpretato Il torto del soldato a Rivalta di Torino, ndr).

Valeria Palumbo