L’Europeo, 1 Febbraio, 2013, 12 febbraio 2013
Tags : Il Festival di Sanremo
Mara Maionchi e Alberto Salerno - In due dietro il sipario (intervista del 1 Febbraio 2013)
L’Europeo, 1 Febbraio, 2013
Lucio Battisti finanziatore di Ordine nuovo? Fascista, missino? Tutte sciocchezze. Fabrizio De André? Non me lo ricordo come un rivoluzionario. Era molto più borghese di Lucio». Mara Maionchi, produttrice discografica e talent scout, spazza via etichette e stereotipi. In quasi 50 anni di carriera (da segretaria a direttore artistico della Fonit Cetra, da produttrice indipendente a personaggio televisivo) ha seguito il percorso musicale di uomini e donne che hanno fatto la storia della canzone italiana e ne ha curato i rapporti con la stampa. Nel Cantagiro del 1969 ha difeso cantanti bersagliati da pomodori e uova marce. Poi ha scoperto e lanciato, tra gli altri, Gianna Nannini, Mango, Tiziano Ferro. Assieme al marito, il paroliere Alberto Salerno, ha fondato le etichette Nisa e Non ho l’età. Dopo tante edizioni di Sanremo vissute da addetta ai lavori, quest’anno, al Festival 2013, Mara Maionchi riceverà il premio “Dietro le quinte”. Nella stanza dei bottoni della musica leggera lei ci è entrata per caso, con la stessa determinazione con la quale nel 2008 ha bucato lo schermo televisivo come giudice del talent show X Factor. Per lei la ricerca-spettacolo di nuovi talenti in televisione continua: per il terzo anno è insegnante-selezionatrice nella “scuola” di Amici.
Da giudice a professoressa di canto. Morgan l’ha accusata di essere stonata.
Più che stonata. Una bestia. Cantare non è il mio mestiere. Il mio lavoro è sollecitare il talento degli altri, dire agli artisti quello che non va bene. X Factor l’ho fatto per quattro anni e mi sono molto divertita. Con il programma di Maria De Filippi lanciamo ragazzi ancora più giovani, li seguiamo sin da quando sono all’inizio, come con Gerardo Pulli, vincitore di Amici 11. Un concorrente di talent show, se recuperato, può diventare un artista.
Recuperato?
Per recuperare intendo dire che deve studiare, essere seguito e avere a disposizione il tempo per crescere. Tiziano Ferro ha lavorato con me tre anni prima di affrontare il pubblico e Gianna Nannini ben sette. Al di là del talento, che è sempre la base degli artisti, c’è un lungo cammino da percorrere. Il talento è un work in progress, ti dà la forza di pensare che tutto può migliorare. Oggi si pretende subito il prodotto di successo, senza fatica, e si investono pochi soldi sui giovani. Invece la bottega è fondamentale.
Qual è stata la sua, di gavetta?
Iniziai nel 1967 grazie a un annuncio: «Cercasi segretaria per l’ufficio stampa di una casa discografica, Ariston Records». L’etichetta aveva sotto contratto Ornella Vanoni, Mino Reitano, Bruno Lauzi. Poi, incarico dopo incarico, passando da una casa discografica all’altra, ho conosciuto e promosso Lucio Battisti, Mogol, Fabrizio De André.
Tutti artisti dal carattere difficile, introversi. Ornella Vanoni in testa.
Lei era già una gran signora, molto professionale. Il mio compito era metterla in luce: cantava in modo particolare, era particolare, ma non appariva sulle copertine dei giornali perché, secondo Vittorio Buttafava, direttore del settimanale Oggi, non era ancora «un personaggio simpatico al grande pubblico» come Mina. Ornella ci soffriva un po’. Per farle avere la sua prima copertina architettai un vero assedio. Mi piazzai per due giorni di fila davanti all’ufficio di Buttafava. Senza chiedere nulla, ma rimasi lì. Ed ebbi la copertina: Ornella insieme con il figlio Cristiano a Forte dei Marmi, seduti sul muretto con indosso vestiti leggeri, estivi. A proposito di vestiti: Ornella sul palcoscenico sfoggiava capi di sartoria, ma li metteva solo due o tre volte. Avevamo circa la stessa taglia e spesso, per ringraziarmi di averle fatto ottenere un articolo, o un’intervista, mi regalava gli abiti. Mi diede anche una pelliccia che le aveva portato Bedi Moratti dalla Francia. È stato il periodo più elegante della mia vita.
Dopo Ornella Vanoni da promuovere, ecco per lei un problema opposto: Lucio Battisti da proteggere dal successo. E dalla scomunica politica: i ragazzi di sinistra lo ascoltavano di nascosto.
Con lui non ho mai parlato di politica. Lucio era un pacioccone, un ragazzo tranquillo, sereno. Anche spiritoso. Una volta eravamo insieme al supermercato, a Molteno (Lecco), dove abitava, e fuori c’era una ressa di ragazze. «Sei Lucio Battisti?». «Magari!», rispose lui. L’album Il mio canto libero uscì nel 1972. L’anno dopo fu sciolto Ordine nuovo (dal ministro dell’interno Paolo Emilio Taviani, con l’accusa di ricostituzione del disciolto partito fascista, ndr). Gli estremisti sui volantini scrissero: «Ci chiudono ma non fermeranno il nostro canto libero». E a Lucio, che non era politicamente allineato come i cantautori dell’epoca, appiopparono l’etichetta di cantante di destra. In quegli anni o eri comunista o fascista. Quel pomeriggio del 12 dicembre 1969, alle 16.37, quando in piazza Fontana a Milano scoppiò la bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura, Lucio era nel mio ufficio, in galleria del Corso. Il padre di Mogol disse subito: «Questa è una bomba». E noi due: «Una bomba? Di pomeriggio? A Milano?».
Battisti cantava Emozioni quando si parlava di ingiustizie sociali. Innocenti evasioni quando in piazza si urlavano slogan impegnati. E indossava dolcevita neri.
Era una persona libera, era concentrato sul lavoro. Aveva un ego fortissimo solo sulla sua scrittura, non aveva il culto dell’immagine, non amava apparire, soprattutto in televisione. Non voleva essere amato per quello che era, ma per la musica. Ha sempre detto: «L’artista non segue il suo pubblico, ma lo anticipa». Quello tra Battisti e Mogol è stato un miracolo d’incontro. Insieme hanno aperto nuove strade. Hanno modernizzato la canzone italiana e l’hanno avvicinata a tutto ciò che accadeva nel mondo.
Passando di mito in mito, pregi e difetti di Fabrizio De André?
Intelligentissimo, colto. E divertente. Non era facile lavorare con lui, bisognava sempre presentargli le cose nel modo giusto. Come Battisti, Fabrizio non amava andare in tv. Aveva dei momenti di chiusura totale. Nel 1978, dopo il successo di Andrea (dall’album Rimini), si rifiutò di andare in Germania per il tour promozionale. Era la disperazione dei produttori: era molto lento, impiegava qualche anno a preparare i dischi. Durante il suo sequestro (quattro mesi di prigionia insieme con Dori Ghezzi, tra l’agosto e il dicembre 1979, sui monti della Sardegna, nelle mani dell’anonima sequestri, ndr) alla Ricordi siamo rimasti tutti zitti, per paura di dire sciocchezze. Poi, dopo la loro liberazione, uscì l’album della rinascita: Fabrizio De André (1981), ribattezzato dai fan “L’indiano”. Avevo impiegato mesi per ottenere i diritti per pubblicare in copertina The Outlier (1909), un nativo americano a cavallo, opera dell’artista statunitense Frederic Remington (1861 1909). Fabrizio ne fu molto contento.
L’elenco dei diamanti grezzi scoperti e tagliati da Mara Maionchi.
Claudio Baglioni nel 1970 era molto giovane, con gli occhiali. Non riusciva a sfondare. Aveva già scritto Signora Lia. A Cascia, seduti su un muretto, mi chiese: «Mara, pensi che avrò mai successo?». «Certamente sì. Devi solo concentrarti un po’ di più». Gianna Nannini, non ancora ventenne, venne per la prima volta nel mio studio accompagnata, come le ragazze di buona famiglia, da una persona di fiducia del padre. Si sedette al pianoforte e mi presentò una canzone terrificante, sua. Riconobbi il carattere e la aiutai, all’inizio anche economicamente, perché suo padre la ostacolava, la sognava al timone dell’azienda di famiglia. Dopo due dischi che non ottennero molto successo l’amministratore delegato della Ricordi mi chiese: «Ma sei sicura che è forte?». E io: «Gianna è fortissima». Sfondò solo col terzo disco, California (1979) trainato dal singolo America. Lei è tutto, è un uomo, è una donna, è un personaggio indipendente, vive fuori dagli schemi, non si può imbrigliarla. Tiziano Ferro l’ho conosciuto all’Accademia di Sanremo. Pesava più di cento chili, cantava una canzone modesta, ma aveva una timbrica fantastica. Meno male che al Festival non lo scelsero, perché non era pronto. Abbiamo lavorato insieme tre anni e, crescendo, ha trovato la sua dimensione.
Vedrà il Festival di Sanremo?
Certamente, in televisione, con mio marito Alberto, comodamente seduti nel salotto di casa. Sanremo non è un terno al lotto. È – dovrebbe essere – il frutto di un lavoro serio. La qualità è tutto, anche nella musica popolare. Spente le luci dell’Ariston rimane solo quello che vale. Senza talento non succede niente. Ma anche senza mestiere può non succedere niente. Un chirurgo, uno chef diventano famosi dopo anni di lavoro. Perché la musica dovrebbe andare “a culo”?
Se Mara Maionchi ruba la scena ai cantanti litigando in televisione nei talent show e gira spot di Telecom Italia diretta da Gabriele Muccino, a suo marito, il paroliere Alberto Salerno (conosciuto quando lui aveva 16 anni e lei 26, sposato nel 1976 quando lui aveva 25 anni e lei 34), il dietro le quinte della canzone italiana non è mai andato stretto. Eppure Io vagabondo (1972) è rimasta nove mesi in classifica, ma tutti si ricordano dei Nomadi. Tante le sue canzoni che hanno vinto Sanremo: Bella da morire (1977, cantata dagli Homo Sapiens), Terra promessa (1984, Eros Ramazzotti nelle Nuove proposte), Senza pietà (1999, Anna Oxa), Per dire di no (2003, Alexia).
Trionfare al Festival della canzone italiana e non apparire sulle copertine dei giornali. Neanche un pizzico di invidia per gli applausi ai cantanti?
All’inizio della carriera mi bastava vedere il mio nome stampato sui 45 giri. Sulla facciata B, ovviamente: noi giovani facevamo la gavetta. Gli autori stanno in cucina e servono i piatti agli altri, ci si abitua presto all’idea che la gente associa la tua canzone al cantante. Dietro un successo non c’è una sola persona. La cosa importante è il risultato, fare parte di una squadra vincente, non ci sono solo gli autori e i cantanti, c’è anche l’arrangiatore. Ogni mio successo lo devo anche a grandi cantanti e a grandi musicisti.
Suo padre, Nicola Salerno, era il paroliere di Renato Carosone. I suoi primi ricordi musicali?
Papà mi portava in sala di registrazione di Renato Carosone, all’epoca di Torero. Ero un bambino, toccavo tutto, iniziavo a scoprire il mondo della musica. Mi lasciavano fare, Carosone si divertiva. A casa nostra veniva Domenico Modugno, vivacissimo. Faceva irruzione nella camera mia e di mio fratello e iniziava a pestare sul pianoforte. Insieme con mio padre ho firmato la mia prima canzone, Avevo un cuore che ti amava tanto.
Sta scrivendo nuove canzoni?
Ho “appeso la penna al chiodo”. Non ci sono più artisti adatti ai miei testi. Come potrei scrivere per un ventenne?
Lucio Battisti finanziatore di Ordine nuovo? Fascista, missino? Tutte sciocchezze. Fabrizio De André? Non me lo ricordo come un rivoluzionario. Era molto più borghese di Lucio». Mara Maionchi, produttrice discografica e talent scout, spazza via etichette e stereotipi. In quasi 50 anni di carriera (da segretaria a direttore artistico della Fonit Cetra, da produttrice indipendente a personaggio televisivo) ha seguito il percorso musicale di uomini e donne che hanno fatto la storia della canzone italiana e ne ha curato i rapporti con la stampa. Nel Cantagiro del 1969 ha difeso cantanti bersagliati da pomodori e uova marce. Poi ha scoperto e lanciato, tra gli altri, Gianna Nannini, Mango, Tiziano Ferro. Assieme al marito, il paroliere Alberto Salerno, ha fondato le etichette Nisa e Non ho l’età. Dopo tante edizioni di Sanremo vissute da addetta ai lavori, quest’anno, al Festival 2013, Mara Maionchi riceverà il premio “Dietro le quinte”. Nella stanza dei bottoni della musica leggera lei ci è entrata per caso, con la stessa determinazione con la quale nel 2008 ha bucato lo schermo televisivo come giudice del talent show X Factor. Per lei la ricerca-spettacolo di nuovi talenti in televisione continua: per il terzo anno è insegnante-selezionatrice nella “scuola” di Amici.
Da giudice a professoressa di canto. Morgan l’ha accusata di essere stonata.
Più che stonata. Una bestia. Cantare non è il mio mestiere. Il mio lavoro è sollecitare il talento degli altri, dire agli artisti quello che non va bene. X Factor l’ho fatto per quattro anni e mi sono molto divertita. Con il programma di Maria De Filippi lanciamo ragazzi ancora più giovani, li seguiamo sin da quando sono all’inizio, come con Gerardo Pulli, vincitore di Amici 11. Un concorrente di talent show, se recuperato, può diventare un artista.
Recuperato?
Per recuperare intendo dire che deve studiare, essere seguito e avere a disposizione il tempo per crescere. Tiziano Ferro ha lavorato con me tre anni prima di affrontare il pubblico e Gianna Nannini ben sette. Al di là del talento, che è sempre la base degli artisti, c’è un lungo cammino da percorrere. Il talento è un work in progress, ti dà la forza di pensare che tutto può migliorare. Oggi si pretende subito il prodotto di successo, senza fatica, e si investono pochi soldi sui giovani. Invece la bottega è fondamentale.
Qual è stata la sua, di gavetta?
Iniziai nel 1967 grazie a un annuncio: «Cercasi segretaria per l’ufficio stampa di una casa discografica, Ariston Records». L’etichetta aveva sotto contratto Ornella Vanoni, Mino Reitano, Bruno Lauzi. Poi, incarico dopo incarico, passando da una casa discografica all’altra, ho conosciuto e promosso Lucio Battisti, Mogol, Fabrizio De André.
Tutti artisti dal carattere difficile, introversi. Ornella Vanoni in testa.
Lei era già una gran signora, molto professionale. Il mio compito era metterla in luce: cantava in modo particolare, era particolare, ma non appariva sulle copertine dei giornali perché, secondo Vittorio Buttafava, direttore del settimanale Oggi, non era ancora «un personaggio simpatico al grande pubblico» come Mina. Ornella ci soffriva un po’. Per farle avere la sua prima copertina architettai un vero assedio. Mi piazzai per due giorni di fila davanti all’ufficio di Buttafava. Senza chiedere nulla, ma rimasi lì. Ed ebbi la copertina: Ornella insieme con il figlio Cristiano a Forte dei Marmi, seduti sul muretto con indosso vestiti leggeri, estivi. A proposito di vestiti: Ornella sul palcoscenico sfoggiava capi di sartoria, ma li metteva solo due o tre volte. Avevamo circa la stessa taglia e spesso, per ringraziarmi di averle fatto ottenere un articolo, o un’intervista, mi regalava gli abiti. Mi diede anche una pelliccia che le aveva portato Bedi Moratti dalla Francia. È stato il periodo più elegante della mia vita.
Dopo Ornella Vanoni da promuovere, ecco per lei un problema opposto: Lucio Battisti da proteggere dal successo. E dalla scomunica politica: i ragazzi di sinistra lo ascoltavano di nascosto.
Con lui non ho mai parlato di politica. Lucio era un pacioccone, un ragazzo tranquillo, sereno. Anche spiritoso. Una volta eravamo insieme al supermercato, a Molteno (Lecco), dove abitava, e fuori c’era una ressa di ragazze. «Sei Lucio Battisti?». «Magari!», rispose lui. L’album Il mio canto libero uscì nel 1972. L’anno dopo fu sciolto Ordine nuovo (dal ministro dell’interno Paolo Emilio Taviani, con l’accusa di ricostituzione del disciolto partito fascista, ndr). Gli estremisti sui volantini scrissero: «Ci chiudono ma non fermeranno il nostro canto libero». E a Lucio, che non era politicamente allineato come i cantautori dell’epoca, appiopparono l’etichetta di cantante di destra. In quegli anni o eri comunista o fascista. Quel pomeriggio del 12 dicembre 1969, alle 16.37, quando in piazza Fontana a Milano scoppiò la bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura, Lucio era nel mio ufficio, in galleria del Corso. Il padre di Mogol disse subito: «Questa è una bomba». E noi due: «Una bomba? Di pomeriggio? A Milano?».
Battisti cantava Emozioni quando si parlava di ingiustizie sociali. Innocenti evasioni quando in piazza si urlavano slogan impegnati. E indossava dolcevita neri.
Era una persona libera, era concentrato sul lavoro. Aveva un ego fortissimo solo sulla sua scrittura, non aveva il culto dell’immagine, non amava apparire, soprattutto in televisione. Non voleva essere amato per quello che era, ma per la musica. Ha sempre detto: «L’artista non segue il suo pubblico, ma lo anticipa». Quello tra Battisti e Mogol è stato un miracolo d’incontro. Insieme hanno aperto nuove strade. Hanno modernizzato la canzone italiana e l’hanno avvicinata a tutto ciò che accadeva nel mondo.
Passando di mito in mito, pregi e difetti di Fabrizio De André?
Intelligentissimo, colto. E divertente. Non era facile lavorare con lui, bisognava sempre presentargli le cose nel modo giusto. Come Battisti, Fabrizio non amava andare in tv. Aveva dei momenti di chiusura totale. Nel 1978, dopo il successo di Andrea (dall’album Rimini), si rifiutò di andare in Germania per il tour promozionale. Era la disperazione dei produttori: era molto lento, impiegava qualche anno a preparare i dischi. Durante il suo sequestro (quattro mesi di prigionia insieme con Dori Ghezzi, tra l’agosto e il dicembre 1979, sui monti della Sardegna, nelle mani dell’anonima sequestri, ndr) alla Ricordi siamo rimasti tutti zitti, per paura di dire sciocchezze. Poi, dopo la loro liberazione, uscì l’album della rinascita: Fabrizio De André (1981), ribattezzato dai fan “L’indiano”. Avevo impiegato mesi per ottenere i diritti per pubblicare in copertina The Outlier (1909), un nativo americano a cavallo, opera dell’artista statunitense Frederic Remington (1861 1909). Fabrizio ne fu molto contento.
L’elenco dei diamanti grezzi scoperti e tagliati da Mara Maionchi.
Claudio Baglioni nel 1970 era molto giovane, con gli occhiali. Non riusciva a sfondare. Aveva già scritto Signora Lia. A Cascia, seduti su un muretto, mi chiese: «Mara, pensi che avrò mai successo?». «Certamente sì. Devi solo concentrarti un po’ di più». Gianna Nannini, non ancora ventenne, venne per la prima volta nel mio studio accompagnata, come le ragazze di buona famiglia, da una persona di fiducia del padre. Si sedette al pianoforte e mi presentò una canzone terrificante, sua. Riconobbi il carattere e la aiutai, all’inizio anche economicamente, perché suo padre la ostacolava, la sognava al timone dell’azienda di famiglia. Dopo due dischi che non ottennero molto successo l’amministratore delegato della Ricordi mi chiese: «Ma sei sicura che è forte?». E io: «Gianna è fortissima». Sfondò solo col terzo disco, California (1979) trainato dal singolo America. Lei è tutto, è un uomo, è una donna, è un personaggio indipendente, vive fuori dagli schemi, non si può imbrigliarla. Tiziano Ferro l’ho conosciuto all’Accademia di Sanremo. Pesava più di cento chili, cantava una canzone modesta, ma aveva una timbrica fantastica. Meno male che al Festival non lo scelsero, perché non era pronto. Abbiamo lavorato insieme tre anni e, crescendo, ha trovato la sua dimensione.
Vedrà il Festival di Sanremo?
Certamente, in televisione, con mio marito Alberto, comodamente seduti nel salotto di casa. Sanremo non è un terno al lotto. È – dovrebbe essere – il frutto di un lavoro serio. La qualità è tutto, anche nella musica popolare. Spente le luci dell’Ariston rimane solo quello che vale. Senza talento non succede niente. Ma anche senza mestiere può non succedere niente. Un chirurgo, uno chef diventano famosi dopo anni di lavoro. Perché la musica dovrebbe andare “a culo”?
Se Mara Maionchi ruba la scena ai cantanti litigando in televisione nei talent show e gira spot di Telecom Italia diretta da Gabriele Muccino, a suo marito, il paroliere Alberto Salerno (conosciuto quando lui aveva 16 anni e lei 26, sposato nel 1976 quando lui aveva 25 anni e lei 34), il dietro le quinte della canzone italiana non è mai andato stretto. Eppure Io vagabondo (1972) è rimasta nove mesi in classifica, ma tutti si ricordano dei Nomadi. Tante le sue canzoni che hanno vinto Sanremo: Bella da morire (1977, cantata dagli Homo Sapiens), Terra promessa (1984, Eros Ramazzotti nelle Nuove proposte), Senza pietà (1999, Anna Oxa), Per dire di no (2003, Alexia).
Trionfare al Festival della canzone italiana e non apparire sulle copertine dei giornali. Neanche un pizzico di invidia per gli applausi ai cantanti?
All’inizio della carriera mi bastava vedere il mio nome stampato sui 45 giri. Sulla facciata B, ovviamente: noi giovani facevamo la gavetta. Gli autori stanno in cucina e servono i piatti agli altri, ci si abitua presto all’idea che la gente associa la tua canzone al cantante. Dietro un successo non c’è una sola persona. La cosa importante è il risultato, fare parte di una squadra vincente, non ci sono solo gli autori e i cantanti, c’è anche l’arrangiatore. Ogni mio successo lo devo anche a grandi cantanti e a grandi musicisti.
Suo padre, Nicola Salerno, era il paroliere di Renato Carosone. I suoi primi ricordi musicali?
Papà mi portava in sala di registrazione di Renato Carosone, all’epoca di Torero. Ero un bambino, toccavo tutto, iniziavo a scoprire il mondo della musica. Mi lasciavano fare, Carosone si divertiva. A casa nostra veniva Domenico Modugno, vivacissimo. Faceva irruzione nella camera mia e di mio fratello e iniziava a pestare sul pianoforte. Insieme con mio padre ho firmato la mia prima canzone, Avevo un cuore che ti amava tanto.
Sta scrivendo nuove canzoni?
Ho “appeso la penna al chiodo”. Non ci sono più artisti adatti ai miei testi. Come potrei scrivere per un ventenne?
Anna Maria D’Urso