L’Europeo, 1953, 12 febbraio 2013
Tags : Il Festival di Sanremo
Troppi pianti a canzonetta (articolo del 1953)
L’Europeo, 1953
Mentre le coppie di innamorati passeggiavano sotto gli alberi gonfi di mimose, nell’aria profumata dai doppi narcisi e dalle violacciocche; mentre gli artritici in cura dal professor Franco Negri si confidavano sorridendo i loro progressi, e le vecchie straniere dai capelli rosa e turchini si facevano condurre in automobile lungo la costiera da giovani chauffeurs decorati all’occhiello del nuovo e splendido garofano di nome Federa, per tre sere di seguito (il 29, il 30 e il 31 gennaio 1953) si pianse nella sala spettacoli del Casinò municipale. Si pianse sull’amante che non torna, sull’uomo che finge d’amare ma in realtà pensa a un’altra, sulla mamma del cieco che a furia di lacrime si consuma gli occhi, sulla vecchiaia che inesorabile avanza, sulla signora che scappa di casa lasciando soltanto il cane a consolare il marito, sul tamburino del reggimento che muore sul campo, gli danno la medaglia d’oro e tutti lo dimenticano, sui soldati morti irrigiditi nella neve, sulle logore scarpe da montagna degli alpini. Durante il terzo Festival della canzone italiana, infatti, le cantanti in abito da sera corrugarono molto spesso le lor giovani fronti davanti al microfono arricciando le labbra in smorfie di vero dolore, mentre i tenori con le loro manine facevano piccoli gesti afflitti, e qualcuno, cantando, pareva proprio che amaramente piangesse. Nelle 20 canzoni presentate al giudizio del pubblico, le parole più ripetute furono “lacrime”, “pianto”, “piangere”, “disperato”, “tristezza”, “angoscia”, e poi “chiesetta”, “Redentore”, “altare”, cantate queste con patetici riferimenti a matrimoni mancati e soprattutto a defunti. L’interpretazione più sorprendente fu quella che Nilla Pizzi fece della canzone Campanaro. In gran décolleté, la testa fiammeggiante, e dappertutto gioielli, questa cantante dall’aria soddisfatta si andava domandando a tempo di musica perché mai suonasse la campana il campanaro delle “Sette croci”. E con la sua voce, che è di pasta amorosa, Nilla spiegò al pubblico che quello stesso campanaro «tra i ghiacciai dell’Adamello/ avvolti in una bianca mantellina/ ha veduto riapparir gli eroi di un’epopea lontana...», mentre l’orchestra guidata dal maestro Cinico Angelini faceva udire i lontani rintocchi delle campane, i motivi di varie canzoni alpine a base di penne nere, di stellette e giberne, quindi l’alzabandiera e l’attenti, e mentre il Doppio quintetto vocale simulava, a bocca chiusa, ondulandolo tutto, il fischio del vento e della tormenta.
Gli squilli delle fanfare, lo scandire dei passi militareschi, le ritmiche marce si ritrovavano in due altre canzoni: Vecchio scarpone (narra di una scarpa da montagna che molto tempo fa, non si sa come, colse anche delle stelle alpine) e Tamburino del reggimento, che a molti spettatori ricordò Giarabub (film di Goffredo Alessandrini, del 1942, sulla resistenza alle truppe britanniche di un gruppo di soldati italiani asserragliati e sconfitti il 21 marzo 1941 in Cirenaica nel fortino di Giarabub, ndr). Il motivo de Il silenzio riaffiorò in Sussurrando buonanotte che, oltre ad assomigliare al Valzer delle candele, è certo ispirato al valzer dell’opera Faust di Charles Gounod; il motivo patriottico assolutamente a sproposito venne a galla anche in Papà Pacifico, qualcosa di mezzo tra la Banda d’Affori e Arrivano i nostri.
Nella sala del Casinò le canzoni d’intonazione patriottica riscossero il massimo degli applausi, nelle due prime serate. Si disse che le loro case editrici la sera della finale avessero acquisito un’infinità di biglietti a 6mila lire l’uno per distribuirli alla claque; a Bolzano inoltre Vecchio scarpone e Campanaro piacquero molto di più delle altre, e tutti credevano che, una dopo l’altra, in testa si classificassero queste due, assieme a Tamburino del reggimento. Ma ci pensarono le stazioni dell’Italia centrale e meridionale a diminuire il punteggio delle canzoni di guerra e a migliorare la posizione di quelle d’amore, portando alla vittoria Viale d’autunno, testo e musica di Giovanni D’Anzi, una canzone sentimentale e melodica, da ballare guancia a guancia, possibilmente dopo aver litigato con l’amato («Non potrò lasciarti più/ mai più, mai più. Perché nel mio destino/ ci sei tu»). Seconda classificata Campanaro, di Bixio Cherubini e Carlo Concina, terze a pari merito Lasciami cantare una canzone, di Cesare Andrea Bixio e Michele Cozzoli, anche questa d’amore, e (non poteva mancare!) Vecchio scarpone.
Nessuno se lo sarebbe aspettato dal maestro D’Anzi, così rude e taurino; eppure Viale d’autunno, come egli ebbe a dichiarare sul palcoscenico al momento della premiazione, gli nacque dal cuore in seguito a una pena d’amore; per consolarlo il papà del Casinò, cioè il grand’ufficiale Pier Busseti, se lo strinse al petto affettuosamente. Quindi si volse a ringraziare i partecipanti al Festival, e prima di tutti i due maestri, Angelini e Armando Trovajoli che, a capo di due orchestre rivali a tre metri di distanza, sembravano due domatori in smoking: di qui le trombe aggressive, il vibrafono e i sassofoni del maestro più anziano, a destra i moltissimi violini, i violoncelli, le viole del maestro più giovane. Poi strinse la mano agli orchestrali, quindi ringraziò i soliti che, lì davanti ai loro domatori, somigliavano pochissimo a foche ammaestrate, così eleganti le donne e molto azzimati i tenori di grazia. Ecco i floridi e innamorati Gino Latilla e Nilla Pizzi, la bruna Katyna Ranieri, la bionda Flo Sandon’s (nome d’arte di Mammola Sandoni, ndr), simile a una brioche che cantò con gran garbo L’altra; un’altra bionda, Carla Boni; Giorgio Consolini, “tanto affettuoso”; Teddy Reno, che le spettatrici trovarono un po’ dimagrito e languido, ma non si stancarono di paragonare a una stoffa preziosa, ora a un raso, ora a un velluto, giurando che è molto meglio di Frank Sinatra; Achille Togliani, atletico interprete di fumetti amorosi, «come sa porgere, quello lì!». E infine il Quartetto stars quattro belle ragazze, e il Doppio quintetto vocale dell’Orchestra della canzone, cinque uomini e cinque donne, vestite come eleganti cioccolatini. Uno degli autori bocciati, senza pensare affatto alla musica (tanto ci sarebbero sempre stati canti di soldati da sfruttare), esponeva invece il soggetto della canzone che farà per il Festival dell’anno venturo. Un fante, che in guerra perde una gamba e viene decorato con la medaglia d’oro, sposerà una crocerossina nella chiesetta del paese, mentre la madre cieca piange in un angolo. Il curato li benedice, e faranno il viaggio di nozze a Trieste.
Mentre le coppie di innamorati passeggiavano sotto gli alberi gonfi di mimose, nell’aria profumata dai doppi narcisi e dalle violacciocche; mentre gli artritici in cura dal professor Franco Negri si confidavano sorridendo i loro progressi, e le vecchie straniere dai capelli rosa e turchini si facevano condurre in automobile lungo la costiera da giovani chauffeurs decorati all’occhiello del nuovo e splendido garofano di nome Federa, per tre sere di seguito (il 29, il 30 e il 31 gennaio 1953) si pianse nella sala spettacoli del Casinò municipale. Si pianse sull’amante che non torna, sull’uomo che finge d’amare ma in realtà pensa a un’altra, sulla mamma del cieco che a furia di lacrime si consuma gli occhi, sulla vecchiaia che inesorabile avanza, sulla signora che scappa di casa lasciando soltanto il cane a consolare il marito, sul tamburino del reggimento che muore sul campo, gli danno la medaglia d’oro e tutti lo dimenticano, sui soldati morti irrigiditi nella neve, sulle logore scarpe da montagna degli alpini. Durante il terzo Festival della canzone italiana, infatti, le cantanti in abito da sera corrugarono molto spesso le lor giovani fronti davanti al microfono arricciando le labbra in smorfie di vero dolore, mentre i tenori con le loro manine facevano piccoli gesti afflitti, e qualcuno, cantando, pareva proprio che amaramente piangesse. Nelle 20 canzoni presentate al giudizio del pubblico, le parole più ripetute furono “lacrime”, “pianto”, “piangere”, “disperato”, “tristezza”, “angoscia”, e poi “chiesetta”, “Redentore”, “altare”, cantate queste con patetici riferimenti a matrimoni mancati e soprattutto a defunti. L’interpretazione più sorprendente fu quella che Nilla Pizzi fece della canzone Campanaro. In gran décolleté, la testa fiammeggiante, e dappertutto gioielli, questa cantante dall’aria soddisfatta si andava domandando a tempo di musica perché mai suonasse la campana il campanaro delle “Sette croci”. E con la sua voce, che è di pasta amorosa, Nilla spiegò al pubblico che quello stesso campanaro «tra i ghiacciai dell’Adamello/ avvolti in una bianca mantellina/ ha veduto riapparir gli eroi di un’epopea lontana...», mentre l’orchestra guidata dal maestro Cinico Angelini faceva udire i lontani rintocchi delle campane, i motivi di varie canzoni alpine a base di penne nere, di stellette e giberne, quindi l’alzabandiera e l’attenti, e mentre il Doppio quintetto vocale simulava, a bocca chiusa, ondulandolo tutto, il fischio del vento e della tormenta.
Gli squilli delle fanfare, lo scandire dei passi militareschi, le ritmiche marce si ritrovavano in due altre canzoni: Vecchio scarpone (narra di una scarpa da montagna che molto tempo fa, non si sa come, colse anche delle stelle alpine) e Tamburino del reggimento, che a molti spettatori ricordò Giarabub (film di Goffredo Alessandrini, del 1942, sulla resistenza alle truppe britanniche di un gruppo di soldati italiani asserragliati e sconfitti il 21 marzo 1941 in Cirenaica nel fortino di Giarabub, ndr). Il motivo de Il silenzio riaffiorò in Sussurrando buonanotte che, oltre ad assomigliare al Valzer delle candele, è certo ispirato al valzer dell’opera Faust di Charles Gounod; il motivo patriottico assolutamente a sproposito venne a galla anche in Papà Pacifico, qualcosa di mezzo tra la Banda d’Affori e Arrivano i nostri.
Nella sala del Casinò le canzoni d’intonazione patriottica riscossero il massimo degli applausi, nelle due prime serate. Si disse che le loro case editrici la sera della finale avessero acquisito un’infinità di biglietti a 6mila lire l’uno per distribuirli alla claque; a Bolzano inoltre Vecchio scarpone e Campanaro piacquero molto di più delle altre, e tutti credevano che, una dopo l’altra, in testa si classificassero queste due, assieme a Tamburino del reggimento. Ma ci pensarono le stazioni dell’Italia centrale e meridionale a diminuire il punteggio delle canzoni di guerra e a migliorare la posizione di quelle d’amore, portando alla vittoria Viale d’autunno, testo e musica di Giovanni D’Anzi, una canzone sentimentale e melodica, da ballare guancia a guancia, possibilmente dopo aver litigato con l’amato («Non potrò lasciarti più/ mai più, mai più. Perché nel mio destino/ ci sei tu»). Seconda classificata Campanaro, di Bixio Cherubini e Carlo Concina, terze a pari merito Lasciami cantare una canzone, di Cesare Andrea Bixio e Michele Cozzoli, anche questa d’amore, e (non poteva mancare!) Vecchio scarpone.
Nessuno se lo sarebbe aspettato dal maestro D’Anzi, così rude e taurino; eppure Viale d’autunno, come egli ebbe a dichiarare sul palcoscenico al momento della premiazione, gli nacque dal cuore in seguito a una pena d’amore; per consolarlo il papà del Casinò, cioè il grand’ufficiale Pier Busseti, se lo strinse al petto affettuosamente. Quindi si volse a ringraziare i partecipanti al Festival, e prima di tutti i due maestri, Angelini e Armando Trovajoli che, a capo di due orchestre rivali a tre metri di distanza, sembravano due domatori in smoking: di qui le trombe aggressive, il vibrafono e i sassofoni del maestro più anziano, a destra i moltissimi violini, i violoncelli, le viole del maestro più giovane. Poi strinse la mano agli orchestrali, quindi ringraziò i soliti che, lì davanti ai loro domatori, somigliavano pochissimo a foche ammaestrate, così eleganti le donne e molto azzimati i tenori di grazia. Ecco i floridi e innamorati Gino Latilla e Nilla Pizzi, la bruna Katyna Ranieri, la bionda Flo Sandon’s (nome d’arte di Mammola Sandoni, ndr), simile a una brioche che cantò con gran garbo L’altra; un’altra bionda, Carla Boni; Giorgio Consolini, “tanto affettuoso”; Teddy Reno, che le spettatrici trovarono un po’ dimagrito e languido, ma non si stancarono di paragonare a una stoffa preziosa, ora a un raso, ora a un velluto, giurando che è molto meglio di Frank Sinatra; Achille Togliani, atletico interprete di fumetti amorosi, «come sa porgere, quello lì!». E infine il Quartetto stars quattro belle ragazze, e il Doppio quintetto vocale dell’Orchestra della canzone, cinque uomini e cinque donne, vestite come eleganti cioccolatini. Uno degli autori bocciati, senza pensare affatto alla musica (tanto ci sarebbero sempre stati canti di soldati da sfruttare), esponeva invece il soggetto della canzone che farà per il Festival dell’anno venturo. Un fante, che in guerra perde una gamba e viene decorato con la medaglia d’oro, sposerà una crocerossina nella chiesetta del paese, mentre la madre cieca piange in un angolo. Il curato li benedice, e faranno il viaggio di nozze a Trieste.
Camilla Cederna