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 2013  febbraio 12 Martedì calendario

Quando il singhiozzo Di Mimmo bucò Il piccolo schermo. (articolo del 1959)

L’Europeo, 1959
La sera di venerdì 30 gennaio 1959, davanti alle telecamere e ai microfoni della Rai-tv, la voce di Domenico Modugno si ruppe improvvisamente. Nel momento in cui attaccava la seconda strofa di Piove, la parola “bambina”, che egli stava pronunciando, fu spezzata violentemente in due; ne rimase in aria un troncone, “bam”, e trascorsero tre secondi di silenzio prima che Modugno si decidesse a completarla. Furono i tre secondi, tra “bam” e “bina”, che decisero le sorti del IX Festival di Sanremo.

Quando Modugno riprese a cantare, la sala era disorientata: molta gente era in piedi a gridare e ad applaudire; alcune signore si portarono il fazzoletto agli occhi; compositori, parolieri, cantanti rotti a tutte le esperienze del singhiozzo professionale si guardavano smarriti, osservando il palcoscenico, dove Modugno continuava la scena madre, e il pubblico che non finiva di battere le mani. Milioni di apparecchi radio e di televisori facevano da cassa di risonanza in tutta Italia a quel singhiozzo e a quell’applauso. L’indomani la casa discografica di Modugno batteva tutti i record della produzione: 30mila  dischi incisi in poche ore. Prima che il Festival fosse finito, il singhiozzo di Modugno era riprodotto in l00mila esemplari in microsolco. 

Domenica mattina, nell’atrio del suo albergo, una piccola folla di editori e di impresari stranieri aspettava il risveglio di Domenico Modugno. Poco dopo apparve nell’atrio gaio, sorridente, vestito in giacca a spacchetti di colore vinoso, la zazzera in tumulto. Editori e impresari gli furono addosso. A colpi di pesetas, di dollari, di franchi svizzeri e francesi. Piove cominciava il suo giro del mondo. Il collegamento in Eurovisione avvenuto la sera prima aveva dato dimensioni internazionali al suo singhiozzo. 

C’è mai stato, nella storia della nostra canzone, un pianto pagato tanto profumatamente? Che cosa c’è sotto il successo di Modugno? Sono domande complesse, che ne prospettano altre ancora più complesse: che sta succedendo a Sanremo? Fino a un paio d’anni fa l’ordine di servizio per gli inviati speciali dei grandi quotidiani era di telefonare qualche colonnina di maldicenza sui cantanti che si davano troppe arie. Da due anni gli ordini di servizio sono cambiati: bisogna seguire i re e le regine della canzone nei loro umori e nei loro malumori, nei gorgheggi, nelle linee di febbre, nei successi e nelle rivalità.

La sera del 29 gennaio 1959 il consiglio comunale d’una grande città del Nord, Milano per la precisione, dovette aggiornare la seduta perché mancavano più di metà dei suoi componenti; s’erano fermati al televisore a vedere la “prima” del Festival. Nel tardo pomeriggio di sabato 31 gennaio, nella chiesa di San Francesco in Sanremo fu celebrata la “messa degli artisti”. Prima che il rito incominciasse, il celebrante dovette presentarsi alla balaustra e pregare i fedeli di sgomberare metà chiesa perché la folla era troppo imponente e non c’era più posto per i cantanti invitati alla cerimonia. Nella predica il frate cappuccino, padre Giovanni Maria da Novara, tentò un rischioso raffronto tra il Poverello del Cantico delle creature e i moderni protagonisti della canzone. All’altare serviva “il musichiere” Spartaco D’Itri (campione del quiz musicale televisivo dal novembre 1958 al gennaio 1959, ndr), i fotografi tentarono d’arrampicarsi fino al tabernacolo e dovettero intervenire le barbe bianche del convento per strapparli di lassù. Ogni tanto, il musichiere-chierichetto si allontanava dal sacro servizio per rilasciare qualche autografo ai ragazzini che lo chiamavano per nome di là dalla balaustra. La raccolta delle  elemosine tra i fedeli fu fatta da Gino Latilla, con un paniere. Lo stesso Latilla cantò un inno sacro latino all’Elevazione e Claudio Villa intonò alla fine l’Ave Maria di Franz Schubert. Gli si accalcò intorno una tale ressa che quasi svenne: a forza di spintoni la gente gli ammaccò una spalla e Villa dovette, la sera, presentarsi a cantare con il braccio al collo. 

Nella polla non c’erano soltanto ragazzini e signorine che avevano marinato l’ufficio o il negozio; cerano due magistrati, alcuni funzionari e professionisti della città, molte dame con l’occhialetto. Il Festival è una magia che mescola il fascino della bella voce e della bella presenza, quello del denaro e degli abiti lussuosi, il fragore degli strumenti musicali, la celebrità, il sesso, l’agone tra i beniamini della fortuna. È un fenomeno italiano che sta per diventare un articolo d’esportazione. È quasi certo che il Festival di Sanremo, o almeno una buona parte di esso, si trasferirà presto in America. Il Madison Square Garden di New York ha puntato l’occhio sulla novità d’una grande competizione canora all’italiana: i cantanti, i singhiozzi, i sotterfugi, i misteri, le bizze, il frate, i violini e le grancasse di Sanremo. Modugno ha già deciso la canzone che porterà in America. È dedicata alle farfalle: «Le farfalle-le/ le farfalle-le/... sotto il chiaro di luna/ nelle notti d’està». Ma non di solo Modugno vive il Festival. Tre secondi del suo singhiozzo gettarono scompiglio più sul palcoscenico che in platea. I vecchi eroi della canzone patetica si sentirono minacciati entro i confini del proprio regno.

La tentazione istrionesca non risparmiò nessuno: Latilla, nei panni del “vento” (con Io sono il vento arrivò secondo, ndr), pareva un poeta biblico, sullo sfondo d’un Sinai da fumetti; Achille Togliani si sbracciò; Villa gettò baci al pubblico con il gesto d’un giocatore di morra paesano; Aurelio Fierro addentò una pasta alla crema con la furia che avrebbe meritato una suola da scarpa; Teddy Reno improvvisò tra le strofe un dialogo con un neonato. Dal proscenio il nervosismo si diffuse ai camerini: le cantanti si sentirono minacciate nella voce e nella persona e cominciarono a rimandare indietro le vettovaglie e gli omaggi floreali, per tema che celassero veleni o aromi soporiferi. Polveri per starnutire, in effetti, erano seminate a piene mani in sala dai nemici di Modugno, nella speranza di far naufragare il suo successo in una platea di starnuti.

La sconfitta di Claudio Villa ebbe toni patetici. S’era impuntato a recuperare lo svantaggio sul piano sentimentale e si presentò alle telecamere di tutta Europa con quel braccio al collo che testimoniava, insieme, dedizione al Festival e fanatismo di ammiratori. E Nilla Pizzi? Ritornando a casa, a festa finita, l’animo di Nilla era diviso tra l’amarezza di essere rimasta fuori dal round finale e la consolazione che anche le sue competitrici avevano avuto la stessa sorte. Tutte, anche l’orgogliosa Betty Curtis. Nilla Pizzi si consolava: «Insomma, erano venute per strapparmi la corona e dovranno contentarsi di far le dame di compagnia ancora per un anno. Sono arrivata a Sanremo regina e torno a casa regina».

Ha vinto Modugno pluvio. Il più forte e sicuro di sé, il cantante che sotto movenze moderne nasconde la forza antica della canzone popolare, nata dai sentimenti elementari. «Lui canta le sue canzoni e noi quelle degli altri», commentava Teddy Reno. «Questa è la differenza: quando canta lui è come vestisse un abito fatto su misura, quando cantiamo noi sembriamo vestiti dai grandi magazzini». Sotto la giacca gli è rimasta intera la libertà del vagabondo, chitarra in spalla, scarpe rotte e testa spettinata. Non era, in realtà, un duello tra Villa e Modugno, ma forse tra un’Italia in falsetto, con un paesaggio da cartolina illustrata, e un’altra Italia di cui s’intravedevano qualche sprazzo e qualche straccio sotto il convulso gesticolare di Modugno.

Gigi Ghirotti