L’Europeo, 1967, 12 febbraio 2013
Tags : Il Festival di Sanremo
Ha finito di protestare. Il suicidio di Luigi Tenco (articolo del 1967)
L’Europeo, 1967
Alle tre del mattino Lucio Dalla piangeva senza accorgersi di essere nudo (nello smarrimento e nella fretta drammatica s’era gettato addosso solo un corto giaccone di pelliccia bianca e nera), Nico Fidenco (cantautore, ndr) invocava la sospensione del Festival, cantanti melodici e protestatari gridavano: «Assassini, lo avete ucciso voi» e volevano picchiare Ugo Zatterin (il giornalista della Rai faceva parte di una "commissione per il ripescaggio" che avrebbe potuto "salvare" la canzone di Luigi Tenco, ma scelse invece La rivoluzione, cantata in coppia da Gene Pitney e Gianni Pettenati, ndr).
A mezzogiorno, arrivando puntuali alle prove, dichiaravano: «Era troppo puro, un idealista, un poeta» ai microfoni della radio bulgara o di radio Montecarlo, le uniche che volessero ascoltarli. Dalla Rai-tv era venuto invece l’ordine di far finta di nulla: a risolvere il caso spinoso avrebbe pensato come sempre Sergio Zavoli. Nei discorsi delle tre del pomeriggio l’idealista tendeva a mutarsi in esaltato, il poeta in visionario; alle cinque si faceva strada la certezza di un’inevitabile fatalità, «prima o poi l’avrebbe fatto comunque, tutto impasticcato com’era»; alle sette serpeggiava l’impazienza, «anche lui, benedetto figlio, che diamine andava cercando non lo so». Alle nove, sulle labbra di Mike Bongiomo (conduceva il Festival con Fattrice e presentatrice Renata Mauro, ndr), abituate all’allegria, fioriva inconsueta ma sbrigativa la parola "mestizia"; a mezzanotte il morto diventava un debole nevrotico, forse un vile. All’una tutti a letto e non se ne parla più. La fine di Luigi Tenco è stata per la gente del Festival un episodio imbarazzante e inopportuno, più che penoso. Una nota stonata: certo non l’unica a Sanremo ma la più stridente. Il cantautore suicida si confermava quel che era sempre stato, un guastafeste. Non se ne è parlato più: il cadavere ingombrante è stato chiuso nell’armadio, circondato dallo stesso silenzio ritroso e spietato con cui nelle famiglie si soffoca resistenza di figlie degeneri e cognati pazzi. Ad assolvere tutti, a liberare dagli scrupoli eventuali ostinati, ad alibi e giustificazioni c’era poi sempre la molto citata e ovviamente ferrea legge del teatro: lo spettacolo deve continuare.
Così sul luogo del delitto lo spettacolo è andato avanti. I cantanti stranieri hanno continuato ad abbandonarsi ai loro deliri linguistici: «Pochi anni son passati», cantava Gene Pitney; «Tornerò da tèi kuando avrai besogno de mèi», promettevano i Bachelors; mentre Sonny & Cher volevano solamente «podamò»; Bobby Goldsboro si rammaricava che «no mi viene vollia di uschire» e i Rokes ammonivano «bisogna sapeppèdlere». I cantanti italiani ripetevano allo specchio la mimica studiata per quest’anno: prediletto dalle donne il gioco mano-coscia sia nella accezione Caterina Caselli (mano battuta sulla coscia a segnare il tempo) sia nella accezione Omelia Vanoni (mani risalenti dalla coscia in lenta carezza); preferito invece dagli uomini quell’improvviso e violento scatto in avanti del bacino di cui è maestro Little Tony. "L’aquila di Ligonchio", Iva Zanicchi (vinse il Festival insieme con Claudio Villa con Non pensare a me, ndr), soppiantava senz’altro "la pantera di Goro", Milva. Negli alberghi sul mare, lontane da queste misere beghe provinciali, le star invitate per dare prestigio alla manifestazione non si preoccupavano di nulla. Distratta Marianne Faithfull, che aveva approfittato delle spese pagate per farsi raggiungere in weekend amoroso da Mick Jagger, il fabulous cantante dei Rolling Stones. Addirittura insolenti Sonny & Cher, lui bruttissimo e lei molto bella, spesso vestiti di identici sfolgoranti pigiami di raso rosso: a Sanremo erano venuti per soldi, 30 milioni di lire dicono, invece dei 15 mila dollari, nove milioni di lire, che sono abituati a prendere per una serata. Magrissimo Antonie (Pierre Antoine Muraccioli, cantava. Pietre, ndr), camicia di raso giallo, cinturone d’argento, capelli accorciati di 12 centimetri e discorsi snob: «Festival molto, molto meridionale. Molto. Entri in sala e vedi un bruno con occhiali neri che canta una canzone; subito tè ne vai, torni dopo mezz’ora e c’è ancora un bruno con occhiali neri che canta una canzone... Poi tragedie, pianti, suicidi. Per le canzoni, che sciocchezza».
Nelle sale del Casinò si affollavano le anomalie della natura, a questo Festival numerosissime: i non più giovani nani del complesso Les Surfs (gruppo pop dal Madagascar composto da due sorelle e quattro fratelli che partecipò a tre edizioni del Festival: dal 1965 al 1967, ndr); Orietta Berti che è astemia ma ricava dal cibo una forma assai rara di ubriachezza esaltante; Gene Pitney dritto ma con la voce da gobbo (la sua canzone, La rivoluzione, fu citata da Tenco nel suo biglietto d’addio, ndr), il capellone Riki Malocchi (fondatore dei Camaleonti; al Festival portava C’è chi spera, ndr), tanto brufoloso da aver bisogno di quattro strati di fondotinta di diverso colore per rendersi presentabile.
Risuonavano discussioni in gergo, si imparava così che dire "canzone" è fuori luogo, molto più giusto dire "il pezzo": dato che più importante delle parole e della melodia è il "sound", l’atmosfera musicale, l’arrangiamento, le trovate sonore e vocali. Sciocco anche dire "canzone di successo", l’espressione esatta è "pezzo che fa Siae", cioè che viene frequentemente eseguito e permette di incassare sostanziose percentuali attraverso la Società italiana degli autori ed editori.
Più incontrollato il "capo complesso" dei Giganti, un giovanotto con la barba (Enrico Maria Papes, batterista e cantautore, ndr): «Delle nostre canzoni sono entusiasta da morire, il fatto di venire a Sanremo con un pezzo da cabaret mi fa impazzire, per me la musica è soltanto un supporto per le parole, dato che oggi come oggi la canzone è messaggio. Quale messaggio? In generale direi un mondo migliore. La nostra canzone Proposta però ce l’hanno censurata, la parola protesta abbiamo dovuto toglierla da tutte le strofe» (era una canzone pacifista: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni...», diceva il ritornello, ndr).
Del tutto ingannevole quindi la rivoluzione dei giovani, la ribellione della generazione non compromessa, la cosiddetta "linea verde" che avrebbe dovuto avere a Sanremo la sua definitiva affermazione. "Green wave", ondata verde, è il nome dato a suo tempo dai critici americani allo stile e ai contenuti delle canzoni di protesta di Joan Baez e Bob Dylan; la linea verde italiana lanciata da Giulio Rapetti in arte Mogol, paroliere tra l’altro dell’indimenticabile successo di Luciano Tajoli (1920-1996, cantante melodico e attore di origini poverissime, esordì alla fine degli anni Trenta del Novecento, ndr) Al di là: «Al di là dei limiti del mondo, al di là della volta infinita, al di là della vita, al di là delle stelle ci sei tu amor», si distingue per un atteggiamento di ottimismo e speranza, per un accomodante qualunquismo che consente l’esibizione televisiva e non irrita nessuno. Un vero tradimento. Lo ha sottolineato con forza Mondo Beat, organo ciclostilato dei capelloni milanesi e interessante pubblicazione. L’esperto musicale Adriano Mazzoletti trova invece naturale questo tradimento, si irrita anche: perché un cantante da palcoscenico o addirittura da stadio come Gianni Morandi deve mettersi a cantare di Vietnam e vietcong, che c’entra? Perché invocare fiori in cannoni che in Italia non sparano affatto, perché non occuparsi dei fatti nostri? D’accordo, però, che la costruzione della burocrazia o la crisi dell’istituto familiare sono difficilmente musicabili; e il povero Tenco, che ha provato a trattare nella sua canzone il problema assai italiano della fuga dalle campagne e dello straniamento del contadino inurbato, si è visto come è andato a finire. Ma tutto il resto, false proteste comprese, è malafede, è truffa.
«Tutte canzoni costruite per prendere in giro la gente, per indurre i ragazzi a comprare i dischi», conferma vivamente Renzo Arbore, autore di Bandiera gialla, la trasmissione radiofonica di maggior successo tra i giovani. «I ragazzi è così facile abbagliarli: basta che in una canzone sentano le parole pace, libertà e mondo migliore, sono tutti contenti e comprano. Però è un’operazione immorale».
Entrambi concordi in ogni caso nel sostenere che il pubblico italiano, salvo circa 100 mila ragazzini, è ancora quello di Granada, del patetismo facile, della mamma, di Claudio Villa: ancora e sempre. Qualche centinaio di quei 100 mila ragazzini aspettava Claudio Villa all’uscita del Casinò la sera della sua vittoria. Gli hanno gridato furiosi: «Bidone, bidone, grandissimo bidone», lo hanno fischiato e aggredito, travolto e malmenato, hanno tempestato di pugni esasperati la sua macchina, la sua mamma e la sua guardia del corpo.
E’ volato anche qualche sasso. Sono intervenuti i carabinieri, affannati e spaventati. Lui, niente. Duro. Vittorioso e imperturbabile, neppure mezz’ora dopo dice: «Nella mia felicità non c’è assolutamente il senso del "tie’, becchete questo, t’ho fregato anche stavolta". Io in palcoscenico non sono modesto, tu mi conosci, la graffiata se la devo dare la do, ma dopo divento umilissimo. No, sono felice soprattutto perché la vittoria me l’hanno data giurie composte prevalentemente di giovani. Questo significa che i giovani non sono poi sempre cretini, che certi valori esistono e che quando la gara è veramente canora tutti li riconoscono». A parte i valori canori, qualcosa lo accomuna ai cantanti preferiti dai giovani, ed è lo spreco generoso di energia atletica, la mancanza di avarizia nel darsi al pubblico. Esattamente come i complessi beat più sfrenati, Villa grida, si ammazza di fatica, si sgola, produce moltissimo rumore, offre una performance fisica totale, estrema. Assai soddisfacente per un pubblico che assiste agli spettacoli con il desiderio crudele di vedere qualcosa di definitivo e che di un cantante o di un attore, come di un calciatore o di un pugile, vorrebbe vedere il sangue o almeno l’umiliazione morale. Non è certo una novità che Patteggiamento del pubblico popolare sia sempre sadico, ma nel caso di Villa il rapporto diventa addirittura sadomasochistico: lo ascoltano per vederlo morire, per proclamarlo finalmente sconfitto, per essere presenti alla caduta del suo lungo regno. «Gianni Morandi è il Claudio Villa degli anni Sessanta, il cantante che dura», dice il direttore generale della Fonit Cetra, Mario Zanoletti.
Ma Claudio Villa è sempre qui e non ha alcuna intenzione di far testamento. Arrivano i Rokes, quattro giovanotti inglesi in capelli lunghi e tailleurini di tweed, incidono Che colpa abbiamo noi e ne vendono 490 mila copie. Ovviamente è il momento dei complessi: e invece no, i complessi in genere non vendono granché. Gli imprevisti sono tanti, ma la pubblicità non fallisce mai: in tre giorni i dischi di Ciao amore, ciao di Tenco sono andati esauriti non solo a Sanremo, ma anche a Roma, a Milano, a Genova, a Torino. E proprio indispensabile per avere successo portare parrucche bionde o divise da SS, sposarsi o ammazzarsi? «Il pubblico chiede il personaggio, non c’è niente da fare, e il personaggio, se ben centrato, funziona; chi compra la Caselli è suggestionato dal casco d’oro». Ma il grande venditore non è Gianni Morandi, il ragazzo qualunque? «Sì, ma che c’entra? Morandi è uno dei loro». Loro sono naturalmente i ragazzi dai 12 ai 15 anni. Non di più. Gli unici che comperino dischi.
Quanti cadaveri, al XVII Festival di Sanremo. I giovani sconfitti, la canzone di protesta nata morta, la via italiana del beat fallita, lo yé-yé finito, il disco condannato. Per non parlare del cadavere orribilmente sfigurato di Tenco, trasportato via in segreto con fretta indecente, seppellito in solitudine. Subito dimenticato. Persino irriso da certi colleghi cantanti con battute atroci come «adesso ha finito di protestare». Definitivamente liquidato dal capellone milanese che alla domanda: «E Tenco?» squaderna pollice e indice delle mani, prende la mira, ride e spara intonando: «Bang bang».
Alle tre del mattino Lucio Dalla piangeva senza accorgersi di essere nudo (nello smarrimento e nella fretta drammatica s’era gettato addosso solo un corto giaccone di pelliccia bianca e nera), Nico Fidenco (cantautore, ndr) invocava la sospensione del Festival, cantanti melodici e protestatari gridavano: «Assassini, lo avete ucciso voi» e volevano picchiare Ugo Zatterin (il giornalista della Rai faceva parte di una "commissione per il ripescaggio" che avrebbe potuto "salvare" la canzone di Luigi Tenco, ma scelse invece La rivoluzione, cantata in coppia da Gene Pitney e Gianni Pettenati, ndr).
A mezzogiorno, arrivando puntuali alle prove, dichiaravano: «Era troppo puro, un idealista, un poeta» ai microfoni della radio bulgara o di radio Montecarlo, le uniche che volessero ascoltarli. Dalla Rai-tv era venuto invece l’ordine di far finta di nulla: a risolvere il caso spinoso avrebbe pensato come sempre Sergio Zavoli. Nei discorsi delle tre del pomeriggio l’idealista tendeva a mutarsi in esaltato, il poeta in visionario; alle cinque si faceva strada la certezza di un’inevitabile fatalità, «prima o poi l’avrebbe fatto comunque, tutto impasticcato com’era»; alle sette serpeggiava l’impazienza, «anche lui, benedetto figlio, che diamine andava cercando non lo so». Alle nove, sulle labbra di Mike Bongiomo (conduceva il Festival con Fattrice e presentatrice Renata Mauro, ndr), abituate all’allegria, fioriva inconsueta ma sbrigativa la parola "mestizia"; a mezzanotte il morto diventava un debole nevrotico, forse un vile. All’una tutti a letto e non se ne parla più. La fine di Luigi Tenco è stata per la gente del Festival un episodio imbarazzante e inopportuno, più che penoso. Una nota stonata: certo non l’unica a Sanremo ma la più stridente. Il cantautore suicida si confermava quel che era sempre stato, un guastafeste. Non se ne è parlato più: il cadavere ingombrante è stato chiuso nell’armadio, circondato dallo stesso silenzio ritroso e spietato con cui nelle famiglie si soffoca resistenza di figlie degeneri e cognati pazzi. Ad assolvere tutti, a liberare dagli scrupoli eventuali ostinati, ad alibi e giustificazioni c’era poi sempre la molto citata e ovviamente ferrea legge del teatro: lo spettacolo deve continuare.
Così sul luogo del delitto lo spettacolo è andato avanti. I cantanti stranieri hanno continuato ad abbandonarsi ai loro deliri linguistici: «Pochi anni son passati», cantava Gene Pitney; «Tornerò da tèi kuando avrai besogno de mèi», promettevano i Bachelors; mentre Sonny & Cher volevano solamente «podamò»; Bobby Goldsboro si rammaricava che «no mi viene vollia di uschire» e i Rokes ammonivano «bisogna sapeppèdlere». I cantanti italiani ripetevano allo specchio la mimica studiata per quest’anno: prediletto dalle donne il gioco mano-coscia sia nella accezione Caterina Caselli (mano battuta sulla coscia a segnare il tempo) sia nella accezione Omelia Vanoni (mani risalenti dalla coscia in lenta carezza); preferito invece dagli uomini quell’improvviso e violento scatto in avanti del bacino di cui è maestro Little Tony. "L’aquila di Ligonchio", Iva Zanicchi (vinse il Festival insieme con Claudio Villa con Non pensare a me, ndr), soppiantava senz’altro "la pantera di Goro", Milva. Negli alberghi sul mare, lontane da queste misere beghe provinciali, le star invitate per dare prestigio alla manifestazione non si preoccupavano di nulla. Distratta Marianne Faithfull, che aveva approfittato delle spese pagate per farsi raggiungere in weekend amoroso da Mick Jagger, il fabulous cantante dei Rolling Stones. Addirittura insolenti Sonny & Cher, lui bruttissimo e lei molto bella, spesso vestiti di identici sfolgoranti pigiami di raso rosso: a Sanremo erano venuti per soldi, 30 milioni di lire dicono, invece dei 15 mila dollari, nove milioni di lire, che sono abituati a prendere per una serata. Magrissimo Antonie (Pierre Antoine Muraccioli, cantava. Pietre, ndr), camicia di raso giallo, cinturone d’argento, capelli accorciati di 12 centimetri e discorsi snob: «Festival molto, molto meridionale. Molto. Entri in sala e vedi un bruno con occhiali neri che canta una canzone; subito tè ne vai, torni dopo mezz’ora e c’è ancora un bruno con occhiali neri che canta una canzone... Poi tragedie, pianti, suicidi. Per le canzoni, che sciocchezza».
Nelle sale del Casinò si affollavano le anomalie della natura, a questo Festival numerosissime: i non più giovani nani del complesso Les Surfs (gruppo pop dal Madagascar composto da due sorelle e quattro fratelli che partecipò a tre edizioni del Festival: dal 1965 al 1967, ndr); Orietta Berti che è astemia ma ricava dal cibo una forma assai rara di ubriachezza esaltante; Gene Pitney dritto ma con la voce da gobbo (la sua canzone, La rivoluzione, fu citata da Tenco nel suo biglietto d’addio, ndr), il capellone Riki Malocchi (fondatore dei Camaleonti; al Festival portava C’è chi spera, ndr), tanto brufoloso da aver bisogno di quattro strati di fondotinta di diverso colore per rendersi presentabile.
Risuonavano discussioni in gergo, si imparava così che dire "canzone" è fuori luogo, molto più giusto dire "il pezzo": dato che più importante delle parole e della melodia è il "sound", l’atmosfera musicale, l’arrangiamento, le trovate sonore e vocali. Sciocco anche dire "canzone di successo", l’espressione esatta è "pezzo che fa Siae", cioè che viene frequentemente eseguito e permette di incassare sostanziose percentuali attraverso la Società italiana degli autori ed editori.
Più incontrollato il "capo complesso" dei Giganti, un giovanotto con la barba (Enrico Maria Papes, batterista e cantautore, ndr): «Delle nostre canzoni sono entusiasta da morire, il fatto di venire a Sanremo con un pezzo da cabaret mi fa impazzire, per me la musica è soltanto un supporto per le parole, dato che oggi come oggi la canzone è messaggio. Quale messaggio? In generale direi un mondo migliore. La nostra canzone Proposta però ce l’hanno censurata, la parola protesta abbiamo dovuto toglierla da tutte le strofe» (era una canzone pacifista: «Mettete dei fiori nei vostri cannoni...», diceva il ritornello, ndr).
Del tutto ingannevole quindi la rivoluzione dei giovani, la ribellione della generazione non compromessa, la cosiddetta "linea verde" che avrebbe dovuto avere a Sanremo la sua definitiva affermazione. "Green wave", ondata verde, è il nome dato a suo tempo dai critici americani allo stile e ai contenuti delle canzoni di protesta di Joan Baez e Bob Dylan; la linea verde italiana lanciata da Giulio Rapetti in arte Mogol, paroliere tra l’altro dell’indimenticabile successo di Luciano Tajoli (1920-1996, cantante melodico e attore di origini poverissime, esordì alla fine degli anni Trenta del Novecento, ndr) Al di là: «Al di là dei limiti del mondo, al di là della volta infinita, al di là della vita, al di là delle stelle ci sei tu amor», si distingue per un atteggiamento di ottimismo e speranza, per un accomodante qualunquismo che consente l’esibizione televisiva e non irrita nessuno. Un vero tradimento. Lo ha sottolineato con forza Mondo Beat, organo ciclostilato dei capelloni milanesi e interessante pubblicazione. L’esperto musicale Adriano Mazzoletti trova invece naturale questo tradimento, si irrita anche: perché un cantante da palcoscenico o addirittura da stadio come Gianni Morandi deve mettersi a cantare di Vietnam e vietcong, che c’entra? Perché invocare fiori in cannoni che in Italia non sparano affatto, perché non occuparsi dei fatti nostri? D’accordo, però, che la costruzione della burocrazia o la crisi dell’istituto familiare sono difficilmente musicabili; e il povero Tenco, che ha provato a trattare nella sua canzone il problema assai italiano della fuga dalle campagne e dello straniamento del contadino inurbato, si è visto come è andato a finire. Ma tutto il resto, false proteste comprese, è malafede, è truffa.
«Tutte canzoni costruite per prendere in giro la gente, per indurre i ragazzi a comprare i dischi», conferma vivamente Renzo Arbore, autore di Bandiera gialla, la trasmissione radiofonica di maggior successo tra i giovani. «I ragazzi è così facile abbagliarli: basta che in una canzone sentano le parole pace, libertà e mondo migliore, sono tutti contenti e comprano. Però è un’operazione immorale».
Entrambi concordi in ogni caso nel sostenere che il pubblico italiano, salvo circa 100 mila ragazzini, è ancora quello di Granada, del patetismo facile, della mamma, di Claudio Villa: ancora e sempre. Qualche centinaio di quei 100 mila ragazzini aspettava Claudio Villa all’uscita del Casinò la sera della sua vittoria. Gli hanno gridato furiosi: «Bidone, bidone, grandissimo bidone», lo hanno fischiato e aggredito, travolto e malmenato, hanno tempestato di pugni esasperati la sua macchina, la sua mamma e la sua guardia del corpo.
E’ volato anche qualche sasso. Sono intervenuti i carabinieri, affannati e spaventati. Lui, niente. Duro. Vittorioso e imperturbabile, neppure mezz’ora dopo dice: «Nella mia felicità non c’è assolutamente il senso del "tie’, becchete questo, t’ho fregato anche stavolta". Io in palcoscenico non sono modesto, tu mi conosci, la graffiata se la devo dare la do, ma dopo divento umilissimo. No, sono felice soprattutto perché la vittoria me l’hanno data giurie composte prevalentemente di giovani. Questo significa che i giovani non sono poi sempre cretini, che certi valori esistono e che quando la gara è veramente canora tutti li riconoscono». A parte i valori canori, qualcosa lo accomuna ai cantanti preferiti dai giovani, ed è lo spreco generoso di energia atletica, la mancanza di avarizia nel darsi al pubblico. Esattamente come i complessi beat più sfrenati, Villa grida, si ammazza di fatica, si sgola, produce moltissimo rumore, offre una performance fisica totale, estrema. Assai soddisfacente per un pubblico che assiste agli spettacoli con il desiderio crudele di vedere qualcosa di definitivo e che di un cantante o di un attore, come di un calciatore o di un pugile, vorrebbe vedere il sangue o almeno l’umiliazione morale. Non è certo una novità che Patteggiamento del pubblico popolare sia sempre sadico, ma nel caso di Villa il rapporto diventa addirittura sadomasochistico: lo ascoltano per vederlo morire, per proclamarlo finalmente sconfitto, per essere presenti alla caduta del suo lungo regno. «Gianni Morandi è il Claudio Villa degli anni Sessanta, il cantante che dura», dice il direttore generale della Fonit Cetra, Mario Zanoletti.
Ma Claudio Villa è sempre qui e non ha alcuna intenzione di far testamento. Arrivano i Rokes, quattro giovanotti inglesi in capelli lunghi e tailleurini di tweed, incidono Che colpa abbiamo noi e ne vendono 490 mila copie. Ovviamente è il momento dei complessi: e invece no, i complessi in genere non vendono granché. Gli imprevisti sono tanti, ma la pubblicità non fallisce mai: in tre giorni i dischi di Ciao amore, ciao di Tenco sono andati esauriti non solo a Sanremo, ma anche a Roma, a Milano, a Genova, a Torino. E proprio indispensabile per avere successo portare parrucche bionde o divise da SS, sposarsi o ammazzarsi? «Il pubblico chiede il personaggio, non c’è niente da fare, e il personaggio, se ben centrato, funziona; chi compra la Caselli è suggestionato dal casco d’oro». Ma il grande venditore non è Gianni Morandi, il ragazzo qualunque? «Sì, ma che c’entra? Morandi è uno dei loro». Loro sono naturalmente i ragazzi dai 12 ai 15 anni. Non di più. Gli unici che comperino dischi.
Quanti cadaveri, al XVII Festival di Sanremo. I giovani sconfitti, la canzone di protesta nata morta, la via italiana del beat fallita, lo yé-yé finito, il disco condannato. Per non parlare del cadavere orribilmente sfigurato di Tenco, trasportato via in segreto con fretta indecente, seppellito in solitudine. Subito dimenticato. Persino irriso da certi colleghi cantanti con battute atroci come «adesso ha finito di protestare». Definitivamente liquidato dal capellone milanese che alla domanda: «E Tenco?» squaderna pollice e indice delle mani, prende la mira, ride e spara intonando: «Bang bang».
Lietta Tornabuoni