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 2013  febbraio 12 Martedì calendario

Lucio Dalla – Il guru con la coppola (articolo del 1971)

L’Europeo, 1971
Fino a ieri dicevano: «Dalla? Quel matto che fa bellissime canzoni e presenta i fumetti alla tv». Matto per via di un modo di vestire tra il pecoraio sardo e il santone indiano, e di uno sguardo un po’ allucinato sopra la barba alla Giuseppe Verdi, e di certe frasi dissacranti («Lo scopo della mia vita? Ridare dignità alla figura altamente nobile ed esteticamente pura del maiale») dette per amore di battuta e prese per simbolo di intelligente alienazione. Poi c’è stato Sanremo, e a Sanremo «quel matto di Dalla» s’è piazzato al terzo posto scavalcando di prepotenza, con la sua 4/3/1943 (la sua data di nascita; è morto il 1° marzo 2012, ndr), big riconosciuti come Adriano Celentano, Sergio Endrigo, Domenico Modugno, e allora una specie di pathos emotivo ha coinvolto stampa, pubblico e colleghi. S’è parlato di novello cantastorie e novello trovatore. S’è parlato di riscoperta del filone popolare e folcloristico. S’è parlato di un’ulteriore svolta della musica leggera in Italia. E, come sempre, con l’importanza di un avvenimento fondamentale per la storia  patria. Ma chi è, in realtà, Lucio Dalla? E che cosa significa, per un cantante, scoprirsi dall’oggi al domani divo, e osannato, e vessillifero di un rinnovamento canoro? Basta chiederglielo, e, come in un dialogo a distanza, viene fuori un personaggio diverso. Collocato in un mondo che è sempre lo stesso. Ma diamo la parola a lui, Lucio Dalla.  
«Che significa questo mio successo? Non lo so. Giuro che non me l’aspettavo. Giuro che è stato un trapasso abbastanza sconvolgente. Prima, dopo e durante. La tv che non voleva un certo tipo di discorso; la casa discografica che pontificava: ma tu sei matto, ma guarda che si tratta di un festival, guarda che ci vuole roba più commerciale; io che come partner chiedevo Duilio Del Prete, ma Del Prete stava in tournée con Johnny Dorelli, e Dorelli non gli dava il permesso... Eppoi le grane con la censura. Io in origine cantavo: "Giocava alla Madonna" e loro: per l’amor del cielo, la Madonna non si tocca. In origine cantavo: "E ancora adesso che gioco e rubo e bevo vino" e loro: per l’amor del cielo, l’epitaffio al ladro mai. E quindi niente Madonna e niente rubare. "Lei capisce: Sanremo è una trasmissione molto seguita, entra in tutte le case...". Ho capito. E ho tolto. Era anche giusto. L’altra volta no. A Un disco per l’estate. Ci vado con E dire che ti amo. Canto: "Era da molto che non pensavo, era da molto che non lo facevo", e loro tutti lì a concludere: "L’amore? Ah, no, questo in radio non passa, in radio far l’amore mai". E che il verbo fosse riferito a pensare chi se ne frega... Ma le dicevo? Ah, sì: Sanremo. Un successo di cui non ho ancora capito bene la proporzione, al quale non sono abituato, che non considero determinante e che mi imbarazza. Mi imbarazzano le confessioni di simpatia. Mi imbarazza la gente che mi guarda come un vitello a due teste...».  
Io nel mondo della canzone ci sono entrato per caso. Fu determinante un incontro con Gino Paoli. Mi disse: "Perché non ci provi?". Ci provai. Al Cantagiro del 1965. Paoli aveva scritto per me uno spiritual, Lei, e io lo portai al Cantagiro. Fu una pernacchia dal primo all’ultimo giorno. La critica mi osannava e io non capivo neanche quello, perché non era il caso, e il pubblico mi tirava mele, mi fischiava, mi spernacchiava senza pietà. Io prendevo le mele, i fischi, le pernacchie e non facevo drammi. Dopotutto la colpa  era mia. Avevo peccato di presunzione: credevo di fare l’impegnato e risultavo solo un grosso rompiscatole. Credevo che uno con la faccia come la mia potesse impunemente sviolinare cose d’amore e invece gli altri morivano dal ridere. In pratica la mia decisione di buttarmi sull’ironia nacque da lì. E devo dire che mi andò bene. Ricorda Sanremo del 1966? Ci portai Pafff... bum!, una canzone che non c’entrava niente con il melodramma, lo smoking e la brillantina sul ciuffo. Non andai in finale, però mi imposi come uno che non stava al gioco. Mi definirono cantante di protesta. Non era vero, che io alla protesta, al messaggio con la canzone non ci credo, per me la canzone è solo espressione del mondo di chi la fa, solo un momento magico. Comunque mi beccai quell’etichetta, e mio malgrado continuarono a fraintendermi, a rendermi un contestatore, un santone... E a me continuava a non fregarmene niente di niente. L’amore per la canzone mi è nato quando ho cominciato a scrivere, a fare un certo tipo di discorso, ad approfondirlo. Discorso che adesso mi ha portato in classifica, ma è episodico, non può durare. Farò la fine di Georges Moustaki: ai tempi de Lo straniero tutti a dire "oh meraviglia delle meraviglie" e adesso tutti a dire che è finito, solo perché non ha imbroccato un altro disco giusto? Pazienza. Io ho tanta fiducia nel successo che non ho neppure aumentato il cachet, si figuri un po’. Quella di alzare i prezzi è una politica sbagliata. E se poi crolli? Il gestore fa i salti mortali e ti paga lo stesso, chiaro: però dopo non ti chiama più. Io gliel’ho spiegato e glielo ripeto: non sono e non posso essere un big. Il che non mi sconvolge affatto, mi creda. Io so di essere bravo. Molto bravo. No, no, non per la produzione discografica:  per le cose che faccio qui, nelle serate. Cose discograficamente intraducibili, perché improvvisate, tipo happening. Cose che mi piacciono e mi divertono. E allora sa che le dico? Che preferisco essere basso come sono, brutto come sono, goffo come sono piuttosto che tutto bellino e tutto giusto alla maniera di Gianni Morandi o Massimo Ranieri. Loro sono costretti a imbroccare un disco dopo l’altro se non vogliono crollare. Io no. A me l’importanza loro non me la darà mai nessuno».  
«Io, dopo Sanremo, sono stato male per quattro giorni. Per l’emozione m’ha preso la stitichezza. Quell’atmosfera allucinante... Io sono anche emotivo, sa, ma per cose diverse. Be’: lì ero sconvolto. M’avevano comunicato un’ansia, una disperazione... Dice: e perché ci sei andato? Ci sono andato perché faccio il cantante e non Io stagnino e Sanremo può servirmi. Le altre manifestazioni? Tutte puzzonate. Il Cantagiro? Ridicolo.
Un disco per testate? Una comica. Canzonissima? Una vergogna. La gara a chi porta il motivo più brutto, più plateale e più a basso livello. Io a Canzonissima mai. Be’, una volta l’avevo chiesto. M’han risposto; no, carino, tu conciato così a Canzonissima non ci vieni. Canzonissima è roba di lusso e il sottoscritto sembra il fratello povero dei suoi colleghi, non so se mi spiego. Canzonissima è come la donna di servizio, con tutto il rispetto per la categoria, che il giovedì sera per uscire con il militare si veste da signora o da puttana ad alto livello: un misto di banalità, falsità e intrighi. Prenda l’ultima edizione, le finali dell’ultima edizione: ciò che di più brutto il mercato discografico ha proposto in un anno. Dice: e però il pubblico le ha comprate. Falso. Tranne l’exploit di Morandi e di Panieri, il pubblico non ha comprato un bei niente. Eppoi se anche fosse? Per tre mesi l’hai rincretinito con le baggianate, le ballerine, la speculazione statale dei premi... Il pubblico è quello che consuma, e se su sei canzoni gliene dai sei orrende... È come se avessi bisogno di lavarmi le mutande e lei mi offrisse sei detersivi scadenti: uno lo devo comprare per forza, ma non per questo son deficiente e incompetente. Il pubblico l’ha dimostrato a Sanremo di non essere ne deficiente ne incompetente. Antoine (alias Pierre Antoine Muraccioli, ndr) s’è fatto tirar su dalla corda? Celentano s’è portato appresso un reggimento di alpini? Puzzonate provinciali che non hanno fregato niente a nessuno. Il pubblico a Sanremo ha scelto con maturità accontentandosi di un discorso tranquillo, spontaneo e sincero. Dice: ma ha premiato Il cuore è uno zingaro (di Nada e Nicola di Bari, ndr), ha premiato Che sarà (di José Feliciano e i Ricchi e Poveri, ndr), che sono canzoni tradizionali... Tradizionali ma decorose, e Sanremo è una gara di musica leggera, mica il tempio dell’arte. Il pubblico è maturato, ripeto».  
Gli unici a non capirlo, a continuare a trattare il pubblico da sottosviluppato cretino sono i discografici. Quelli dilettanti. Ex direttori d’industria o delle poste e telegrafi. Gente senza una preparazione specifica che dall’oggi al domani decide di fare l’industriale del disco, eppoi va a rimorchio degli exploit altrui pensando: c’è riuscito quello, perché io no? Il fenomeno Battisti, per esempio. Tutto ciò che fa Lucio Battisti ha successo? Nasce la moda Battisti, la psicosi Battisti, e si copia Battisti che a sua volta si rifà, agli americani ma basandosi su una preparazione professionale seria, su un certo tipo di ascolto e di lavoro ineccepibili. Il caos nasce da  qui. E la crisi purè. Scimmiotta oggi, scimmiotta domani, la gente non capisce più un cavolo e che fa? Compra gli stranieri ed è anche giusto, che, di solito, gli stranieri sono più validi. Oddio, è vero che di cantanti tradizionali, abbarbicati all’acuto ne esistono a iosa, ma la loro è una corsa a vuoto perché al pubblico dell’acuto non gliene frega più niente. Dice: e Claudio Villa? Villa è un fenomeno a parte. Villa a me sembra folle, ma è un monumento, una bandiera, un fatto folcloristico, una tradizione. Come il Vesuvio e il Duomo di Milano. Villa è l’ultimo sopravvissuto di un certo tipo di musica e di interprete e il pubblico lo premia. Ma resta anacronistico. Come se Amedeo Nazzari facesse un film con Pier Paolo Pasolini o con Alain Robbe-Grillet, con tutto il rispetto per Nazzari. La prova? Il successo di Patty Pravo, di Fabrizio De André, di Endrigo... Gente che non ha mai cercato l’acuto in vita sua. E questo mi consola. Mi conferma che sto lavorando giusto. Dice: rifacendoti ai vecchi stornelli, come Al Bano con la sua 13, storia d’oggi s’è rifatto alle ballate pugliesi? Lusingato, signori, dico io. E un’accusa che non mi tocca. Che pretendevate, da me: che raccontassi una storia popolare con una musica alla Burt Bacharach? Eppoi aggiungo: magari tutti facessero come il sottoscritto e Al Bano, perché sia la mia sia quella di Al Bano sono le uniche canzoni che da sei, sette o dieci anni non risultino scimmiottature di motivi americani. Aggiungo:  Bob Dylan che fa? Riprende le folk songs, i canti western. Aggiungo: il linguaggio musicale è come quello narrativo, a parte Franz Kafka, a parte Isaak Babel’, a parte Jack Kerouac, in fondo uno, quando vuoi parlare, parla con un linguaggio che è di tutti. Aggiungo: Johann Sebastian Bach e Ludwig van Beethoven usavano le stesse note e mica per questo si imitavano. Aggiungo: sono orgoglioso di valorizzare il nostro patrimonio e non quello made in Usa. Aggiungo: non esiste scopiazzatura, quando la musica è gradevole e si sposa bene con il testo. Vuoi sapere la verità? La verità è che i giornalisti specializzati di solito sono scarsamente informati, e allora per paravento, per sottintendere guarda mo’ bene quante cose so io, scrivono: questo ha preso da qua, quello ha preso da là...».  
Per i giornalisti specializzati, siccome fino a ieri il sottoscritto non compariva nelle classifiche, non era un hit, non era uno da copertina, doveva per forza essere un morto di fame. E invece? E invece stava benissimo lo stesso. Il sottoscritto l’ha capito subito che non sarebbe mai diventato un big. Perché? Perché gli mancano i connotati del cantante tradizionale. Perché non è un latin lover. Perché non ha fascino e non desta ne simpatia ne brividi di amor materno. In questo, purtroppo, il pubblico è rimasto ai tempi di Fiorin fioretto: ragiona per cliché, per categorie, gli manca il gusto della scoperta per uno che sa fare il suo mestiere a prescindere dall’aspetto fisico, vuole ancora riempirsi gli occhi con un’immagine che io non ho. E, quando dico immagine, dico immagine di ordine estetico, familiare eccetera. Ma sì, ma sì: nel senso delle confessioni pubbliche di  amori infranti e passioni proibite e pargoletti adorati e mamme da mantenere. Io, mai avuto l’assalto delle ragazzine. A me le ragazzine mi scrivono per chiedermi il vestito da sposa o la fisarmonica per il fidanzato. Che è anche giusto. Uno come me mica può stare con il suo bei microfonino davanti a sospirare: guardiamoci negli occhi e dimentichiamo il mondo».  
«L’unico caso clamoroso, Punico fenomeno è stato quello di Paoli: che era antipatico, era scorbutico, non era accattivante, non era bello e si è imposto lo stesso in un mondo dove la bellezza ha un valore fondamentale, un’importanza primaria. Be’, io questo l’ho capito subito e mi son detto: carino, qui le svolte sono due, o affoghi nel complesso d’inferiorità o ci scherzi sopra. E ci ho scherzato sopra. Mi son detto: con la canzone e basta tu il lunario non lo sbarchi, vista la faccia che ti ritrovi, meglio allargare il campo. E ho fatto anche altre cose: ho fatto un film molto bello con i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, e a Venezia mi hanno anche dato un premio come attore, per I sovversivi. Forse m’avrà aiutato quella faccenda dell’enfant prodige. Sì, sì: dai cinque ai nove anni. Una compagnia tristissima che si chiamava Primavera d’arte: facevo il bambino che gli muore la mamma, cantavo, ballavo... Be’, poi nel cinema mi sono lasciato invischiare anche da altre puzzonate, tipo un film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (Franco, Ciccia e le vedove allegre, ndr) ma in tv tutte cose dignitose. Quando m’han detto se volevo presentare un ciclo sui fumetti, ho pensato: e se magari la gente si abitua e le levo il trauma che le prende ogni volta che mi vede? Dice: e non è un controsenso avere tutte queste paure e contemporaneamente girare conciato come un pazzo? Non è come un invito a farsi guardare? Eh, no. Questa difficoltà a essere normale, etichettato e vestirmi nella maniera giusta mette in crisi me per primo. Mi mette in crisi, mi crea dei problemi e mi rompe le scatole. In che senso? Nel senso che, siccome sono uno anche tranquillo, mi secca passare per quello che vuole esibirsi a tutti i costi, mostrarsi a tutti i costi diverso dagli altri. Magari lo sono. E però aggiungo: purtroppo. Aggiungo: è una cosa che pago per conto mio. Aggiungo: non mi metto una cravatta perché mi farei ridere da solo, con la cravatta. Non mi metto la giacchetta perché non ne ho, non mi servono e sto più comodo vestito così, e siccome ho anche la fortuna di fare il cantante e non l’impiegato al catasto o il direttore delle pompe funebri, non vedo perché dovrei cambiare idea. E invece la gente no, la gente non ci crede, la gente pensa: ecco Dalla, viene a Sanremo con la magliettina a righe per fare personaggio».  
«Giuro che da quando ha smesso di vestirmi mia madre mi sono sempre combinato così. Giuro che sarò anche paranoico ma vorrei che tutti seguissero il mio esempio, e per me gli originali sono gli altri e non io. Dice: e la coppola, che bisogno c’è della coppola? Dico: portare la coppola è contro il buoncostume? Dico: sempre avuta la mania dei baschi, dei caschi, dei cappelli, abbiate pazienza e chiedo perdono. Ma tant’è. Una volta vado a Settevoci, con la coppola. Pippo Bando mi fa: "Perché hai la coppola?", Perché mi va, avrei dovuto  rispondere. Mi pareva troppo banale. Così gli dico: "Si chiama Giovanni". Be’, in un mese ricevo 5 mila lettere: tutti a parlarmi di Giovanni, a chiedermi se gli regalo Giovanni, oppure a insultarmi perché invece di rispondere da ragazzo educato avevo tirato fuori le mie solite puzzonate. E che è: non si può più scherzare, adesso? Dice: non si tratta di scherzo, si tratta di abitudine. Una volta vai a Sanremo e ti presenti in giacca da smoking e blue-jeans... Avevo messo i pantaloni sotto il materasso, signori. Per stirarli. Eppoi mi ero dimenticato di averli messi lì, e li cercavo, li cercavo... Che dovevo fare: presentarmi in mutande?».  
Dice: e il night di Torino? Non lo vorremo  scordare, il night di Torino. Gente per bene, madri di famiglia, signore della buona società, commendatori rispettabili e tu barbone in palco senza calze. Vero, vero. Una serata di gala coi nocchi, e il proprietario che quando mi vede quasi quasi gli prende l’infarto. Però l’ho accontentato subito: ho preso il lampostil e mi sono dipinto i calzettini sui piedi. Dice: e tutte quelle frasi balorde sull’estetica del maiale e via discorrendo? Be’, in verità la frase è quella e solo quella. Storia vecchia. Risale agli esordi. Giornalisti che mi chiedevano la biografia, discografici che mi chiedevano la biografia... Va bene, ve la preparo, dico io. E mi metto a tavolino. Però dopo penso: e adesso che scrivo? La solita storia sulla mamma, lo scolaretto col fiocco bianco e il primo amore sul prato? Evitiamo. Cerchiamo qualcosa di più spiritoso. M’è venuta in mente quella frase. Sarà che sono emiliano, sarà quello che vuole lei, ma a me il maiale m’ha sempre divertito. Trovo che c’è sempre un rapporto, tra il maiale e l’uomo. Un rapporto a livello di immaginazione. E mica sono il solo. George Grosz l’ha preso per i suoi disegni, Pasolini per Porcile... A parte gli scherzi: alla base di tutto ci sta una timidezza che la vita, la maturità, i calci nei denti che ho preso da una lotta continua con me stesso hanno tramutato in incoscienza. Incoscienza, ulcera, insonnia e mal di fegato».  
«Vede, io nel mondo della canzone ci sono capitato per caso, gliel’ho detto. Venivo dal jazz. La Roman New Orleans, Chet Baker... Quella per il jazz era stata un’infatuazione giovanile. Prima, tutte le scuole possibili: il ginnasio, il liceo, ragioneria, poi ancora il liceo... Dice: e tua madre? Mia madre è una persona estremamente intelligente e divertente: m’ha sempre lasciato libero di fare quello che mi pareva. A 16 anni me ne andai da casa, ma con il suo permesso: lei sarta, e a me che  m’aveva preso l’idiosincrasia per il plissé, lo stampato a fiorellini e il corpetto a vita alta. Mia madre povera donna sognava il figlio dottore, ma il figlio s’è messo a suonare il clarino, e il jazz si sa bene che non da una lira: be’, la povera donna l’ha sempre mantenuto senza far drammi quel figlio. È stato lui a ribellarsi, a un certo punto. Per via che lavorare gratis non è mai piacevole ma soprattutto per via del pubblico. Trenta persone con la puzza sotto il naso. Snob insopportabili. Il pubblico favoloso è quello delle balere, quello meridionale, che ti da il rapporto umano indispensabile tra chi canta e chi ascolta:  l’unico, vero messaggio che puoi cercare con la musica».  
«Il pubblico della Bussola al sottoscritto non interessa. Una volta ci sono andato, alla Bussola, e ci sono anche rimasto malissimo: aria da grande tempio della canzone, gente disposta ad ascoltare solo un tipo di cose, matusalemme danarosi che vanno lì per Mina, perché Mina ha le gambe lunghe e rappresenta un fatto di costume. Grazie, non m’interessa. Io intendo lavorare come voglio io, con la gente che voglio io, per il pubblico che voglio io. Io tranne Morandi ed Endrigo non conosco altri cantanti e lo sa perché? Perché il loro mondo non è il mio. Nel senso che non è mio il mondo del lavoro. Nel senso che non trovo nemmeno giusto che per vivere l’uomo debba lavorare».    

Lina Coletti