La Repubblica, giovedì 21 aprile 2005, 11 febbraio 2013
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Il teologo dell’ortodossia (articolo del 21/4/2005)
La Repubblica, giovedì 21 aprile 2005
ROMA - Per anni è stato perseguitato dal nomignolo di Panzerkardinal, e invece Joseph Ratzinger nel suo intimo è timido, pieno di senso dell'umorismo e portato ad una gioiosità mite che gli viene dal carattere bavarese. Guai a confondere i figli della Baviera con i prussiani. Il bavarese ha nell'animo qualcosa di melodico e di cattolicamente misericordioso che i germogli di Prussia non hanno.
Duro, comunque, Joseph Ratzinger lo è stato nel suo mestiere di Guardiano dell'Ortodossia. Su questo non si discute e d'altronde, come ammette suo fratello, Joseph non ama la lotta e gli costa combattere, ma quando prende una decisione non deflette.
Da Marktl am Inn, il villaggio bavarese dove è nato il 16 aprile 1927 (il giorno di sabato santo, tra turbini di neve) il cammino per arrivare a Roma e al trono di Pietro è stato lungo. E soprattutto inaspettato. C'è all'origine della sua storia una cattolicissima famiglia bavarese. Una madre molto affettiva, un fratello che si farà prete e diventerà direttore dei celeberrimi Piccoli Cantori di Ratisbona, una sorella a lui molto cara.
Il padre è gendarme. Ma non ci si immagini un personaggio autoritario che impone il marchio al figlio. Commissario di gendarmeria di provincia, è certamente severo, ma gli ripugna il regime nazista, guarda con ammirazione alla Francia e preferisce lo spirito della piccola patria bavarese alla freddezza prussiana e alla satanica fame di potere hitleriana. Ratzinger ricorda ancora il brivido che passò in famiglia quando Hitler entrò in guerra.
Dalla sua infanzia il nuovo Pontefice si porta l'amore per la musica. Mozart, confessa apertamente, ha il potere di commuoverlo e anche di immergerlo nel dramma dell'esistenza umana. E fra le sue letture giovanili spicca il Lupo della steppa di Hesse, che lo colpì soprattutto perché il nichilismo del protagonista lo fece presto riflettere sul fatto che l'esaltazione dell'io, condotta all'estremo, finisce per capovolgersi nella sua distruzione.
Fra i suoi lati meno conosciuti c'è anche il gusto della poesia. Sì, ne ha composte più d'una. Liriche dedicate alla natura, alle feste religiose, forse un po' sentimentali, ma rivelatrici della sua sensibilità. Resta della sua giovinezza l'esperienza militare a sedici, diciassette anni quando fu aggregato ad una batteria contraerea (ma non gli toccava di sparare) e la visione dei bombardieri alleati che piombavano su Monaco.
Finché arriva, come una liberazione, il crollo della Germania nazista, che per lui significa per breve tempo l'internamento in un campo di prigionia americano.
La Baviera è importante nelle radici di Joseph Ratzinger. Significa una religiosità popolare viva e piena di colore, di musica, di architetture barocche, di pellegrinaggi fra i campi, di preghiera intensa, di edicole di santi ai crocevia e di madonne misericordiose come nel sud. Se Karol Wojtyla da giovane sognava di fare l'eremita, Joseph Ratzinger avrebbe preferito fare per sempre il professore e il teologo.
Libero docente di teologia all'età di trentadue anni, insegna Dogmatica e Teologia a Frisinga, passando poi a Bonn, Muenster e Tubinga. Lezioni e libri sarebbero stato il suo destino se nel 1962 l'arcivescovo di Colonia cardinale Frings non l'avesse portato con sé a Roma come consulente per il concilio Vaticano II.
È la stagione "rivoluzionaria" di Ratzinger. Hans Kueng è suo maestro, Karl Rahner suo compagno di impegno. I due appartengono alla prima linea della teologia critica e fanno parte di quel drappello internazionale di teologi, che forniscono all'episcopato tedesco, francese, belga e olandese (che in Italia trova un'eco negli arcivescovi Montini e Lercaro) le munizioni intellettuali e dottrinali per rovesciare l'impostazione conservatrice dei documenti conciliari preparatori, redatti dalla Curia vaticana, e spingere il concilio nel mare aperto delle riforme. Sono gli anni in cui rimprovererà alla gerarchia ecclesiastica di agire con "le redini tirate e con troppe leggi".
Qualche anno dopo Ratzinger frenerà. Spaventato dal riformismo radicale dei teologi innovatori, e anche sotto lo shock dell'estremismo studentesco cristiano del '68, che nelle università tedesche attacca violentemente la religione come puntello delle ingiustizie capitaliste. Il prete professore non dimenticherà mai l'effetto sconvolgente prodotto dalla vista di un volantino, che proclama "Maledetto Gesù". Risale a quegli anni la diffidenza radicata verso ogni forma di marxismo.
Gli anni Settanta lo vedono molto critico nei confronti di ciò che chiama "lo spirito negativo del concilio", i cambiamenti che non condivide, gli esiti di "declino" che gli pare di intravedere nella vita della Chiesa. Ratzinger critica la decisione di abolire la messa tridentina e la riforma liturgica che mette l'altare al centro dell'assemblea con il sacerdote rivolto ai fedeli.
Nel vecchio modello, spiega, tutti guardavano verso Cristo, il sole che sorge. Adesso, protesta, la mensa eucaristica è incentrata sul prete e la gente. In questo clima di contrapposizione al movimento postconciliare Ratzinger fonda insieme al famoso teologo de Lubac e con l'appoggio di don Giussani leader di Comunione e liberazione la rivista Communio, contraltare alla rivista dei riformatori Concilium.
Piace a Paolo VI questo teologo, protagonista del concilio e avversario delle sue derive più radicali. Così papa Montini, a sorpresa, lo promuove alla cattedra vescovile di Monaco di Baviera e gli impone la berretta cardinalizia. È il 1977. Un anno dopo Ratzinger sarà tra i grandi elettori, che fanno pontefice l'arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla. Alla vigilia del conclave il cardinale teologo mette in guardia in una lunga intervista dal pericolo che marxismo nella sua versione eurocomunista possa in qualche modo influenzare le scelte della Chiesa. Tre anni dopo Giovanni Paolo II lo chiama in Vaticano all'incarico più importante - dopo quello di Papa - nella Curia romana: capo dell'ex Sant'Uffizio ovvero, (secondo la nuova terminologia) prefetto della congregazione per la dottrina della Fede.
Tra Wojtyla e Ratzinger si crea un legame fortissimo, un rapporto di stima e di affetto profondo al punto che negli ultimi anni Giovanni Paolo II respingerà sistematicamente le richieste di Ratzinger di ritirarsi in pensione. Per Giovanni Paolo II il prefetto della congregazione per la dottrina della Fede è il baluardo della dottrina di cui può fidarsi senza esitazione. Wojtyla viaggia e inventa gesti profetici, e intanto in Vaticano il porporato tedesco gli sgombra il campo di tutti i teologi critici: da Schillebeeckxs a Boff, a Curran, a tanti altri allontanati dalle cattedre delle università cattoliche o privati del diritto di pubblicare libri e tenere conferenze.
Nel corso degli anni il cardinale combatte sistematicamente la teologia della liberazione, accusandola di subordinazione al marxismo, sferra un duro attacco ai regimi dell'Est definendoli "vergogna del nostro tempo", pronuncia tutti i veti che Giovanni Paolo II ritiene necessari per mantenere l'ordine nella Chiesa cattolica. No al sacerdozio delle donne, no ai preti sposati, no ad un ruolo eccessivo dei laici nella gestione delle comunità cristiane, no alle coppie omosessuali.
Per papa Wojtyla, che usa un linguaggio meno aggressivo, il cardinale è un partner perfetto nella grande partita contro il socialismo reale e, in America latina, contro i movimenti cristiani rivoluzionari o semplicemente di sinistra. Sul piano interno Ratzinger realizza per il pontefice polacco l'obiettivo di restaurare una severa linea dottrinale attraverso la redazione di un Catechismo universale, destinato a servire per imprimatur papale come base di qualsiasi catechismo nazionale. Qualunque cosa facciano gli episcopati del mondo in campo dottrinale, catechetico o liturgico, interviene a controllare il prefetto della congregazione per la dottrina della Fede.
Suscita scalpore negli anni Novanta il suo documento - debitamente approvato da papa Wojtyla - che esalta la primazia della funziona salvifica di Cristo su ogni altra religione e la superiorità della Chiesa cattolica - in quanto custode della pienezza e della purezza della fede - rispetto alle altre Chiese cristiane. Dominus Jesus si chiama il testo e la sua pubblicazione provocherà seri disturbi nelle relazioni ecumeniche.
Eppure, con il procedere del tempo, Joseph Ratzinger diventa un interlocutore sempre più interessante anche per il mondo laico. La sua volontà di instaurare un dialogo tra fede e ragione senza cancellazioni di identità suscita rispetto e attenzione tra gli intellettuali laici. Il suo approccio alla crisi del cristianesimo nella società contemporanea non è mai banale e la riflessione sulla marginalizzazione della fede nella società secolarizzata non è mai priva di spunti anche autocritici. Lucida e fine è la sua sensibilità verso le culture nazionali, specie quelle extra-europee, nell'era della globalizzazione. Non gli sfugge che il livellamento occidentalizzante può provocare frustrazioni, radicalismi, persino scoppi di terrorismo in varie parti del mondo proprio perché non si attiene al rispetto delle persone e delle tradizioni nazionali.
Negli ultimi anni il tema che lo prende di più è quello del rapporto tra identità e dialogo, difesa della cristianità e rapporto con la società contemporanea in un contesto in cui il relativismo minaccia di distruggere qualsiasi tavola di valori. Giuste o sbagliate che possano rivelarsi le sue risposte, il suo slancio religioso e il suo vigore intellettuale hanno affascinato, turbato e convinto il primo conclave del terzo millennio. Al momento di decidere è a lui che i cardinali di tutto il mondo hanno affidato il timone della barca di Pietro.
ROMA - Per anni è stato perseguitato dal nomignolo di Panzerkardinal, e invece Joseph Ratzinger nel suo intimo è timido, pieno di senso dell'umorismo e portato ad una gioiosità mite che gli viene dal carattere bavarese. Guai a confondere i figli della Baviera con i prussiani. Il bavarese ha nell'animo qualcosa di melodico e di cattolicamente misericordioso che i germogli di Prussia non hanno.
Duro, comunque, Joseph Ratzinger lo è stato nel suo mestiere di Guardiano dell'Ortodossia. Su questo non si discute e d'altronde, come ammette suo fratello, Joseph non ama la lotta e gli costa combattere, ma quando prende una decisione non deflette.
Da Marktl am Inn, il villaggio bavarese dove è nato il 16 aprile 1927 (il giorno di sabato santo, tra turbini di neve) il cammino per arrivare a Roma e al trono di Pietro è stato lungo. E soprattutto inaspettato. C'è all'origine della sua storia una cattolicissima famiglia bavarese. Una madre molto affettiva, un fratello che si farà prete e diventerà direttore dei celeberrimi Piccoli Cantori di Ratisbona, una sorella a lui molto cara.
Il padre è gendarme. Ma non ci si immagini un personaggio autoritario che impone il marchio al figlio. Commissario di gendarmeria di provincia, è certamente severo, ma gli ripugna il regime nazista, guarda con ammirazione alla Francia e preferisce lo spirito della piccola patria bavarese alla freddezza prussiana e alla satanica fame di potere hitleriana. Ratzinger ricorda ancora il brivido che passò in famiglia quando Hitler entrò in guerra.
Dalla sua infanzia il nuovo Pontefice si porta l'amore per la musica. Mozart, confessa apertamente, ha il potere di commuoverlo e anche di immergerlo nel dramma dell'esistenza umana. E fra le sue letture giovanili spicca il Lupo della steppa di Hesse, che lo colpì soprattutto perché il nichilismo del protagonista lo fece presto riflettere sul fatto che l'esaltazione dell'io, condotta all'estremo, finisce per capovolgersi nella sua distruzione.
Fra i suoi lati meno conosciuti c'è anche il gusto della poesia. Sì, ne ha composte più d'una. Liriche dedicate alla natura, alle feste religiose, forse un po' sentimentali, ma rivelatrici della sua sensibilità. Resta della sua giovinezza l'esperienza militare a sedici, diciassette anni quando fu aggregato ad una batteria contraerea (ma non gli toccava di sparare) e la visione dei bombardieri alleati che piombavano su Monaco.
Finché arriva, come una liberazione, il crollo della Germania nazista, che per lui significa per breve tempo l'internamento in un campo di prigionia americano.
La Baviera è importante nelle radici di Joseph Ratzinger. Significa una religiosità popolare viva e piena di colore, di musica, di architetture barocche, di pellegrinaggi fra i campi, di preghiera intensa, di edicole di santi ai crocevia e di madonne misericordiose come nel sud. Se Karol Wojtyla da giovane sognava di fare l'eremita, Joseph Ratzinger avrebbe preferito fare per sempre il professore e il teologo.
Libero docente di teologia all'età di trentadue anni, insegna Dogmatica e Teologia a Frisinga, passando poi a Bonn, Muenster e Tubinga. Lezioni e libri sarebbero stato il suo destino se nel 1962 l'arcivescovo di Colonia cardinale Frings non l'avesse portato con sé a Roma come consulente per il concilio Vaticano II.
È la stagione "rivoluzionaria" di Ratzinger. Hans Kueng è suo maestro, Karl Rahner suo compagno di impegno. I due appartengono alla prima linea della teologia critica e fanno parte di quel drappello internazionale di teologi, che forniscono all'episcopato tedesco, francese, belga e olandese (che in Italia trova un'eco negli arcivescovi Montini e Lercaro) le munizioni intellettuali e dottrinali per rovesciare l'impostazione conservatrice dei documenti conciliari preparatori, redatti dalla Curia vaticana, e spingere il concilio nel mare aperto delle riforme. Sono gli anni in cui rimprovererà alla gerarchia ecclesiastica di agire con "le redini tirate e con troppe leggi".
Qualche anno dopo Ratzinger frenerà. Spaventato dal riformismo radicale dei teologi innovatori, e anche sotto lo shock dell'estremismo studentesco cristiano del '68, che nelle università tedesche attacca violentemente la religione come puntello delle ingiustizie capitaliste. Il prete professore non dimenticherà mai l'effetto sconvolgente prodotto dalla vista di un volantino, che proclama "Maledetto Gesù". Risale a quegli anni la diffidenza radicata verso ogni forma di marxismo.
Gli anni Settanta lo vedono molto critico nei confronti di ciò che chiama "lo spirito negativo del concilio", i cambiamenti che non condivide, gli esiti di "declino" che gli pare di intravedere nella vita della Chiesa. Ratzinger critica la decisione di abolire la messa tridentina e la riforma liturgica che mette l'altare al centro dell'assemblea con il sacerdote rivolto ai fedeli.
Nel vecchio modello, spiega, tutti guardavano verso Cristo, il sole che sorge. Adesso, protesta, la mensa eucaristica è incentrata sul prete e la gente. In questo clima di contrapposizione al movimento postconciliare Ratzinger fonda insieme al famoso teologo de Lubac e con l'appoggio di don Giussani leader di Comunione e liberazione la rivista Communio, contraltare alla rivista dei riformatori Concilium.
Piace a Paolo VI questo teologo, protagonista del concilio e avversario delle sue derive più radicali. Così papa Montini, a sorpresa, lo promuove alla cattedra vescovile di Monaco di Baviera e gli impone la berretta cardinalizia. È il 1977. Un anno dopo Ratzinger sarà tra i grandi elettori, che fanno pontefice l'arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla. Alla vigilia del conclave il cardinale teologo mette in guardia in una lunga intervista dal pericolo che marxismo nella sua versione eurocomunista possa in qualche modo influenzare le scelte della Chiesa. Tre anni dopo Giovanni Paolo II lo chiama in Vaticano all'incarico più importante - dopo quello di Papa - nella Curia romana: capo dell'ex Sant'Uffizio ovvero, (secondo la nuova terminologia) prefetto della congregazione per la dottrina della Fede.
Tra Wojtyla e Ratzinger si crea un legame fortissimo, un rapporto di stima e di affetto profondo al punto che negli ultimi anni Giovanni Paolo II respingerà sistematicamente le richieste di Ratzinger di ritirarsi in pensione. Per Giovanni Paolo II il prefetto della congregazione per la dottrina della Fede è il baluardo della dottrina di cui può fidarsi senza esitazione. Wojtyla viaggia e inventa gesti profetici, e intanto in Vaticano il porporato tedesco gli sgombra il campo di tutti i teologi critici: da Schillebeeckxs a Boff, a Curran, a tanti altri allontanati dalle cattedre delle università cattoliche o privati del diritto di pubblicare libri e tenere conferenze.
Nel corso degli anni il cardinale combatte sistematicamente la teologia della liberazione, accusandola di subordinazione al marxismo, sferra un duro attacco ai regimi dell'Est definendoli "vergogna del nostro tempo", pronuncia tutti i veti che Giovanni Paolo II ritiene necessari per mantenere l'ordine nella Chiesa cattolica. No al sacerdozio delle donne, no ai preti sposati, no ad un ruolo eccessivo dei laici nella gestione delle comunità cristiane, no alle coppie omosessuali.
Per papa Wojtyla, che usa un linguaggio meno aggressivo, il cardinale è un partner perfetto nella grande partita contro il socialismo reale e, in America latina, contro i movimenti cristiani rivoluzionari o semplicemente di sinistra. Sul piano interno Ratzinger realizza per il pontefice polacco l'obiettivo di restaurare una severa linea dottrinale attraverso la redazione di un Catechismo universale, destinato a servire per imprimatur papale come base di qualsiasi catechismo nazionale. Qualunque cosa facciano gli episcopati del mondo in campo dottrinale, catechetico o liturgico, interviene a controllare il prefetto della congregazione per la dottrina della Fede.
Suscita scalpore negli anni Novanta il suo documento - debitamente approvato da papa Wojtyla - che esalta la primazia della funziona salvifica di Cristo su ogni altra religione e la superiorità della Chiesa cattolica - in quanto custode della pienezza e della purezza della fede - rispetto alle altre Chiese cristiane. Dominus Jesus si chiama il testo e la sua pubblicazione provocherà seri disturbi nelle relazioni ecumeniche.
Eppure, con il procedere del tempo, Joseph Ratzinger diventa un interlocutore sempre più interessante anche per il mondo laico. La sua volontà di instaurare un dialogo tra fede e ragione senza cancellazioni di identità suscita rispetto e attenzione tra gli intellettuali laici. Il suo approccio alla crisi del cristianesimo nella società contemporanea non è mai banale e la riflessione sulla marginalizzazione della fede nella società secolarizzata non è mai priva di spunti anche autocritici. Lucida e fine è la sua sensibilità verso le culture nazionali, specie quelle extra-europee, nell'era della globalizzazione. Non gli sfugge che il livellamento occidentalizzante può provocare frustrazioni, radicalismi, persino scoppi di terrorismo in varie parti del mondo proprio perché non si attiene al rispetto delle persone e delle tradizioni nazionali.
Negli ultimi anni il tema che lo prende di più è quello del rapporto tra identità e dialogo, difesa della cristianità e rapporto con la società contemporanea in un contesto in cui il relativismo minaccia di distruggere qualsiasi tavola di valori. Giuste o sbagliate che possano rivelarsi le sue risposte, il suo slancio religioso e il suo vigore intellettuale hanno affascinato, turbato e convinto il primo conclave del terzo millennio. Al momento di decidere è a lui che i cardinali di tutto il mondo hanno affidato il timone della barca di Pietro.
Marco Politi