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 2013  febbraio 09 Sabato calendario

Biografia di Raniero Busco

• Roma 17 ottobre 1965. Fidanzato di Simonetta Cesaroni, la ragazza uccisa in un ufficio di via Poma (Roma) il 7 agosto 1990, fu condannato in primo grado il 26 gennaio 2011 a 24 anni di prigione e poi assolto in appello il 27 aprile 2012 per non aver commesso il fatto.
• «Via Poma Ultimo Atto si aggroviglia attorno alla storia di un Alibi prima non richiesto, poi richiesto, quindi smentito e infine fornito di nuovo, ma ormai sulla base di ricordi così lontani da risultare, almeno agli occhi degli investigatori, poco convincente. È l’alibi principe, se vogliamo essere onesti: dov’era Raniero Busco quando Simonetta fu uccisa? Dov’era quest’uomo, che ormai ha superato la quarantina e ha messo su famiglia, nel pomeriggio del 7 agosto 1990? Ma nessuno sentì la necessità di chiederglielo, come si deduce dai verbali di ben due deposizioni, la prima l’8 agosto alle 6 e mezza del mattino – quindi a neanche ventiquatt’ore dal delitto – e la seconda il 10 settembre di quelle stesso anno “alle ore 11,25”, in tutte e due le occasioni davanti agli uomini della Squadra Mobile di Roma, V sezione. L’8 agosto gli fecero un sacco di domande sullo stato della sua relazione con Simonetta e lui si dilungò con tutta una serie di considerazioni che avrebbero fatto la storia dei talk show televisivi, tipo quella: “...Voglio precisare che il nostro rapporto sentimentale non era equilibrato, nel senso che io nutrivo un semplice affetto nei suoi confronti, mentre lei...”. Un mese dopo, Raniero Busco sfiorò appena la questione cruciale che poi l’avrebbe portato a processo, raccontando che la sera del 6 agosto, il giorno prima dell’omicidio, “ho lavorato fino alle 7 del giorno dopo”, come operaio all’Alitalia, “dopodiché sono andato a casa dove sono rimasto a dormire fino all’ora di pranzo”. Ora voi vi aspettereste che qualcuno gli abbia chiesto: “E dopo l’ora di pranzo che hai fatto? Quali sono stati i tuoi movimenti durante quel pomeriggio?”. Niente, la deposizione fila via liscia come l’olio. Prima di aprire lo scenario che riporta Raniero Busco alla ribalta, bisogna solo contestualizzare queste due deposizioni: probabilmente nessuno gli chiese un alibi perché fra gli investigatori, in quei giorni, ben altre erano le convizioni, ben altre piste sembravano degne di essere seguite, perché Raniero Busco a tutti sembrava semplicemente un innocente a tutto tondo. Debbono passare non cinque, non dieci, ma addirittura sedici anni, perché al termine di un carosello estenuante di indagini fallite, si torni a parlare di Raniero Busco. A quel punto l’alibi glielo chiedono eccome. E lui tira in ballo un suo amico, un Simone Palombi che il pomeriggio del 7 agosto 1990 dovrebbe averlo trascorso tutto con lui a riparare un motorino. Mai ricordo risultò così fragile. Bastò ripescare fra le carte un’altra delle deposizioni rese quell’8 di agosto, “alle ore 17,00”, quindi neanche dodici ore dopo il primo verbale di Busco, per scoprire che Simone Palombi era stato da tutt’altra parte: “Unitamente ai miei genitori mi sono recato a Frosinone in quanto mia zia Palombi Giselda stava male. Verso le ore 19,00, sempre insieme ai miei genitori, ho fatto rientro a casa. Verso le 19,45 sono uscito dalla mia abitazione e mi sono recato al bar dei portici ove ho incontrato il mio amico Busco Raniero insieme ad altri amici comuni”. Occhio all’orario, 19,45: a quel punto Busco poteva anche essere andato in via Poma e tornato. La frittata era fatta. A nulla (...) è valso che Raniero aggiustasse il tiro. Intervista con Oggi (...): “Io era a casa quel pomeriggio, ho sistemato sulla rampa la Panda azzurra di mio fratello Paolo per ripararla. Alcune vicine lo ricordano. C’era anche mia madre... Ho parlato del motorino di Simone solo perché non riuscivo a ricordarmi, a distanza di tanto tempo, cosa avessi riparato quel pomeriggio”. Nella stessa intervista, Raniero Busco dice dell’altro. Sostiene che a botta calda lui fornì l’alibi giusto, ma che non c’è traccia nel verbale – come abbiamo visto all’inizio – di quelle sue dichiarazioni. “Non ricordavo più... ho chiesto di cercare nelle mia deposizione di allora. Ma nessuno aveva trascritto quella risposta, quell’alibi”» (Nino Cirillo) [Mes 11/11/2009].
• Busco al momento della condanna a 24 anni di galera, «46enne meccanico dell’Alitalia, sposato con Roberta e padre di due gemellini di 9 anni (Valerio e Riccardo)» (Rory Cappelli e Maria Elena Vincenzi) [Rep 27/1/2011].
• Tante le polemiche seguite alla sentenza di primo grado. Ad esempio il penalista Carlo Federico Grosso fece notare che nel processo di via Poma c’è «un elemento specifico di grande interesse. L’irrompere sulla scena delle investigazioni della cosiddetta “prova scientifica”: la scoperta di una traccia di saliva su alcuni indumenti della ragazza dalla quale è stato isolato il dna di Busco. (...) Vi sono prove scientifiche che sono, di per sé, sul terreno della scienza, sicure. Una di esse è proprio l’accertamento del dna. Tale accertamento deve essere, peraltro, sempre contestualizzato: di per sé dimostra che c’è stato un contatto, un collegamento, la presenza di una persona in un luogo. Per avere la prova della commissione del delitto da parte di chi ha lasciato la traccia occorre tuttavia stabilire quando c’è stato quel contatto, in quale contesto, in quale specifico luogo. Altrimenti il dato rimane equivoco, non risolve (...) E ancora: la “compatibilità” con la configurazione dentaria di Busco dei segni di un morso su di un seno della vittima (peraltro contestata dalla difesa dell’imputato) era di per sé sufficiente a dimostrare, assieme all’accertamento del dna, che l’imputato proprio quel giorno si trovava con la vittima? Che ruolo avevano, in questo quadro, gli alibi addotti e contestati? E così via». Cristiano Gatti sul Giornale: «Prima ipotesi: Busco è davvero colpevole. La tentazione è dire subito che allora deve andare in galera, perché quello è il posto degli assassini. Ma persino questo caso, apparentemente così semplice e lineare, implica il suo tormento: davvero è giusto che un altro Busco, nei fatti capace di vivere decorosamente in un consesso civico, come chiedono qualunque pena e qualunque recupero, proprio questo Busco paghi adesso, in un’altra vita, la colpa di quel Busco così diverso e così lontano? Comunque, c’è qualcosa che angoscia. Ma poi, purtroppo, c’è la terribile ipotesi due: Busco è innocente. Allora: un uomo innocente viene prelevato a metà del suo cammino di vita, strappato a moglie e figli, e sbattuto a marcire in cella» (Cristiano Gatti) [Grn 27/1/2011]. 


• «È stata la super consulenza disposta dalla Corte, infatti, a smontare pezzo per pezzo tutti gli indizi principali contro l’imputato. Che, per il segno di un morso sul seno e il suo dna sul corpetto della vittima, era finito nel registro degli indagati soltanto nel 2007. Fidanzato magari non esemplare, per anni era rimasto fuori da ogni sospetto. Anni in cui si erano sovrapposte le immagini di Pietrino Vanacore, il portiere poi morto suicida, di Federico e Cesare Valle, l’oscuro supertestimone Roland Voeller, e infine lui, Raniero Busco. Tante piste, nessun colpevole. Resta l’anatomia di un mistero. A cominciare dagli indumenti spariti e dalla misteriosa ripulitura dopo l’omicidio. Perché la relazione di servizio sulla scena del crimine aveva raccontato che la camera in cui si consumò l’assassinio venne ripulita accuratamente. Almeno tre litri di sangue vennero cancellati e sparirono anche i vestiti che il killer strappò via dal corpo della ragazza, forse per occultare il cadavere e allontanare i sospetti da via Poma. Preoccupazione che avrebbe dovuto avere solo chi abitava o lavorava nel palazzo. E non certo Raniero, che veniva da Morena, da tutt’altra parte della città» (Angela Maria Erba) [Rep 28/4/2012].
• «Ha l’aria di uno uscito da 12 riprese con Mike Tyson, nella sua prima mattinata fuori dall’incubo. Espressione esausta, viso segnato, maglietta blu con lo stemma di Londra, jeans e scarpe da ginnastica, Renato Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, ex presunto assassino, ciondola tra salotto, cucina e cellulare rispondendo agli amici e tagliando corto coi giornalisti. La falange del medio della destra è amputata di netto: un incidente d’adolescenza, quando già si divertiva a trafficare coi motori, la passione che sarebbe diventata il suo mestiere. Roberta, la moglie, al contrario, sprizza energia da tutti i pori: graziosa, fresca di parrucchiere, i biondi capelli ricci raccolti dietro la nuca, la mimica esagerata che a volte la fa sembrare una bambina. Il day after del processo più contestato e seguito degli ultimi anni ha il sapore di un risveglio lento e di ansie che si dissolvono come fumo. La mamma di Roberta, gentilissima, serve caffè e pasticcini, un vassoio avanzato dalla grande festa di ieri in cui tutta la borgata si è riversata in questo appartamentino ordinato dalle pareti color senape, stampe anonime, un divano di pelle nera, un maxischermo tv dove sono state proiettate, per ore, le immagini liberatorie della sentenza d’assoluzione» (Massimo Lugli) [Rep 29/4/2012].