Vanity Fair, marzo 2008, 8 febbraio 2013
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Ve lo do io Grillo
Vanity Fair, marzo 2008
È l’8 settembre. Due milioni di persone in duecentoventi città di tutt’Italia celebrano il V-Day, una nuova festa nazionale non ufficiale, con la “V” a significare “vittoria”, “vendetta” e, soprattutto, “vaffanculo”. L’evento è stato organizzato da Beppe Grillo, il più popolare comico italiano, per protestare contro la corruzione endemica del governo nazionale. Il cinquantanovenne Grillo, col suo aspetto da orso, la voce un po’ a trombetta e una massa di riccioli grigi sulla testa, è una specie di ibrido italiano tra il regista di denuncia Michael Moore e lo sbeffeggiatore televisivo Stephen Colbert: un attivista popolare con una particolare propensione alla satira politica. Grillo guida la dimostrazione di Bologna, apparendo in piazza Maggiore di fronte a una folla di circa centomila persone, più che per la finale dei Mondiali di calcio. In jeans, scarpe da tennis e polo nera, sta in piedi su un palco fiancheggiato da alti pannelli neri decorati con “V” rosso sangue. Dietro di lui, proiettati su un grande schermo, i nomi dei 25 senatori e deputati italiani condannati con sentenza definitiva. Grillo legge quei nomi a voce alta, in ordine alfabetico, accompagnati dai relativi reati: dalla corruzione alla falsa testimonianza, dall’evasione fiscale a delitti più sorprendenti, come la fabbricazione di ordigni esplosivi e il concorso in omicidio. La folla emette urla e fischi, sollevando l’indice e il medio per formare la “V” di vittoria oppure, ogni volta che Grillo gridava “Vaffanculo”, soltanto il dito medio. “Paolo Cirino Pomicino”, grida. “Corruzione e finanziamento illecito, cose per le quali è stato promosso alla Commissione parlamentare antimafia! Un giorno mi ha scritto una lettera, e io gli ho telefonato. Mi ha detto: “Signor Grillo, lei fa un errore sostanziale. Confonde la politica con la giustizia” (Cirino Pomicino ha negato che questa conversazione abbia mai avuto luogo). A questo punto, Grillo fa una pausa. “E allora gli ho detto: “Vaf-fan-culo”. Grillo lancia uno sguardo sulla piazza, poi prosegue. “Facciamo parte di una nuova Woodstock. Solo che stavolta i drogati e i figli di puttana sono dall’altra parte!”. Dopo che l’ultimo spite ha finito di parlare, a buio fatto, Grillo, visibilmente stanco, torna sul palco. “Quel che voglio dirvi, dal cuore, è che non siamo ancora arrivati alla nostra destinazione: questo è soltanto l’inizio. Siamo riusciti in qualcosa che farà storia”. La folla intona il suo nome, lui abbassa lo sguardo, visibilmente commosso, e si passa le dita tra i capelli. Quando ormai la folla si è dispersa, ci incamminiamo verso un vicino ristorante. Dall’altra parte della strada, un gruppo di ragazze gli grida: “Beppe, San Beppe, salvaci tutti!”, Beppe rivolge loro un gesto a V un po’ meno convinto. “Beppe, sei un grand’uomo!”, gli fa qualcun altro. “No, sono solo grosso”, replica lui, toccandosi la pancia. Sul marciapiede, due bambine fanno il gioco della campana, e intanto cantano la parola proibita che questa sera, però, è consentito pronunciare: “Vaaaf…fannn…cuuuuuu…loooooo!”.
Negli ultimi due anni, la popolarità della classe politica italiana ha raggiunto livelli minimi. Il best seller di saggistica del 2007, che dal maggio scorso ha venduto due milioni di copie, è La casta, dei giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il titolo del libro è ormai entrato nel linguaggio quotidiano, cristallizzando la diffusa percezione che i politici italiani siano diventati un’oligarchia insaziabile. Il budget annuale della presidenza italiana è più del triplo di quello di Buckingham Palace, e i parlamentari italiani guadagnano il doppio di quelli francesi, e quasi il quadruplo di quelli spagnoli. Hanno convertito in legge numerosi privilegi gratuiti: limousine con autista e viaggi aerei, lezioni di tennis private, barbieri e parrucchieri, e soprattutto pensioni generose, maturate dopo appena 30 mesi in carica. Hanno lasciato in “eredità” i loro seggi a coniugi, figli e nipoti. E sono riusciti a restare in carica per interi decenni. Clemente Mastella, che il 16 gennaio scorso, indagato per diversi reati, si è dimesso da ministro della Giustizia, è stato in parlamento per 31 anni, come membro di quattro partiti politici diversi. Ha poi ritirato il suo partito, l’Udeur, dalla coalizione governativa del presidente del Consiglio Romano Prodi; una mossa che, il 24 gennaio, dopo un voto di sfiducia in Senato, ha determinato la caduta del governo. “Stavo guardando la televisione, e ho visto parlamentari che si sputavano addosso e si gridavano: “A frocio!”, mi racconta Grillo. “Poi ho cambiato canale e mi sono messo a guardare i Simpson, e quello in confronto sembrava un vero Parlamento. È una cosa surreale. Siamo andati oltre ogni decenza”. Oltre ai 25 parlamentari condannati della lista di Grillo, ce ne sono altri 57 che si stanno appellando contro verdetti di colpevolezza, o sono stati amnistiati, o sono sfuggiti alla condanna grazie ai limiti di prescrizione, o sono attualmente indagati. Comprese figure di primissimo piano, tra cui Giulio Andreotti, sette volte primo ministro tra il 1972 e il 1992, e Silvio Berlusconi, l’ex presidente del consiglio. “È difficile fare il comico in Italia. Non mi posso inventare roba come questa”, ha detto Grillo durante il V-Day. “Ci sono quasi ottanta criminali in Parlamento, circa uno su dodici. È peggio di Scampia, il bassofondo più pericoloso di Napoli, infestato dalla camorra. Lì i criminali sono soltanto uno su quindici!”.
Grillo ha galvanizzato gli italiani parlando della corruzione con irriverenza e umorismo. O meglio, semplicemente parlandone. La stampa del Paese è spesso controllata, o addirittura posseduta, dalle corporazioni e dai partiti politici, la cui condotta disonesta viene tendenzialmente mascherata o ignorata dalla televisione e dai giornali (a proposito: Grillo sta organizzando un altro V-Day, il 25 aprile, per protestare contro il servilismo della stampa). I giornalisti che osano scrivere deglia articoli sulla corruzione della classe politica si trovano a dover affrontare la costante minaccia di cause per diffamazione e richieste di risarcimento. Grillo ne ha vinte a decine, e ne sta affrontando attualmente altre quattro, tra cui una, per circa dieci milioni di euro di danni, fattagli da Biagio Agnes, l’ex direttore della Stet, che all’epoca era la compagnia nazionale di telecomunicazioni. Beppe lo criticò durante uno spettacolo del 1993. Dal 2005 Grillo preferisce rivolgersi al pubblico attraverso il suo blog, www.beppegrillo.it all’ottavo posto tra i più letti del mondo. Una specie di governo parallelo, con consulenti politici volontari tra i quali figurano l’architetto Renzo Piano, il commediografo Dario Fo e l’economista Joseph Stiglitz, autore della prefazione di un libro sulle leggi sul lavoro che Grillo ha pubblicato on line (coi suoi spettacoli, i suoi libri e i suoi dvd ha guadagnato decine di milioni di euro, che utilizza per finanziare il suo sito e il suo attivismo). Secondo un sondaggio di Renato Mannheimer, Beppe risultava al secondo posto tra i politici più popolari in Italia dopo Walter Veltroni, ex sindaco di Roma e leader del centrosinistra. La sua campagna, però, ha diviso gli intellettuali: alcuni ritengono che i suoi attacchi siano rozzi e indiscrimininati, e che offrano poche soluzioni pratiche agli abusi che criticano. Lo scorso settembre, sul Corriere della Sera, il politologo Giovanni Sartori li ha paragonati alla “presa della Pastiglia”, su Repubblica Eugenio Scalfari ha sostenuto che quello del V-Day è un movimento di massa guidato da un demagogo, e un possibile preludio a una dittatura di destra, e sullo stesso quotidiano Umberto Eco ha scritto che la campagna di grillo annunciava “una malattia del corpo sociale”.
Grillo è cresciuto a San Fruttuoso, un quartiere della classe medio-bassa vicino al porto di Genova. “Tutti al porto prendevano bustarelle”, mi racconta. “C’erano contrabbandieri che indossavano le uniformi dei carabinieri per rubare i carichi dei loro concorrenti: sigarette, caffè, banane. La Guardia di Finanza prendeva il 5 per cento, e un altro 5 per cento andava agli scaricatori, che rubavano dai sacchi. I container sigillati non erano ancora stati inventati. Andavi lì e vedevi tutto quello che è possibile immaginare: spacciatori, contrabbandieri, puttane, travestiti, tutto”. La mamma digrillo, Piera, era un’artista e una pianista dotata. Le venne diagnosticato di morbo di Alzheimer quando Beppe aveva 23 anni (contribuirà alle sue cure fino alla sua morte, quindici anni dopo). Suo padre, Enrico, era proprietario di unna fabbrica di torce ad acetilene. Aveva cinquant’anni quando nacque Beppe, e aveva vissuto entrambe le guerre mondiali. “Era un uomo strano, capace di comunicare anche senza parlare”, mi spiega Beppe. “Quando facevo tardi la sera, trovavo una serie di bigliettini vicino alla porta. Il primo diceva: è mezzanotte e ancora non sei qui. È un po’ tardi. Su quello dopo c’era scritto: sono le due e ancora non sei a casa. Sono preoccupato, e poi domani devi andare a scuola. E su un altro ancora: sono le tre e un quarto. Non dir niente a tua madre. E poi: Sono le quattro e ancora non ci sei. Sono disperatamente preoccupato”. Non dormiva, mi scriveva bigliettini. Quando tornavo a casa, vedevo i bigliettini, andavo in camera e mi mettevo, a letto. E subito la porta della mia camera si apriva, lui lanciava una rapida occhiata dentro, dopodiché la porta si richiudeva. La mattina successiva, non diceva niente di quel che era accaduto. Da bambino, Grillo eseguiva numeri comici e musicali per la sua famiglia. “Beppe cantava e suonava la sua chitarra, lanciando urli alla James Brown”, ricorda suo fratello Andrea. “E nostro padre diceva: sembra una bestia! Durante la cena, veniva a tavola cantando come Ray Charles e indossando grossi occhiali scuri, oppure faceva finta di fumare un enorme spinello. Nostra madre rideva a crepapelle, ma papà le diceva: Tuo figlio è un idiota. Guarda le stupidaggini che fa invece di studiare come dovrebbe”. Anni dopo, Grillo venne a sapere che suo padre aveva memorizzato le sue battute migliori per ripeterle agli amici al bar dove andava dopo il lavoro.
Durante l’adolescenza, Grillo cominciò a esibirsi nei locali notturni della zona. All’inizio, cantava e suonava la chitarra, ma gradualmente le sue battute tra una canzone e l’altra presero sempre più spazio, e alla fine si ritrovò a fare il comico. “Mi facevano aspettare in cucina, e io stavo lì in piedi con la mia chitarra fino a quando , a mezzanotte, accendevano le luci e mi mandavano sulla pista da ballo, dove tutti si chiedevano perché mai la musica si fosse fermata. Avevo due minuti per portare il pubblico dalla mia parte, altrimenti mi buttavano fuori a calci”. Il numero di Grillo consisteva in rapide battute, legate tra loro da una frase che successivamente sarebbe diventata il suo marchio di fabbrica: “È pazzasco! È una cosa pazzasca!”. Parodiava i movimenti della gente sulla pista da ballo. “Scherzavo sulla guardarobiera, sulla cameriera, sul gigolò che si appoggiava al bancone del bar con un whisky in mano”. I padre, sperando che Beppe intendesse lavorare nella ditta di famiglia, lo convinse a diplomarsi in ragioneria. Grillo entrò nella ditta nel 1968, a vent’anni, ma si sentiva fuori posto. «Cominciavo a dire: “Sono venuto a chiedere di quel piccolo debito…”, e loro mi gridavano: “Vaffanculo, Grillo, sappiamo chi sei!”. E io mi chiedevo: “Che diavolo ci faccio qui a giocare al ragioniere?”». Nel 1971 diede le dimissioni ma, incapace di mantenersi con i soli proventi delle sue esibizioni comiche, dovette trovarsi un lavoro part-time come venditore della Panfin, all’epoca un importante produttore di jeans.
Nel 1975, durante un ritiro aziendale in Toscana, i colleghi gli trovarono una chitarra e gli chiesero di esibirsi.Il proprietario della panfin gli fece i complimenti e lo invitò a sedersi al suo tavolo. Diversi giorni più tardi, arrivò una lettera della Panfin, e Grillo radunò i suoi genitori e suo fratello intorno al tavolo da pranzo prima di aprirla. «Gli avevo detto del successo che avevo avuto, di come ero piaciuto al capo, di come ero sicuro che mi avrebbe affidato un’intera linea di jeans da vendere. Aprii la busta lentamente e tirai fuori la lettera, che invece diceva: “Sei licenziato”. Avendo visto come trascorrevo le mie serate, il capo riteneva che non avrei mai potuto dare il meglio come venditore alle 8 del mattino. Allora presi lo scatolone del campionario e lo scaraventai dalla finestra. Cadde giù per undici piani e, quando colpì la strada, esplose come una bomba». Il giorno successivo, Grillo prese un treno per Milano. Per due anni, si esibì in piccoli cabaret, finché riuscì a ottenere un provino con un dirigente Rai. Tre mesi dopo era in televisione, nel varietà Secondo voi. Nella Tv italiana dell’epoca c’era un copione da seguire. «Numeri di canzoni e balletti, e io pensavo: “Siete degli idioti!”», ricorda Grillo. Presto, però, comincio a improvvisare monologhi comici. Prendeva in giro politici, campioni dello sport, addirittura il Papa. Alla fine degli anni Settanta, era diventato una celebrità nazionale. Nel 1981, mentre era alla guida della sua Chevrolet blazer sulle Alpi, vicino al confine francese, beppe finì su una lastra di ghiaccio e perse il controllo dell’auto, che precipitò in un burrone. Lui riuscì a buttarsi fuori prima dello schianto, ma tre dei suoi passeggeri, una coppia di amici e il loro giovane figlio, rimasero uccisi (un quarto passeggero rimase gravemente ferito). Un’inchiesta lo scagionò da ogni responsabilità, ma gli avvocati dei familiari della coppia, che tra l’altro aveva lasciato una figlia orfana, ricorsero in Appello. Alla fine, Grillo venne condannato per omicidio colposo, perché la strada dov’era avvenuto l’incidente, benché abitualmente usata dalla gente del posto, era tecnicamente chiusa al traffico. Deciso ad aiutare l’orfana, Beppe vendette la maggior parte delle sue proprietà, casa compresa, e a lei destinò tutto il ricavato, l’equivalente di 400 mila euro. «Quella tragedia lo cambiò», dice Andrea Grillo. «Da allora, è stato un po’ meno allegro, un po’ più cupo». Continuò comunque a esibirsi dal vivo e in televisione, e dopo uno spettacolo, nel 1984, incontrò Marco Morosini, un ambientalista che insegnava all’Università di Ulm, in Germania. «Arrivò questo tizio, con gli zoccoli e lo zaino, e mi parlò del ciclo dello spazzolino da denti in Pvc, questo viene incenerito, e il cloro che contiene diventa diossina e finisce nell’aria. L’aria lo porta sopra il mare, piove, e la diossina va a finire nel plancton. I pesci mangiano il plancton, tu vai al ristorante, ordini un bel branzino da 50 euro e ti mangi il tuo spazzolino. Era bellissima quell’immagine, ti faceva capire che tutto quello che butti via ritorna a te! Una visione globale che fino a quel momento mi era sfuggita». La comicità di Grillo stava già diventando più politica, e la Rai tentò, con scarso successo, di tenerla a freno. «All’epoca la censura non era brutale e minacciosa come oggi», dice Grillo. «Se ti veniva assolutamente proibito di dire una cosa, potevi dirla in modo che la gente se ne accorgesse troppo tardi».
Nel 1981, l’Italia fu scossa da uno dei più grandi scandali del dopoguerra: la scoperta di una loggia massonica segreta, la P2 (dove «P» stava per «propaganda»), i cui membri – importanti politici, giudici, industriali e funzionari dei servizi segreti – vennero implicati in frodi finanziarie, delitti di mafia e attentati terroristici di destra. I dirigenti Rai avvertirono Grillo: in Tv non se ne doveva parlare. Allora lui pensò di scriverne. Era il1983: portò in scena una lavagna e disegnò l’elaborato “teorema della P2”, sottolineando “appartenenza a essa del segretario del Partito socialdemocratico Pietro Longo. Nel 1986, Bettino Craxi, il leader socialista allora presidente del Consiglio, fece una visita di Stato in Cina, e in Tv Grillo fece una battuta sul suo braccio destro, Claudio Martelli, che gli chiedeva: «Ma se qui sono tutti socialisti, a chi rubano?». Craxi protestò con la Rai, e il comico genovese venne praticamente bandito dalla televisione di Stato, tranne rare occasioni, fino al ritorno con uno spettacolo in diretta nel 1993, non molto tempo dopo, guarda caso, le dimissioni di Craxi da segretario del Partito socialista italiano, legato allo scandalo di Tangentopoli. Nel frattempo, avendo perso il suo lavoro in televisione, Grillo aveva portato uno spettacolo dal vivo in giro per l’Italia. Invece di stare sul palco, camminava tra il pubblico, seguito da una videocamera che proiettava la sua immagine su uno schermo al centro del teatro, una tecnica che usa ancora oggi. «Li tocco, mi faccio odorare da loro: voglio entrare fisicamente nelle loro menti».
Nel 1989, durante una delle sue rare apparizioni televisive, Grillo scoprì di poter comunicare con il suo pubblico anche senza battute comiche. Al festival di Sanremo, si esibì in un monologo a cui assistettero 22 milioni di telespettatori. Per dimostrare come il giornalismo televisivo avesse perso la sua integrità, grillo raccontò l’episodio di un bambino rapito che, dopo essere stato rilasciato, era stato intervistato in televisione dal noto giornalista Sandro Mayer. E Mayer gli aveva chiesto se avesse sentito di più la mancanza di sua madre o del suo giocattolo preferito. «Dissi che un giornalista semplicemente non poteva fare una domanda del genere», ricorda Grillo, «Che avrebbero dovuto rapire quel giornalista e, una volta liberato, gli avrebbero dovuto chiedere: “Senti, testa di cazzo, che cosa ti è mancato di più, tua madre o il tuo giornale?”. Per la prima volta non avevo fatto una battuta, ma avevo espresso un giudizio serio su qualcosa. E avevo visto il pubblico annuire. Perciò dissi loro: “Avanti, date un segno anche voi. Sono stato cacciato dalla televisione, ho avuto i miei problemi: se volete mostrarmi la vostra solidarietà, alzatevi un attimo in piedi”. E tutti si alzarono. Allora mi dissi: “Posso sopravvivere anche se non chiudo con una battuta”».
Nel gennaio 1994, due ufficiali della Guardia di Finanza suonarono il campanello della casa di Grillo a Genova e gli chiesero di accompagnarli a Napoli, perché doveva essere interrogato da Agostino Cordova, un pubblico ministero famoso per la sua durezza. «Pensavo di essere sospettato di qualcosa. Mi avevano chiuso in una stanza con un computer, senza dirmi niente, e mi avevano chiesto nome e cognome. Non riuscivo nemmeno a ricordare la mia data di nascita. Poi arrivò il terribile Cordova, con il suo sopracciglio unico, i denti coperti di tartaro e il sigaro molliccio, e io gli dissi: “Guardi voglio collaborare totalmente. Le dirò tutto. Mi dica soltanto che cosa ho fatto, e io confesserò”». Cordova invece aveva convocato Grillo a Napoli non come sospettato ma come testimone informato sui fatti. Durante il suo spettacolo televisivo del 1993, Grillo aveva rivelato che la Sip, allora la compagnia telefonica nazionale, stava usando le chat line erotiche e astrologiche per produrre illegalmente guadagni esentasse all’estero. Cordova aveva aperto un’indagine e arrestato ventidue persone. E voleva sapere come avesse fatto il comico a scoprire quell’intrigo. «Gli dissi: “beh, l’ho scoperto perché le società coinvolte sono quotate in Borsa e i loro documenti sono di dominio pubblico. Non bisogna fare niente di strano per averli”». Grillo era stato allertato da alcuni fan che gli avevano mandato le loro bollette telefoniche, compresi addebiti per telefonate a chat line che loro sostenevano di non aver mai fatto. Ha svolto anche altre indagini, facendo affidamento sulle indicazioni di un gruppo di consulenti in continua espansione. Nel gennaio 2004, un colonnello della Guardia di Finanza interrogò Beppe sul fallimento della Parmalat. Il crollo della società sorprese i giornalisti, i politici e persino la famosa agenzia di rating americana Standard & Poor’s, ma erano già due anni che, nei suoi spettacoli comici, Grillo faceva battute sulla sua fragile situazione finanziaria. Ancora una volta, spiegò agli inquirenti che le prove erano sempre state di publico dominio. «Dissi al colonnello che bastava guardare le relazioni finanziarie. Visto che c’ero, gli portai un po’ di documenti su Fiat, Telecom e Fininvest, così poteva portarsi avanti». Colpiti dalla sua competenza e dal suo coraggio, sempre più italiani gli chiedono aiuto. È ottobre quando gli faccio visita nella sua villa rosa salmone su una collina a est di Genova, dove vive con sua moglie, Parvin Tadjk, e i loro due figli, e due figli di un precedente matrimonio della signora Tadjk (anche Grillo ha due figli da un rapporto precedente). E, mentre stiamo seduti nel soggiorno con vista sul Mediterraneo, il telefono non smette di squillare. L’organizzatrice di una marcia anti-stupro telefona per invitare Grillo, e lui accetta («Nessuno dà ascolto a queste donne», dice dopo aver riattaccato. «Ma dove cazzo sono finite le femministe?»).
Mauro Gallegati, un docente dell’Università di Ancona che gli fa da consulente economico, chiama per organizzare un incontro con l’economista Joseph Stiglitz. Gianroberto Casaleggio, il suo stratega Internet, telefona per parlargli delle migliaia di agricoltori sardi che rischiano l’esproprio perché le banche chiedono di rientrare e loro sono rimasti indietro nei pagamenti. Grillo promette che farà loro visita. A dicembre, quando il Dalai Lama è arrivato in Italia e il Papa e il presidente del Consiglio hanno preferito trovare scuse per non riceverlo, Grillo lo ha incontrato: «Finché la Cina era soltanto comunista, il Dalai Lama veniva ricevuto da tutti, ma ora che la Cina è iper-capitalista, è oscurato», ha scritto sul suo blog, che riceve fino a 250 mila contatti e duemila commenti al giorno. I suoi post vengono pubblicati in italiano e in inglese, e da novembre ne sono stati pubblicati anche in giapponese (per esempio, quello dedicato al caso dei politici di Tokyo che si sono suicidati dopo le accuse di corruzione: Beppe ha proposto ai giapponesi di accettare alcuni politici italiani in un programma di scambio culturale, nella speranza che seguano l’esempio dei loro colleghi).
Nel 2006, Grillo ha lanciato una scalata «alla genovese» contro Telecom Italia, accusandola di cattiva gestione e di spionaggio industriale. Sul suo blog, invitava gli azionisti di Telecom a dargli la delega per la successiva assemblea generale degli azionisti. Ha così accumulato 1.750 deleghe, per un totale di 4.800.000 azioni, diventando di fatto il maggiore azionista votante. La Consob ha stabilito che le deleghe non erano state trasferite in modo corretto ed erano quindi nulle. Ciononostante, nell’aprile dell’anno scorso, Grillo ha parlato all’assemblea della Telecom e chiesto le dimissioni del consiglio di amministrazione. Il V-Day è venuto fuori da un’altra campagna di grillo, «Parlamento Pulito», lanciata nel 2005, quando il comico genovese ha pubblicato sul suo blog la lista dei condannati in Parlamento. Nessuno dei giornali italiani da lui contattati aveva accettato di pubblicare i nomi o la denuncia, perciò Grillo ha organizzato una colletta sul suo blog, raccogliendo 60 mila euro, e comprato una pubblicità a tutta pagina sull’International Herald Tribune. All’interno, invitava qualunque Paese con un numero altrettanto elevato di condannati in Parlamento a fare un gemellaggio con l’Italia. «Dall’India ho ricevuto una lettera della Fondazione Gandhi. Mi hanno detto che nel loro Parlamento c’erano undici criminali, ma che poi li hanno mandati via a calci nel sedere». Grillo ha deciso allora di far ricorso a un mezzo raramente usato, la legge di iniziativa popolare. Nel luglio scorso, ha depositato presso la Corte costituzionale un disegno di legge che proibisce ai condannati di prestare servizio in Parlamento, limita la durata in carica dei parlamentari a un massimo di due legislature (dieci anni) e cambia il sistema elettorale in modo da garantire l’elezione popolare diretta di tutti i membri del Parlamento (mentre, con la legge attuale, la maggior parte dei candidati vengono scelti dalle segreterie di partito). «Quando ho consegnato quel disegno di legge, è successa una cosa bellissima. Un uomo elegante mi si è avvicinato furtivamente, e io ho pensato: “Questo dev’essere uno spacciatore di crack”. Allora quello si è avvicinato di più e mi ha sussurrato all’orecchio: “Signor Grillo, sono pienamente d’accordo con tutto ciò che sta facendo”. Quindi è schizzato via. Al che ho chiesto ai presenti chi era quel signore. E loro: “È il primo presidente della Corte di Cassazione”» (il giudice in questione, Vincenzo Carbone, dice di ricordare la visita di Grillo, ma non di aver fatto il commento che gli viene attribuito). I legislatori italiani, intanto, hanno dato il via a una sorta di rappresaglia.
Nell’ottobre scorso, il governo prodi ha proposto una legge per sottoporre i siti e i blog su Internet alle stesse regole sulla diffamazione applicate alla carta stampata, costringendoli così ad assumere sia un editore che un giornalista iscritto all’albo. «Se questa legge passerà, sarà la fine del web in Italia», ha scritto grillo nel suo blog qualche giorno dopo. «Il mio blog non chiuderà, comunque. Se sarà necessario, porterò armi, bagagli e server in un Paese democratico» (la legge, intanto, è ancora in attesa di approvazione in Parlamento). In novembre, l’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha annunciato che stava citando in giudizio Grillo per un discorso diffamatorio da lui pronunciato proprio in quel mese al parlamento europeo (Grillo, riferendosi a un’indagine per corruzione che Mastella aveva bloccato, aveva detto che, mentre un tempo era necessario usare la dinamite per fermare i magistrati che indagavano sui potenti, adesso ci pensava direttamente il ministro della Giustizia). Quando è venuto a sapere di essere stato citato in giudizio, Grillo ha invitato i lettori del suo blog a firmare una dichiarazione in cui dicono di essere d’accordo con i suoi commenti su Mastella, in cambio, lui avrebbe conferito loro il titolo di «Ammastellati». Finora, quasi settantamila persone sono state «ammastellate». Empre in novembre, come promesso, Grillo vola in Sardegna per partecipare a una dimostrazione di agricoltori a Decimoputzu. Il Banco di Sardegna sta per espropriare le loro terre, e in diverse centinaia hanno occupato il municipio, inscenando uno sciopero della fame («Dio solo sa se avrei bisogno di farlo anch’io», scherza). Ray-Ban con lenti verdi a specchio, a Fiumicino Grillo è salutato da sconosciuti che gli danno pacche sulle spalle e si fanno fotografare al cellulare abbracciati a lui. Al cancello d’imbarco, Beppe scherza con gli altri passeggeri sui cibi geneticamente modificati, pomodori quadrati che si impilano come mattoni, il tabacco con i geni della lucciola, che ti permette di trovare le sigarette al buio. Fa piegare in due una donna imitando il dialetto sardo: «Zaganauu uzzauu tu porcedduu!». Mentre inizia l’imbarco, un uomo si avvicina con un fascio di carte. Gli spinge a forza in mano una petizione a favore del bando sull’importazione dei cibi geneticamente modificati, insiste perché Grillo la pubblicizzi. «La gente non può caricarmi di tutte queste cause», si sfoga Beppe, quando quello se n’è andato. «Non posso prendermele tutte sulle spalle. Dovete fare qualcosa da soli!». All’atterraggio a Cagliari, lo attende una decina di sostenitori che ci portano in macchina, tra i campi scuri di carciofi, fino a Decimoputzu. L’auto si ferma vicino al municipio, dove la strada è bloccata dai manifestanti: uomini, donne, i loro bambini. «Quando parliamo di cose importanti, lo facciamo tutti insieme, come una famiglia», mi dice Giulio Simbula, che racconta di aver lasciato il suo lavoro in una serra di fiori in Olanda e di essere tornato in Sardegna perché aveva saputo di un’offerta di mutui agevolati. E ora sta per perdere la sua terra i e risparmi di una vita. Entriamo in municipio, che i manifestanti occupano da 39 giorni. Lo sciopero della fame è finito dopo una settimana, quando la moglie di Simbula, Maria Bonaria, sofferente di reni, ha avuto un malore ed è stata ricoverata in ospedale. La folla si accalca, grillo si siede a capo di un tavolo da conferenza, insieme al sindaco di Decimoputzu, diversi sindacalisti e tre agricoltori, due uomini e una donna. «Sta accadendo qualcosa in questa città», dice. «La gente ha cominciato a capire e si è mobilitata. Si sono mobilitati anche i sindacati e i politici locali, e la “destra” e la “sinistra” sono sparite, perché questa è una battaglia sacrosanta, e tutti stanno dalla stessa parte». Espone il suo piano: minacciare di boicottaggio il Banco di Sardegna. «Ma lasciamo parlare gli agricoltori», aggiunge Grillo. «Questo è il loro evento», Maria Pau, una donna sulla sessantina, racconta di come suo marito ha perso la testa man mano che i debiti aumentavano. Piuttosto che dirle quanto fosse disastrosa la loro situazione, le ha chiesto il divorzio, l’ha persino denunciata alla polizia, accusandola di volerlo avvelenare. Due volte, mentre parla, volge lo sguardo verso suo marito, in sedia a rotelle dopo un infarto, e gli dice: «Non piangere Salvatore, col volto bagnato di lacrime , annuisce e cerca di sorridere. La gente rimasta fuori si lamenta, chiede di spostare l’incontro al campo sportivo, dove ci sarà posto per tutti. Grillo guida la folla fino al rettangolo di terra nuda illuminato da qualche riflettore. Il vento solleva mulinelli di polvere e rimbomba nei microfoni di una band locale, due chitarristi e un batterista chiamati a suonare in onore di Beppe su un palchetto in mezzo al palco. Grillo, facendosi aiutare dagli agricoltori, issa Salvatore, carrozzella e tutto, sul palco, e gli dà un microfono. «Non dormivo la notte, lavoravo tutto il giorno, e non si riusciva mai a pagare i debiti», racconta Salvatore, a voce bassa. «ora sono qui, su questa sedia, ma voglio vivere». Beppe intona a bocca chiusa una melodia blues e, seguendo le note della band, attacca un rap ritmato: «Non siete più soli. Stiamo dando una voce a quelli che non hanno una voce». Poi prende una chitarra e si mette a cantare, in un baritono alla Ray Charles, una canzone da lui intitolata Sardegna Blues, una lunga sequenza diincomprensibile pseudo-sardo: «Ta-dizzi-dessì-dazzu, pu-ruru-duru-doo». Gli agricoltori si guardano a vicenda, sorpresi, scuotono la testa e si mettono a ridere. «E che voce!», grida uno di loro.
È l’8 settembre. Due milioni di persone in duecentoventi città di tutt’Italia celebrano il V-Day, una nuova festa nazionale non ufficiale, con la “V” a significare “vittoria”, “vendetta” e, soprattutto, “vaffanculo”. L’evento è stato organizzato da Beppe Grillo, il più popolare comico italiano, per protestare contro la corruzione endemica del governo nazionale. Il cinquantanovenne Grillo, col suo aspetto da orso, la voce un po’ a trombetta e una massa di riccioli grigi sulla testa, è una specie di ibrido italiano tra il regista di denuncia Michael Moore e lo sbeffeggiatore televisivo Stephen Colbert: un attivista popolare con una particolare propensione alla satira politica. Grillo guida la dimostrazione di Bologna, apparendo in piazza Maggiore di fronte a una folla di circa centomila persone, più che per la finale dei Mondiali di calcio. In jeans, scarpe da tennis e polo nera, sta in piedi su un palco fiancheggiato da alti pannelli neri decorati con “V” rosso sangue. Dietro di lui, proiettati su un grande schermo, i nomi dei 25 senatori e deputati italiani condannati con sentenza definitiva. Grillo legge quei nomi a voce alta, in ordine alfabetico, accompagnati dai relativi reati: dalla corruzione alla falsa testimonianza, dall’evasione fiscale a delitti più sorprendenti, come la fabbricazione di ordigni esplosivi e il concorso in omicidio. La folla emette urla e fischi, sollevando l’indice e il medio per formare la “V” di vittoria oppure, ogni volta che Grillo gridava “Vaffanculo”, soltanto il dito medio. “Paolo Cirino Pomicino”, grida. “Corruzione e finanziamento illecito, cose per le quali è stato promosso alla Commissione parlamentare antimafia! Un giorno mi ha scritto una lettera, e io gli ho telefonato. Mi ha detto: “Signor Grillo, lei fa un errore sostanziale. Confonde la politica con la giustizia” (Cirino Pomicino ha negato che questa conversazione abbia mai avuto luogo). A questo punto, Grillo fa una pausa. “E allora gli ho detto: “Vaf-fan-culo”. Grillo lancia uno sguardo sulla piazza, poi prosegue. “Facciamo parte di una nuova Woodstock. Solo che stavolta i drogati e i figli di puttana sono dall’altra parte!”. Dopo che l’ultimo spite ha finito di parlare, a buio fatto, Grillo, visibilmente stanco, torna sul palco. “Quel che voglio dirvi, dal cuore, è che non siamo ancora arrivati alla nostra destinazione: questo è soltanto l’inizio. Siamo riusciti in qualcosa che farà storia”. La folla intona il suo nome, lui abbassa lo sguardo, visibilmente commosso, e si passa le dita tra i capelli. Quando ormai la folla si è dispersa, ci incamminiamo verso un vicino ristorante. Dall’altra parte della strada, un gruppo di ragazze gli grida: “Beppe, San Beppe, salvaci tutti!”, Beppe rivolge loro un gesto a V un po’ meno convinto. “Beppe, sei un grand’uomo!”, gli fa qualcun altro. “No, sono solo grosso”, replica lui, toccandosi la pancia. Sul marciapiede, due bambine fanno il gioco della campana, e intanto cantano la parola proibita che questa sera, però, è consentito pronunciare: “Vaaaf…fannn…cuuuuuu…loooooo!”.
Negli ultimi due anni, la popolarità della classe politica italiana ha raggiunto livelli minimi. Il best seller di saggistica del 2007, che dal maggio scorso ha venduto due milioni di copie, è La casta, dei giornalisti Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il titolo del libro è ormai entrato nel linguaggio quotidiano, cristallizzando la diffusa percezione che i politici italiani siano diventati un’oligarchia insaziabile. Il budget annuale della presidenza italiana è più del triplo di quello di Buckingham Palace, e i parlamentari italiani guadagnano il doppio di quelli francesi, e quasi il quadruplo di quelli spagnoli. Hanno convertito in legge numerosi privilegi gratuiti: limousine con autista e viaggi aerei, lezioni di tennis private, barbieri e parrucchieri, e soprattutto pensioni generose, maturate dopo appena 30 mesi in carica. Hanno lasciato in “eredità” i loro seggi a coniugi, figli e nipoti. E sono riusciti a restare in carica per interi decenni. Clemente Mastella, che il 16 gennaio scorso, indagato per diversi reati, si è dimesso da ministro della Giustizia, è stato in parlamento per 31 anni, come membro di quattro partiti politici diversi. Ha poi ritirato il suo partito, l’Udeur, dalla coalizione governativa del presidente del Consiglio Romano Prodi; una mossa che, il 24 gennaio, dopo un voto di sfiducia in Senato, ha determinato la caduta del governo. “Stavo guardando la televisione, e ho visto parlamentari che si sputavano addosso e si gridavano: “A frocio!”, mi racconta Grillo. “Poi ho cambiato canale e mi sono messo a guardare i Simpson, e quello in confronto sembrava un vero Parlamento. È una cosa surreale. Siamo andati oltre ogni decenza”. Oltre ai 25 parlamentari condannati della lista di Grillo, ce ne sono altri 57 che si stanno appellando contro verdetti di colpevolezza, o sono stati amnistiati, o sono sfuggiti alla condanna grazie ai limiti di prescrizione, o sono attualmente indagati. Comprese figure di primissimo piano, tra cui Giulio Andreotti, sette volte primo ministro tra il 1972 e il 1992, e Silvio Berlusconi, l’ex presidente del consiglio. “È difficile fare il comico in Italia. Non mi posso inventare roba come questa”, ha detto Grillo durante il V-Day. “Ci sono quasi ottanta criminali in Parlamento, circa uno su dodici. È peggio di Scampia, il bassofondo più pericoloso di Napoli, infestato dalla camorra. Lì i criminali sono soltanto uno su quindici!”.
Grillo ha galvanizzato gli italiani parlando della corruzione con irriverenza e umorismo. O meglio, semplicemente parlandone. La stampa del Paese è spesso controllata, o addirittura posseduta, dalle corporazioni e dai partiti politici, la cui condotta disonesta viene tendenzialmente mascherata o ignorata dalla televisione e dai giornali (a proposito: Grillo sta organizzando un altro V-Day, il 25 aprile, per protestare contro il servilismo della stampa). I giornalisti che osano scrivere deglia articoli sulla corruzione della classe politica si trovano a dover affrontare la costante minaccia di cause per diffamazione e richieste di risarcimento. Grillo ne ha vinte a decine, e ne sta affrontando attualmente altre quattro, tra cui una, per circa dieci milioni di euro di danni, fattagli da Biagio Agnes, l’ex direttore della Stet, che all’epoca era la compagnia nazionale di telecomunicazioni. Beppe lo criticò durante uno spettacolo del 1993. Dal 2005 Grillo preferisce rivolgersi al pubblico attraverso il suo blog, www.beppegrillo.it all’ottavo posto tra i più letti del mondo. Una specie di governo parallelo, con consulenti politici volontari tra i quali figurano l’architetto Renzo Piano, il commediografo Dario Fo e l’economista Joseph Stiglitz, autore della prefazione di un libro sulle leggi sul lavoro che Grillo ha pubblicato on line (coi suoi spettacoli, i suoi libri e i suoi dvd ha guadagnato decine di milioni di euro, che utilizza per finanziare il suo sito e il suo attivismo). Secondo un sondaggio di Renato Mannheimer, Beppe risultava al secondo posto tra i politici più popolari in Italia dopo Walter Veltroni, ex sindaco di Roma e leader del centrosinistra. La sua campagna, però, ha diviso gli intellettuali: alcuni ritengono che i suoi attacchi siano rozzi e indiscrimininati, e che offrano poche soluzioni pratiche agli abusi che criticano. Lo scorso settembre, sul Corriere della Sera, il politologo Giovanni Sartori li ha paragonati alla “presa della Pastiglia”, su Repubblica Eugenio Scalfari ha sostenuto che quello del V-Day è un movimento di massa guidato da un demagogo, e un possibile preludio a una dittatura di destra, e sullo stesso quotidiano Umberto Eco ha scritto che la campagna di grillo annunciava “una malattia del corpo sociale”.
Grillo è cresciuto a San Fruttuoso, un quartiere della classe medio-bassa vicino al porto di Genova. “Tutti al porto prendevano bustarelle”, mi racconta. “C’erano contrabbandieri che indossavano le uniformi dei carabinieri per rubare i carichi dei loro concorrenti: sigarette, caffè, banane. La Guardia di Finanza prendeva il 5 per cento, e un altro 5 per cento andava agli scaricatori, che rubavano dai sacchi. I container sigillati non erano ancora stati inventati. Andavi lì e vedevi tutto quello che è possibile immaginare: spacciatori, contrabbandieri, puttane, travestiti, tutto”. La mamma digrillo, Piera, era un’artista e una pianista dotata. Le venne diagnosticato di morbo di Alzheimer quando Beppe aveva 23 anni (contribuirà alle sue cure fino alla sua morte, quindici anni dopo). Suo padre, Enrico, era proprietario di unna fabbrica di torce ad acetilene. Aveva cinquant’anni quando nacque Beppe, e aveva vissuto entrambe le guerre mondiali. “Era un uomo strano, capace di comunicare anche senza parlare”, mi spiega Beppe. “Quando facevo tardi la sera, trovavo una serie di bigliettini vicino alla porta. Il primo diceva: è mezzanotte e ancora non sei qui. È un po’ tardi. Su quello dopo c’era scritto: sono le due e ancora non sei a casa. Sono preoccupato, e poi domani devi andare a scuola. E su un altro ancora: sono le tre e un quarto. Non dir niente a tua madre. E poi: Sono le quattro e ancora non ci sei. Sono disperatamente preoccupato”. Non dormiva, mi scriveva bigliettini. Quando tornavo a casa, vedevo i bigliettini, andavo in camera e mi mettevo, a letto. E subito la porta della mia camera si apriva, lui lanciava una rapida occhiata dentro, dopodiché la porta si richiudeva. La mattina successiva, non diceva niente di quel che era accaduto. Da bambino, Grillo eseguiva numeri comici e musicali per la sua famiglia. “Beppe cantava e suonava la sua chitarra, lanciando urli alla James Brown”, ricorda suo fratello Andrea. “E nostro padre diceva: sembra una bestia! Durante la cena, veniva a tavola cantando come Ray Charles e indossando grossi occhiali scuri, oppure faceva finta di fumare un enorme spinello. Nostra madre rideva a crepapelle, ma papà le diceva: Tuo figlio è un idiota. Guarda le stupidaggini che fa invece di studiare come dovrebbe”. Anni dopo, Grillo venne a sapere che suo padre aveva memorizzato le sue battute migliori per ripeterle agli amici al bar dove andava dopo il lavoro.
Durante l’adolescenza, Grillo cominciò a esibirsi nei locali notturni della zona. All’inizio, cantava e suonava la chitarra, ma gradualmente le sue battute tra una canzone e l’altra presero sempre più spazio, e alla fine si ritrovò a fare il comico. “Mi facevano aspettare in cucina, e io stavo lì in piedi con la mia chitarra fino a quando , a mezzanotte, accendevano le luci e mi mandavano sulla pista da ballo, dove tutti si chiedevano perché mai la musica si fosse fermata. Avevo due minuti per portare il pubblico dalla mia parte, altrimenti mi buttavano fuori a calci”. Il numero di Grillo consisteva in rapide battute, legate tra loro da una frase che successivamente sarebbe diventata il suo marchio di fabbrica: “È pazzasco! È una cosa pazzasca!”. Parodiava i movimenti della gente sulla pista da ballo. “Scherzavo sulla guardarobiera, sulla cameriera, sul gigolò che si appoggiava al bancone del bar con un whisky in mano”. I padre, sperando che Beppe intendesse lavorare nella ditta di famiglia, lo convinse a diplomarsi in ragioneria. Grillo entrò nella ditta nel 1968, a vent’anni, ma si sentiva fuori posto. «Cominciavo a dire: “Sono venuto a chiedere di quel piccolo debito…”, e loro mi gridavano: “Vaffanculo, Grillo, sappiamo chi sei!”. E io mi chiedevo: “Che diavolo ci faccio qui a giocare al ragioniere?”». Nel 1971 diede le dimissioni ma, incapace di mantenersi con i soli proventi delle sue esibizioni comiche, dovette trovarsi un lavoro part-time come venditore della Panfin, all’epoca un importante produttore di jeans.
Nel 1975, durante un ritiro aziendale in Toscana, i colleghi gli trovarono una chitarra e gli chiesero di esibirsi.Il proprietario della panfin gli fece i complimenti e lo invitò a sedersi al suo tavolo. Diversi giorni più tardi, arrivò una lettera della Panfin, e Grillo radunò i suoi genitori e suo fratello intorno al tavolo da pranzo prima di aprirla. «Gli avevo detto del successo che avevo avuto, di come ero piaciuto al capo, di come ero sicuro che mi avrebbe affidato un’intera linea di jeans da vendere. Aprii la busta lentamente e tirai fuori la lettera, che invece diceva: “Sei licenziato”. Avendo visto come trascorrevo le mie serate, il capo riteneva che non avrei mai potuto dare il meglio come venditore alle 8 del mattino. Allora presi lo scatolone del campionario e lo scaraventai dalla finestra. Cadde giù per undici piani e, quando colpì la strada, esplose come una bomba». Il giorno successivo, Grillo prese un treno per Milano. Per due anni, si esibì in piccoli cabaret, finché riuscì a ottenere un provino con un dirigente Rai. Tre mesi dopo era in televisione, nel varietà Secondo voi. Nella Tv italiana dell’epoca c’era un copione da seguire. «Numeri di canzoni e balletti, e io pensavo: “Siete degli idioti!”», ricorda Grillo. Presto, però, comincio a improvvisare monologhi comici. Prendeva in giro politici, campioni dello sport, addirittura il Papa. Alla fine degli anni Settanta, era diventato una celebrità nazionale. Nel 1981, mentre era alla guida della sua Chevrolet blazer sulle Alpi, vicino al confine francese, beppe finì su una lastra di ghiaccio e perse il controllo dell’auto, che precipitò in un burrone. Lui riuscì a buttarsi fuori prima dello schianto, ma tre dei suoi passeggeri, una coppia di amici e il loro giovane figlio, rimasero uccisi (un quarto passeggero rimase gravemente ferito). Un’inchiesta lo scagionò da ogni responsabilità, ma gli avvocati dei familiari della coppia, che tra l’altro aveva lasciato una figlia orfana, ricorsero in Appello. Alla fine, Grillo venne condannato per omicidio colposo, perché la strada dov’era avvenuto l’incidente, benché abitualmente usata dalla gente del posto, era tecnicamente chiusa al traffico. Deciso ad aiutare l’orfana, Beppe vendette la maggior parte delle sue proprietà, casa compresa, e a lei destinò tutto il ricavato, l’equivalente di 400 mila euro. «Quella tragedia lo cambiò», dice Andrea Grillo. «Da allora, è stato un po’ meno allegro, un po’ più cupo». Continuò comunque a esibirsi dal vivo e in televisione, e dopo uno spettacolo, nel 1984, incontrò Marco Morosini, un ambientalista che insegnava all’Università di Ulm, in Germania. «Arrivò questo tizio, con gli zoccoli e lo zaino, e mi parlò del ciclo dello spazzolino da denti in Pvc, questo viene incenerito, e il cloro che contiene diventa diossina e finisce nell’aria. L’aria lo porta sopra il mare, piove, e la diossina va a finire nel plancton. I pesci mangiano il plancton, tu vai al ristorante, ordini un bel branzino da 50 euro e ti mangi il tuo spazzolino. Era bellissima quell’immagine, ti faceva capire che tutto quello che butti via ritorna a te! Una visione globale che fino a quel momento mi era sfuggita». La comicità di Grillo stava già diventando più politica, e la Rai tentò, con scarso successo, di tenerla a freno. «All’epoca la censura non era brutale e minacciosa come oggi», dice Grillo. «Se ti veniva assolutamente proibito di dire una cosa, potevi dirla in modo che la gente se ne accorgesse troppo tardi».
Nel 1981, l’Italia fu scossa da uno dei più grandi scandali del dopoguerra: la scoperta di una loggia massonica segreta, la P2 (dove «P» stava per «propaganda»), i cui membri – importanti politici, giudici, industriali e funzionari dei servizi segreti – vennero implicati in frodi finanziarie, delitti di mafia e attentati terroristici di destra. I dirigenti Rai avvertirono Grillo: in Tv non se ne doveva parlare. Allora lui pensò di scriverne. Era il1983: portò in scena una lavagna e disegnò l’elaborato “teorema della P2”, sottolineando “appartenenza a essa del segretario del Partito socialdemocratico Pietro Longo. Nel 1986, Bettino Craxi, il leader socialista allora presidente del Consiglio, fece una visita di Stato in Cina, e in Tv Grillo fece una battuta sul suo braccio destro, Claudio Martelli, che gli chiedeva: «Ma se qui sono tutti socialisti, a chi rubano?». Craxi protestò con la Rai, e il comico genovese venne praticamente bandito dalla televisione di Stato, tranne rare occasioni, fino al ritorno con uno spettacolo in diretta nel 1993, non molto tempo dopo, guarda caso, le dimissioni di Craxi da segretario del Partito socialista italiano, legato allo scandalo di Tangentopoli. Nel frattempo, avendo perso il suo lavoro in televisione, Grillo aveva portato uno spettacolo dal vivo in giro per l’Italia. Invece di stare sul palco, camminava tra il pubblico, seguito da una videocamera che proiettava la sua immagine su uno schermo al centro del teatro, una tecnica che usa ancora oggi. «Li tocco, mi faccio odorare da loro: voglio entrare fisicamente nelle loro menti».
Nel 1989, durante una delle sue rare apparizioni televisive, Grillo scoprì di poter comunicare con il suo pubblico anche senza battute comiche. Al festival di Sanremo, si esibì in un monologo a cui assistettero 22 milioni di telespettatori. Per dimostrare come il giornalismo televisivo avesse perso la sua integrità, grillo raccontò l’episodio di un bambino rapito che, dopo essere stato rilasciato, era stato intervistato in televisione dal noto giornalista Sandro Mayer. E Mayer gli aveva chiesto se avesse sentito di più la mancanza di sua madre o del suo giocattolo preferito. «Dissi che un giornalista semplicemente non poteva fare una domanda del genere», ricorda Grillo, «Che avrebbero dovuto rapire quel giornalista e, una volta liberato, gli avrebbero dovuto chiedere: “Senti, testa di cazzo, che cosa ti è mancato di più, tua madre o il tuo giornale?”. Per la prima volta non avevo fatto una battuta, ma avevo espresso un giudizio serio su qualcosa. E avevo visto il pubblico annuire. Perciò dissi loro: “Avanti, date un segno anche voi. Sono stato cacciato dalla televisione, ho avuto i miei problemi: se volete mostrarmi la vostra solidarietà, alzatevi un attimo in piedi”. E tutti si alzarono. Allora mi dissi: “Posso sopravvivere anche se non chiudo con una battuta”».
Nel gennaio 1994, due ufficiali della Guardia di Finanza suonarono il campanello della casa di Grillo a Genova e gli chiesero di accompagnarli a Napoli, perché doveva essere interrogato da Agostino Cordova, un pubblico ministero famoso per la sua durezza. «Pensavo di essere sospettato di qualcosa. Mi avevano chiuso in una stanza con un computer, senza dirmi niente, e mi avevano chiesto nome e cognome. Non riuscivo nemmeno a ricordare la mia data di nascita. Poi arrivò il terribile Cordova, con il suo sopracciglio unico, i denti coperti di tartaro e il sigaro molliccio, e io gli dissi: “Guardi voglio collaborare totalmente. Le dirò tutto. Mi dica soltanto che cosa ho fatto, e io confesserò”». Cordova invece aveva convocato Grillo a Napoli non come sospettato ma come testimone informato sui fatti. Durante il suo spettacolo televisivo del 1993, Grillo aveva rivelato che la Sip, allora la compagnia telefonica nazionale, stava usando le chat line erotiche e astrologiche per produrre illegalmente guadagni esentasse all’estero. Cordova aveva aperto un’indagine e arrestato ventidue persone. E voleva sapere come avesse fatto il comico a scoprire quell’intrigo. «Gli dissi: “beh, l’ho scoperto perché le società coinvolte sono quotate in Borsa e i loro documenti sono di dominio pubblico. Non bisogna fare niente di strano per averli”». Grillo era stato allertato da alcuni fan che gli avevano mandato le loro bollette telefoniche, compresi addebiti per telefonate a chat line che loro sostenevano di non aver mai fatto. Ha svolto anche altre indagini, facendo affidamento sulle indicazioni di un gruppo di consulenti in continua espansione. Nel gennaio 2004, un colonnello della Guardia di Finanza interrogò Beppe sul fallimento della Parmalat. Il crollo della società sorprese i giornalisti, i politici e persino la famosa agenzia di rating americana Standard & Poor’s, ma erano già due anni che, nei suoi spettacoli comici, Grillo faceva battute sulla sua fragile situazione finanziaria. Ancora una volta, spiegò agli inquirenti che le prove erano sempre state di publico dominio. «Dissi al colonnello che bastava guardare le relazioni finanziarie. Visto che c’ero, gli portai un po’ di documenti su Fiat, Telecom e Fininvest, così poteva portarsi avanti». Colpiti dalla sua competenza e dal suo coraggio, sempre più italiani gli chiedono aiuto. È ottobre quando gli faccio visita nella sua villa rosa salmone su una collina a est di Genova, dove vive con sua moglie, Parvin Tadjk, e i loro due figli, e due figli di un precedente matrimonio della signora Tadjk (anche Grillo ha due figli da un rapporto precedente). E, mentre stiamo seduti nel soggiorno con vista sul Mediterraneo, il telefono non smette di squillare. L’organizzatrice di una marcia anti-stupro telefona per invitare Grillo, e lui accetta («Nessuno dà ascolto a queste donne», dice dopo aver riattaccato. «Ma dove cazzo sono finite le femministe?»).
Mauro Gallegati, un docente dell’Università di Ancona che gli fa da consulente economico, chiama per organizzare un incontro con l’economista Joseph Stiglitz. Gianroberto Casaleggio, il suo stratega Internet, telefona per parlargli delle migliaia di agricoltori sardi che rischiano l’esproprio perché le banche chiedono di rientrare e loro sono rimasti indietro nei pagamenti. Grillo promette che farà loro visita. A dicembre, quando il Dalai Lama è arrivato in Italia e il Papa e il presidente del Consiglio hanno preferito trovare scuse per non riceverlo, Grillo lo ha incontrato: «Finché la Cina era soltanto comunista, il Dalai Lama veniva ricevuto da tutti, ma ora che la Cina è iper-capitalista, è oscurato», ha scritto sul suo blog, che riceve fino a 250 mila contatti e duemila commenti al giorno. I suoi post vengono pubblicati in italiano e in inglese, e da novembre ne sono stati pubblicati anche in giapponese (per esempio, quello dedicato al caso dei politici di Tokyo che si sono suicidati dopo le accuse di corruzione: Beppe ha proposto ai giapponesi di accettare alcuni politici italiani in un programma di scambio culturale, nella speranza che seguano l’esempio dei loro colleghi).
Nel 2006, Grillo ha lanciato una scalata «alla genovese» contro Telecom Italia, accusandola di cattiva gestione e di spionaggio industriale. Sul suo blog, invitava gli azionisti di Telecom a dargli la delega per la successiva assemblea generale degli azionisti. Ha così accumulato 1.750 deleghe, per un totale di 4.800.000 azioni, diventando di fatto il maggiore azionista votante. La Consob ha stabilito che le deleghe non erano state trasferite in modo corretto ed erano quindi nulle. Ciononostante, nell’aprile dell’anno scorso, Grillo ha parlato all’assemblea della Telecom e chiesto le dimissioni del consiglio di amministrazione. Il V-Day è venuto fuori da un’altra campagna di grillo, «Parlamento Pulito», lanciata nel 2005, quando il comico genovese ha pubblicato sul suo blog la lista dei condannati in Parlamento. Nessuno dei giornali italiani da lui contattati aveva accettato di pubblicare i nomi o la denuncia, perciò Grillo ha organizzato una colletta sul suo blog, raccogliendo 60 mila euro, e comprato una pubblicità a tutta pagina sull’International Herald Tribune. All’interno, invitava qualunque Paese con un numero altrettanto elevato di condannati in Parlamento a fare un gemellaggio con l’Italia. «Dall’India ho ricevuto una lettera della Fondazione Gandhi. Mi hanno detto che nel loro Parlamento c’erano undici criminali, ma che poi li hanno mandati via a calci nel sedere». Grillo ha deciso allora di far ricorso a un mezzo raramente usato, la legge di iniziativa popolare. Nel luglio scorso, ha depositato presso la Corte costituzionale un disegno di legge che proibisce ai condannati di prestare servizio in Parlamento, limita la durata in carica dei parlamentari a un massimo di due legislature (dieci anni) e cambia il sistema elettorale in modo da garantire l’elezione popolare diretta di tutti i membri del Parlamento (mentre, con la legge attuale, la maggior parte dei candidati vengono scelti dalle segreterie di partito). «Quando ho consegnato quel disegno di legge, è successa una cosa bellissima. Un uomo elegante mi si è avvicinato furtivamente, e io ho pensato: “Questo dev’essere uno spacciatore di crack”. Allora quello si è avvicinato di più e mi ha sussurrato all’orecchio: “Signor Grillo, sono pienamente d’accordo con tutto ciò che sta facendo”. Quindi è schizzato via. Al che ho chiesto ai presenti chi era quel signore. E loro: “È il primo presidente della Corte di Cassazione”» (il giudice in questione, Vincenzo Carbone, dice di ricordare la visita di Grillo, ma non di aver fatto il commento che gli viene attribuito). I legislatori italiani, intanto, hanno dato il via a una sorta di rappresaglia.
Nell’ottobre scorso, il governo prodi ha proposto una legge per sottoporre i siti e i blog su Internet alle stesse regole sulla diffamazione applicate alla carta stampata, costringendoli così ad assumere sia un editore che un giornalista iscritto all’albo. «Se questa legge passerà, sarà la fine del web in Italia», ha scritto grillo nel suo blog qualche giorno dopo. «Il mio blog non chiuderà, comunque. Se sarà necessario, porterò armi, bagagli e server in un Paese democratico» (la legge, intanto, è ancora in attesa di approvazione in Parlamento). In novembre, l’ex ministro della Giustizia, Clemente Mastella, ha annunciato che stava citando in giudizio Grillo per un discorso diffamatorio da lui pronunciato proprio in quel mese al parlamento europeo (Grillo, riferendosi a un’indagine per corruzione che Mastella aveva bloccato, aveva detto che, mentre un tempo era necessario usare la dinamite per fermare i magistrati che indagavano sui potenti, adesso ci pensava direttamente il ministro della Giustizia). Quando è venuto a sapere di essere stato citato in giudizio, Grillo ha invitato i lettori del suo blog a firmare una dichiarazione in cui dicono di essere d’accordo con i suoi commenti su Mastella, in cambio, lui avrebbe conferito loro il titolo di «Ammastellati». Finora, quasi settantamila persone sono state «ammastellate». Empre in novembre, come promesso, Grillo vola in Sardegna per partecipare a una dimostrazione di agricoltori a Decimoputzu. Il Banco di Sardegna sta per espropriare le loro terre, e in diverse centinaia hanno occupato il municipio, inscenando uno sciopero della fame («Dio solo sa se avrei bisogno di farlo anch’io», scherza). Ray-Ban con lenti verdi a specchio, a Fiumicino Grillo è salutato da sconosciuti che gli danno pacche sulle spalle e si fanno fotografare al cellulare abbracciati a lui. Al cancello d’imbarco, Beppe scherza con gli altri passeggeri sui cibi geneticamente modificati, pomodori quadrati che si impilano come mattoni, il tabacco con i geni della lucciola, che ti permette di trovare le sigarette al buio. Fa piegare in due una donna imitando il dialetto sardo: «Zaganauu uzzauu tu porcedduu!». Mentre inizia l’imbarco, un uomo si avvicina con un fascio di carte. Gli spinge a forza in mano una petizione a favore del bando sull’importazione dei cibi geneticamente modificati, insiste perché Grillo la pubblicizzi. «La gente non può caricarmi di tutte queste cause», si sfoga Beppe, quando quello se n’è andato. «Non posso prendermele tutte sulle spalle. Dovete fare qualcosa da soli!». All’atterraggio a Cagliari, lo attende una decina di sostenitori che ci portano in macchina, tra i campi scuri di carciofi, fino a Decimoputzu. L’auto si ferma vicino al municipio, dove la strada è bloccata dai manifestanti: uomini, donne, i loro bambini. «Quando parliamo di cose importanti, lo facciamo tutti insieme, come una famiglia», mi dice Giulio Simbula, che racconta di aver lasciato il suo lavoro in una serra di fiori in Olanda e di essere tornato in Sardegna perché aveva saputo di un’offerta di mutui agevolati. E ora sta per perdere la sua terra i e risparmi di una vita. Entriamo in municipio, che i manifestanti occupano da 39 giorni. Lo sciopero della fame è finito dopo una settimana, quando la moglie di Simbula, Maria Bonaria, sofferente di reni, ha avuto un malore ed è stata ricoverata in ospedale. La folla si accalca, grillo si siede a capo di un tavolo da conferenza, insieme al sindaco di Decimoputzu, diversi sindacalisti e tre agricoltori, due uomini e una donna. «Sta accadendo qualcosa in questa città», dice. «La gente ha cominciato a capire e si è mobilitata. Si sono mobilitati anche i sindacati e i politici locali, e la “destra” e la “sinistra” sono sparite, perché questa è una battaglia sacrosanta, e tutti stanno dalla stessa parte». Espone il suo piano: minacciare di boicottaggio il Banco di Sardegna. «Ma lasciamo parlare gli agricoltori», aggiunge Grillo. «Questo è il loro evento», Maria Pau, una donna sulla sessantina, racconta di come suo marito ha perso la testa man mano che i debiti aumentavano. Piuttosto che dirle quanto fosse disastrosa la loro situazione, le ha chiesto il divorzio, l’ha persino denunciata alla polizia, accusandola di volerlo avvelenare. Due volte, mentre parla, volge lo sguardo verso suo marito, in sedia a rotelle dopo un infarto, e gli dice: «Non piangere Salvatore, col volto bagnato di lacrime , annuisce e cerca di sorridere. La gente rimasta fuori si lamenta, chiede di spostare l’incontro al campo sportivo, dove ci sarà posto per tutti. Grillo guida la folla fino al rettangolo di terra nuda illuminato da qualche riflettore. Il vento solleva mulinelli di polvere e rimbomba nei microfoni di una band locale, due chitarristi e un batterista chiamati a suonare in onore di Beppe su un palchetto in mezzo al palco. Grillo, facendosi aiutare dagli agricoltori, issa Salvatore, carrozzella e tutto, sul palco, e gli dà un microfono. «Non dormivo la notte, lavoravo tutto il giorno, e non si riusciva mai a pagare i debiti», racconta Salvatore, a voce bassa. «ora sono qui, su questa sedia, ma voglio vivere». Beppe intona a bocca chiusa una melodia blues e, seguendo le note della band, attacca un rap ritmato: «Non siete più soli. Stiamo dando una voce a quelli che non hanno una voce». Poi prende una chitarra e si mette a cantare, in un baritono alla Ray Charles, una canzone da lui intitolata Sardegna Blues, una lunga sequenza diincomprensibile pseudo-sardo: «Ta-dizzi-dessì-dazzu, pu-ruru-duru-doo». Gli agricoltori si guardano a vicenda, sorpresi, scuotono la testa e si mettono a ridere. «E che voce!», grida uno di loro.
Tom Mueller