Corriere della Sera, venerdì 12 giugno 2009, 5 febbraio 2013
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Sergio Romano sul suffragio universale
Corriere della Sera, venerdì 12 giugno 2009
• Non so spiegarmi come mai Giolitti, che secondo molti è stato fra i più illuminati governanti liberali che l’Italia abbia avuto, si sia battuto per il suffragio universale sapendo in partenza che esso avrebbe affossato il suo stesso partito o l’idea che lui medesimo incarnava. Non è forse un esempio di suicidio politico?
Lorenzo Milanesi - Milano
• Caro Milanesi, Lei allude alle elezioni del 1913 nelle quali, per la prima volta in Italia il suffragio, pur restando esclusivamente maschile, fu esteso senza distinzioni di censo anche agli analfabeti che avessero fatto il servizio militare o compiuto trent’anni. Dalla relazione di Giolitti al re per lo scioglimento della Camera, risultò che gli elettori sarebbero pressoché triplicati: da 3.319.207 a 8.672.249. Con l’allargamento del suffragio Giolitti propose un’altra misura: una indennità parlamentare (6 mila lire all’anno) per tutti i deputati che non avessero stipendio o pensione a carico del bilancio dello Stato. Ai fautori dell’indennità, in anni precedenti, Giolitti aveva sempre dato una risposta che piacerebbe agli autori e ai lettori de «La casta»: «Il Paese stimerà più il Parlamento quando i deputati saranno pagati, o attualmente che non lo sono?». Ma nel 1913 cambiò idea sostenendo che occorreva, con l’allargamento del suffragio, favorire la presenza in Parlamento di deputati provenienti dalle classi di cui erano rappresentanti.
Giolitti agiva a mente fredda, senza entusiasmi idealistici, ma sapeva guardare lontano. Era convinto che l’Italia non potesse crescere economicamente e socialmente senza allargare il numero di coloro che partecipavano alla vita pubblica. Nel ventennio precedente il Paese aveva fatto grandi progressi, risanato il debito estero, conquistato una colonia sulla sponda settentrionale dell’Africa. Era ora che il suo sistema elettorale venisse corretto e adattato alla realtà sociale. Giolitti sapeva tuttavia che il suffragio universale avrebbe rafforzato le sinistre. Da questa preoccupazione nacque il «patto Gentiloni»: una intesa che avrebbe garantito a Giolitti l’appoggio dei cattolici contro l’impegno ad accantonare la legge sul divorzio, difendere le scuole confessionali, garantire alle attività economico-sociali dei cattolici lo stesso trattamento che lo Stato riservava a quelle dei laici.
Nelle elezioni del 1913 i votanti furono 5.100.615, vale a dire circa il 60% degli aventi diritto. I deputati giolittiani furono 304, i socialisti 52, i socialisti riformisti 19, i radicali 73, i repubblicani 17 e i cattolici 20. Per Giolitti, quindi, non si trattò di un suicidio. Il declino della democrazia liberale comincia con la legge proporzionale del 1919; e non fu colpa sua.
• Non so spiegarmi come mai Giolitti, che secondo molti è stato fra i più illuminati governanti liberali che l’Italia abbia avuto, si sia battuto per il suffragio universale sapendo in partenza che esso avrebbe affossato il suo stesso partito o l’idea che lui medesimo incarnava. Non è forse un esempio di suicidio politico?
Lorenzo Milanesi - Milano
• Caro Milanesi, Lei allude alle elezioni del 1913 nelle quali, per la prima volta in Italia il suffragio, pur restando esclusivamente maschile, fu esteso senza distinzioni di censo anche agli analfabeti che avessero fatto il servizio militare o compiuto trent’anni. Dalla relazione di Giolitti al re per lo scioglimento della Camera, risultò che gli elettori sarebbero pressoché triplicati: da 3.319.207 a 8.672.249. Con l’allargamento del suffragio Giolitti propose un’altra misura: una indennità parlamentare (6 mila lire all’anno) per tutti i deputati che non avessero stipendio o pensione a carico del bilancio dello Stato. Ai fautori dell’indennità, in anni precedenti, Giolitti aveva sempre dato una risposta che piacerebbe agli autori e ai lettori de «La casta»: «Il Paese stimerà più il Parlamento quando i deputati saranno pagati, o attualmente che non lo sono?». Ma nel 1913 cambiò idea sostenendo che occorreva, con l’allargamento del suffragio, favorire la presenza in Parlamento di deputati provenienti dalle classi di cui erano rappresentanti.
Giolitti agiva a mente fredda, senza entusiasmi idealistici, ma sapeva guardare lontano. Era convinto che l’Italia non potesse crescere economicamente e socialmente senza allargare il numero di coloro che partecipavano alla vita pubblica. Nel ventennio precedente il Paese aveva fatto grandi progressi, risanato il debito estero, conquistato una colonia sulla sponda settentrionale dell’Africa. Era ora che il suo sistema elettorale venisse corretto e adattato alla realtà sociale. Giolitti sapeva tuttavia che il suffragio universale avrebbe rafforzato le sinistre. Da questa preoccupazione nacque il «patto Gentiloni»: una intesa che avrebbe garantito a Giolitti l’appoggio dei cattolici contro l’impegno ad accantonare la legge sul divorzio, difendere le scuole confessionali, garantire alle attività economico-sociali dei cattolici lo stesso trattamento che lo Stato riservava a quelle dei laici.
Nelle elezioni del 1913 i votanti furono 5.100.615, vale a dire circa il 60% degli aventi diritto. I deputati giolittiani furono 304, i socialisti 52, i socialisti riformisti 19, i radicali 73, i repubblicani 17 e i cattolici 20. Per Giolitti, quindi, non si trattò di un suicidio. Il declino della democrazia liberale comincia con la legge proporzionale del 1919; e non fu colpa sua.
Sergio Romano