Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 28 Lunedì calendario

Riccardo Muti e il “Macbeth” di Verdi (articolo del 25/11/2011)

la Repubblica, venerd’ 25 novembre 2011
Tra tutti i drammi di Shakespeare, Macbeth è il più tenebroso. Lo è per quel tratto fisico, concreto, percepibile che rende una vicenda di potere (e di usurpazione) una storia terribile, di sangue che scorre ed esonda fino a travolgerci, a imbrattarci, a spaventarci, quasi si trattasse di un horror. Non so se questo lato della tragedia abbia colpito Giuseppe Verdi, che fu avido lettore shakespeariano e che si lasciò certamente attrarre dall’insondabilità del male e dalle sue innumerevoli conseguenze. Ma è con questa sensazione, con questo dubbio, che vado a trovare Riccardo Muti, che dirigerà il Macbeth di Verdi al Teatro dell’Opera di Roma, con la regia di Peter Stein.

Allora Maestro, questa immane tragedia del potere che cosa le suggerisce?
«Dovrei risponderle: pensieri cupi, se non fosse per le parole che Shakespeare ha messo insieme e per la musica che Verdi ha composto, che mi fanno essere grato a questi due geni dell’arte. Poi, certo, il potere: grande tema, eterno quanto l’uomo. Direi che nel Macbeth c’è soprattutto la voluttà del soglio, dello scettro. Che scorgiamo nella doppia immagine: di Lady Macbeth e del suo consorte. Ma con questa accortezza: nell’opera di Verdi tutto è nelle mani, nelle intenzioni della Lady, che ha in pugno Macbeth».

Strana coppia, ognuno con una sua patologia.
«Lei lo sovrasta, fino a trattarlo come un fanciullo vanitoso e debole. C’è un senso di disprezzo a stento mascherato. E Verdi ce lo fa capire sin dalla prima apparizione di Macbeth, cui è affidata la grande frase: Giorno non vidi mai sì fiero e bello. E Banco, il fedele amico di tante battaglie che lui ucciderà, aggiunge premonitore: Né tanto glorioso. E qui la sintesi verdiana è strepitosa».

In che senso?
«Che la musica corrisponde perfettamente al dettato della parola. A Verdi è sufficiente una piccola, ma grandiosa, arcata musicale per delineare, fin dall’inizio, i tratti di Macbeth e Banco. E lo fa con un avvio circolare, poche battute bastano per intendere la raffinatezza dell’inseguirsi delle note, come fossero dentro un cerchio. E non è un caso che usi questo tipo di struttura musicale».

Perché?
«Perché, ogni volta che si interessa al fato, Verdi ricorre a un tema di questo genere. Lo ritroviamo nella Forza del destino, in Rigoletto. Non so se avesse mai riflettuto sull’idea del cerchio, ma certamente la portava dentro di sé».

Come idea di perfezione?
«Come qualcosa di magico: fa pensare all’influenza esercitata su di lui dalle fiabe che gli arrivavano dal mondo padano. Le streghe – quelle che incontrano Macbeth all’inizio – agiscono dentro una sorta di cerchio magico. E noi percepiamo in quello spazio virtuale sia la discesa all’inferno che la risalita al cielo. All’inizio, infatti, Verdi introduce l’oboe, il clarinetto e il fagotto. Mescola i loro suoni dandoci la sensazione di ascoltare un’orrenda cornamusa scozzese. E, subito dopo, ecco l’elemento dei violini che provocano immagini aeree, guizzi verso l’alto. In poche battute si concentra tutta la raffinatezza di Verdi».

È una lettura opposta a quella di coloro che ritengono Verdi elementare, a tratti perfino volgare.
«Ho diretto tantissime sue opere. E se le partiture – soprattutto nel primo Verdi – possono apparire basiche, in realtà nascondono una ricchezza tale di rimandi, di segrete armonie, che fanno di questo musicista un genio assoluto».

Più di Wagner, nato nello stesso anno?
«Sono naturalmente due artisti diversi. Wagner è sublime, certo. Ma inserisce un concetto o poche parole in un mare di musica. In Verdi, invece, c’è un rapporto strettissimo tra una certa nota e una certa parola. Tutto in lui si brucia nel momento in cui si realizza. E il recitativo verdiano ha una forza scultorea, un potere di sintesi michelangiolesco».

È la stessa forza espressiva che ritroviamo in Lady Macbeth e nel marito?
«Sono due giganti. Lei spicca come il male che si effonde ovunque. Rappresenta la voluttà e la brama del potere. Dice, rivolta a Macbeth: Al fin sei mio. E Verdi sottolinea mio, quasi a suggerirci un fatto erotico. Viene da pensare allo scettro come simbolo fallico. La Lady domina Macbeth, domina sul guerriero che è grande in battaglia, ma miserabile nei suoi sogni, nelle sue decisioni. Negli anni ho realizzato molte edizioni del Macbeth e, ogni volta che torno su quest’opera, mi rendo conto che non si finisce mai di scavare nei suoi personaggi».

Nota una qualche differenza significativa tra la tragedia e l’opera?
«Quanto alla coppia Macbeth, ho la sensazione che l’opera riporti i personaggi un po’ alla vita di tutti i giorni, alle beghe familiari».

Un dramma che finisce nel tinello?
«In un certo senso è così. Dopo che Macbeth ha visto il fantasma di Banco, c’è una lunga pausa in cui lo spettro sparisce. E a quel punto, davanti agli ospiti raccolti attorno alla tavola, lui dice: La vita riprendo. È un momento di una bellezza struggente, quasi una richiesta d’amore. E lei, spietata, dura e rompiscatole come una signora dell’Ottocento uscita dalle nebbie padane, gli risponde: Vergogna, signor. Terribile frase, ma anche così usuale, domestica».

Vuol dire che Verdi, quando scriveva la partitura, pensava al proprio mondo?
«Ogni musicista mette se stesso nelle opere. Ma in Verdi è molto forte la componente autobiografica. Entrano in scena i suoi sentimenti, quello che percepisce nella vita che gli scorre fuori e dentro».

Non trova che l’atteggiamento verso la donna, in particolare nei riguardi di Lady Macbeth, nell’opera sia più ostile di quanto non lo fosse in Shakespeare?
«Forse, nei riguardi della donna, c’è una perfidia ulteriore. Nel finale del terzo atto, quando si è consumata la scena con le streghe, arriva Lady Macbeth che dice al consorte: Vi trovo al fin, che fate? Sente il modo sbrigativo, insolente, autoritario, terra terra, che accentua il dominio su di lui? Mi fa pensare, più che a una eroina del male, a un’arcigna padrona di casa vissuta tra Busseto e le Roncole».

Macbeth, che usurpa il potere, uccidendo re Duncan, finisce col mostrare tutta la sua fragilità.
«Il soggetto che sembra dominare è in realtà dominato. E anche questo dramma del rovesciamento mostra la grandezza ineguagliata e la modernità dell’opera di Verdi».

Più grande del Falstaff?
«No, con Falstaff – e siamo alle soglie del nuovo secolo – Verdi fa qualcosa di imprevedibile. È come se dicesse: fino a Otello ho scritto opere per il pubblico, Falstaff l’ho scritta per me. E realizza un capolavoro assoluto, in cui il rapporto tra parola e musica è talmente perfetto che bisogna andare a Mozart per trovare una corrispondenza altrettanto efficace».

Aveva sott’occhio il Don Giovanni.
«Era un grande ammiratore di Mozart. Tanto è vero che teneva vicino al letto le partiture dei suoi quartetti, oltre a quelle dei quartetti di Haydn e Beethoven. Però è chiaro che la sua musica affonda le radici in un sostrato italiano».

Che è l’aspetto che i detrattori gli hanno rimproverato.
«Sbagliando. Bisogna entrare nella parte segreta del suo linguaggio. Bisogna capire cosa rappresentavano quei suoni, che erano assolutamente rivoluzionari per allora. Il primo Macbeth è alla fine del belcanto, quindi di Bellini e Donizetti. Quando all’inizio le streghe si abbandonano a una specie di sabba, sentiamo la frase: Le sorelle vagabonde van per l’aria, van sull’onde. E i critici tedeschi obiettavano: ecco i soliti italiani che riducono Shakespeare a una banale filastrocca. Ma Verdi non scrive marcette. Ed è l’interprete che deve capire che dietro quella semplicità c’è un mondo fantastico».

Una specie di castello invisibile?
«Sì, abitato dalla lingua segreta del compositore. E anche dalla sua complessità. Nel finale di Falstaff, Tutto il mondo è burla, Verdi – fino ad allora considerato, come tanti musicisti italiani, non ferratissimo nell’arte del contrappunto – conclude la sua vita operistica scrivendo una meravigliosa fuga e dando così un saggio della più complessa tra le forme musicali".

La tragedia e la burla sono anche due volti del potere. Nel Macbeth prevale il primo. E verso il finale – prima che il tiranno Macbeth venga ucciso in duello – Shakespeare elenca i lati negativi del potere: l’intemperanza, la lascivia, la falsità, la violenza, la malizia. E naturalmente viene in mente Machiavelli, così detestato in età elisabettiana, ma anche l’Italia di questi anni recenti. A lei cosa quel finale suggerisce?
«Sono cresciuto negli anni Cinquanta in un Paese pieno di speranze. Un’Italia operosa e desiderosa di riappropriarsi delle proprie risorse. Ecco, mi piacerebbe concludere la mia vita con quel senso di ottimismo che la società allora mi trasmetteva. La verità è che oggi sono molto triste. Vedo che quei progetti, quei sogni, quell’orgoglio si sono dispersi e frantumati. E non per colpa degli italiani. Gli uomini che ci hanno guidato fino a poco fa mi hanno parecchio deluso e sono preoccupato, non per me ma per le generazioni che verranno».

Si vorrebbe un’Italia senza più tragedie né burle.
«Un’Italia nuovamente speranzosa e ricca di valori. Che sappia interpretare il futuro».

Antonio Gnoli