Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  gennaio 26 Sabato calendario

La prima del Don Carlos a Milano (articolo del 6/12/1992)

Corriere della Sera, domenica 6 dicembre 1992
La prima rappresentazione del Don Carlo alla Scala avvenne il 25 marzo 1868, dopo che era stato dato in prima assoluta all’Opéra di Parigi l’anno precedente, a Torino, Roma e nel mese di ottobre a Bologna, per dieci sere. Verdi voleva che le sue opere comparissero alla Scala dopo severi collaudi. Alla Scala, dovevano arrivare con tutti i crismi, perfette nell’esecuzione e nella messinscena. Dalla sera del marzo del 1868 sono passati centoventiquattro anni. Quella volta sul podio ad attaccare la musica del Don Carlo c’ era il maestro Alberto Mazzucato; quest’anno ci sarà Riccardo Muti. Allora lo spettacolo cominciava alle diciannove e tre quarti, durava cinque ore ed era di cinque atti più il ballo; domani avrà inizio alle diciotto, durerà quattro ore e quaranta minuti compresi gli intervalli, sarà di quattro atti senza il ballo, nella versione che Verdi elaborò nel 1884 e che chiamò "Don Carlo, versione Scala".

Il 25 marzo del 1868 era un mercoledì, il tempo era bello, il cielo sereno e la temperatura di undici gradi. La prima di Don Carlo era l’ avvenimento musicale dell’anno. Il nome di Verdi già volava nell’Europa e in buona parte del mondo. Nei salotti se ne parlava. Nell’attesa l’eccitazione mondana era febbrile. Le sarte davano gli ultimi colpi di ferro alle toilette delle signore, e le modiste apportavano il tocco finale ai cappellini. Il Tesoro delle Famiglie aveva pubblicato i figurini colorati dei modelli degli abiti che si sarebbero visti la sera della prima, insieme con le acconciature dei capelli.

La Scala, fin dal suo sorgere, o meglio dal suo risorgere nel 1778, dopo l’incendio del teatro Ducale, è sempre stata, per la maestosità della sua bellezza architettonica, un tempio, una cattedrale, un santuario della musica. Stendhal, quando la vide la prima volta, ne restò incantato e in una lettera alla sorella Paolina la descrisse così: "Immagina una piazza ricoperta, come da noi la piazza Grenette, e a tutti i balconi delle tendine multicolori. Ognuno ha nel suo palchetto delle candele accese, un tavolino, carte da gioco e di solito si fanno venire i rinfreschi per le signore. Sono duecento piccoli salotti che guardano nella sala dalle loro finestre adorne di drappi di seta". I palchettisti erano in effetti i veri padroni del teatro. Il palco era una proprietà privata. Una famiglia di rispetto, un casato di grande tradizione, i più bei nomi dell’aristocrazia e della borghesia milanese dovevano avere quattro cose: un palco alla Scala, la villa sul lago di Como, un banco nella chiesa di San Fedele e la tomba al Cimitero Monumentale.

I palchi, per usare il linguaggio d’oggi, erano delle multiproprietà in quanto i palchettisti ne acquistavano i muri. Questo dava loro il diritto di fregiare l’ architrave con il proprio stemma. Potevano poi arredarlo a piacere, trasformandolo in un’abitazione privata. Si mangiava, si chiacchierava, si giocava, si riceveva e si faceva anche all’amore. I palchettisti disponevano di una sala in comune chiamata la "sala dei fornelli", la cui ubicazione oggi non è più rintracciabile. Era un grande ambiente adibito a cucina, dove i cuochi delle singole famiglie preparavano la cena della sera. Uno storico del costume milanese così scrive: "Nei retropalchi, serviti da domestici in livrea, si banchettava a risotti, flans, arrosti e paté; i rossi scorrevano, gli champagne scoppiavano. L’allegra "paciada" meneghina impazzava e la serata proseguiva beata".

La Scala era il teatro dei ricchi. Un luogo dove si sfoggiava la propria potenza economica, in abiti e gioielli, dove si mettevano in mostra mogli e amanti adornatissime. Gli altri spettatori si dividevano fra la sala e il loggione. Già allora il loggione esprimeva il calore del pubblico, ospitando gli intenditori dall’orecchio fino. Dal loggione partiva il "la" del successo e da lì gli appassionati si sporgevano per applaudire o fischiare. La maggior parte degli spettatori che prendevano posto nella sala erano abbonati alla sedia, altri le fittavano di volta in volta. Il ballo pubblico Il biglietto di platea costava tre lire, cinque per la prima. Per il loggione, si passava da una lira a una e cinquanta. Chi voleva la sedia distinta a braccioli pagava dieci lire in più. In prima fila c’erano panche riservate ai militari della guarnigione in divisa. La sala, dopo lo spettacolo, veniva sgombrata per il ballo pubblico. In questo scenario si svolse la prima del Don Carlo.

"Da gran tempo nessuna opera italiana o straniera ebbe alla Scala un trionfo così completo. Fu un lungo, continuo, generale e caldissimo applauso, ch’ebbe talvolta gli impeti, gli slanci, i prorompenti subitanei della commozione...", scriveva il Pungolo. Da parte sua la Gazzetta di Milano sosteneva: "Per noi dal Rigoletto e dal Ballo in maschera in poi, Verdi è decaduto: I vespri siciliani, La forza del destino e questo istesso Don Carlo segnano una decadenza". Poi stroncava il libretto: "Il dramma manipolato dalla ditta francese è un controsenso, una birberia; quanto alla traduzione, il traduttore-traditore non fu mai così meritato come dal Lauzières. Che diamine, il signor Ricordi non aveva cinquecento lire da spendere perché un qualche scolaro di retorica imprestasse alla versione un po’ di prosodia di sintassi e di metro?".

A sua volta il critico musicale della Perseveranza polemizzava: "Il Don Carlo, sebbene splendente di vivissima luce, fino dal suo primo apparire, ebbe anch’ esso i suoi detrattori, i suoi apostati, qualche pubblico restio, freddo, schifiltoso, e la solita valanga di ubbie della stampa. Io lo proclamai un capolavoro, e credo con qualche coraggio. Allora mi giunsero gli echi che erano esagerate le mie lodi, troppo sperticati i miei panegirici, coll’aggiunta delle maligne insinuazioni che possono cogliere un povero giornalista ch’è amico del maestro e dell’editore... Poi è arrivato il gran successo e io rincaro la dose delle lodi...". Gli fa eco La Lombardia: "Si temeva che questa musica riccamente elaborata rimanesse incompresa alla prima audizione, ma le opere dove il canto predomina, dove la melodia è costante, dove si agita la favilla di un genio creativo, non possono mai fallire... Sappiamo che Verdi teneva assai al successo del suo spartito sul palcoscenico della Scala: il dispaccio a lui trasmesso appena finita la rappresentazione deve aver superato la sua aspettativa. E si sa che fu un dispaccio di novanta parole quando era meglio dire che fu un applauso solo dal principio alla fine".

Anche due settimanali popolari dedicarono molto spazio all’ avvenimento. L’Universo Illustrato, dopo un’ analisi minuziosa, tirava le somme esprimendo delle riserve: "Noi usciamo appena dalla prima rappresentazione al teatro della Scala dove l’opera suscitò un discreto entusiasmo. Questo entusiasmo non mancherà di essere discusso, poiché la maniera qui adottata del grande maestro non è più gradita al pubblico. Egli però vi ha innestato tali bellezze che rapiscono. L’opera è troppo lunga; il complesso della musica è monotono, ha una tinta continuamente triste, diremo quasi monacale; anch’egli ha voluto sacrificare ai nuovi idoli, che contano sull’avvenire; ma ad ogni tratto si sente la sua potenza melodica che trasporta l’uditorio". Al contrario la Gazzetta Musicale, diretta da Giulio Ricordi, fu esplicita nel consenso: "È la più perfetta composizione dell’illustre maestro italiano. Il pubblico appassionato comprese tutto, ammirò tutto: si lasciò trasportare da quel sacro furore che sempre investe le anime ogni qualvolta si trovino in presenza di un artista grande...".

Ma è un articolo apparso sull’Illustrazione Universale, il giorno dopo la rappresentazione, che offre l’esatta misura di quella che fu veramente la serata. Il critico prometteva di esporre il suo giudizio "con ponderatezza e ragionamento". Ma chi era questo riflessivo ed equilibrato giornalista? Un giovane di 26 anni, Eugenio Torelli Viollier, che otto anni dopo avrebbe fondato il Corriere della Sera. Nel suo scritto, Torelli Viollier anticipava in qualche modo i criteri di obiettività e chiarezza che avrebbero ispirato il suo giornale.

Questa era la passione musicale di Milano, in questi anni. La Scala era Milano: ma com’era Milano di allora? Anche per merito della capacità lavorativa dei suoi abitanti e per il loro spirito imprenditoriale la città godeva buona salute che si rispecchiava nell’andamento della Borsa, con titoli azionari e obbligazionari. Aveva già un ritmo da metropoli europea, le sue comodità, persino i suoi lussi. Accanto alla grande figura di Manzoni, c’era una élite intellettuale molto vivace. Nasceva la scapigliatura con Giuseppe Rovani, Emilio Praga, Tarchetti, Arrighi, Dossi. L’importanza culturale di Milano cresceva: oltre alla Scala, c’erano sei teatri, cinque di prosa (il Carcano, il Teatro Re, il Santa Resegonda, il Fossati, il Gerolamo) poi il Padiglione Cattaneo di musica e danza. La città andava a mano a mano migliorando dal punto di vista edilizio, stradale e igienico. La popolazione aumentava: gli abitanti erano duecentomila, oggi i residenti sono un milione duecentomila. Sindaco era il conte Giulio Bellinzaghi, chiamato "gilé de ges" (panciotto bianco) perché membro autorevole del gruppo conservatore, il più bonario e ambrosiano dei sindaci del tempo.

I dipendenti comunali erano 246 (oggi sono 18.657); il corpo dei sorveglianti urbani era formato da cinquanta uomini, contro i 1.577 vigili di oggi. L’illuminazione cittadina era assicurata da 2.600 lampade a gas; oggi le lampade installate sono 83.718. Alberghi, locande e ristoranti erano allora settecentotrentasei, i bar 789. Oggi gli alberghi sono 423, i bar 3.600 e i ristoranti 1.120. Arcivescovo di Milano era da un anno monsignor Luigi Nazari dei conti di Calabiana, senatore del regno, fedele amico di casa Savoia. Milano aveva quaranta parrocchie, oggi ne ha 184 ed era capoluogo di una diocesi che ne contava complessivamente 775, mentre oggi sono 1.140. I sacerdoti, allora, erano 2.650, oggi 2.200. Centoventiquattro anni sono passati fra quella "prima" alla Scala e quella di domani sera. Ma anche certi aspetti e problemi della vita si ripetono. Nel 1868 il ministro delle Finanze rispondendo alla Camera a una interpellanza di Minghetti, a proposito del risanamento economico della Fabbrica dei Tabacchi, gestita dallo Stato, ne proponeva la privatizzazione. E il ministro della Pubblica Istruzione minacciava la chiusura dell’Università di Bologna a causa della contestazione degli studenti, assumendosi "tutta la responsabilità del severo provvedimento". Non e’ poi sempre vero che il mondo cambia.
Gaetano Afeltra