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 1989  marzo 25 Sabato calendario

L’anno zero del Pci

Una volta usava dire che il Pci viene da lontano. Era vero, ma è anche vero che nel frattempo è diventato irriconoscibile. Si ha un bel dire che rimangono fattori di continuità tra il passato e il presente. La verità è che il Congresso che si è appena tenuto ha segnato un punto di approdo che rompe con la tradizione, che di fatto cancella quasi settant’anni di storia. Esso sta nel riconoscimento della non reversibilità del capitalismo, nelle aree dove s’è affermato e consolidato, come sistema generatore non solo della moderna democrazia ma della ricchezza diffusa che è il segno del nostro tempo. Il riconoscimento non è codificato nei documenti. E tuttavia è nei fatti, oltre che nella problematica generale emersa dalle giornate del Palazzo dello sport. È un dato nuovo e importante. Se infatti per il Pci il valore universale della democrazia è da molto tempo acquisito altrettanto non si può dire della non reversibilità del capitalismo. I due punti, adesso, si saldano e questo fa del Pci un partito che da una parte non ha più tributi da pagare ad altri partiti e al tempo stesso lo situa entro un orizzonte che non ha nulla, proprio nulla in comune con quel che rimane del movimento comunista. Più volte, in questi ultimi tempi, l’acquisizione della non reversibilità del capitalismo era affiorata nelle dichiarazioni non solo dei cosiddetti miglioristi ma dello stesso Occhetto. Adesso, però, essa ha permeato tutto il Congresso e non fosse che per questo è giusto definirlo di rifondazione. Niente più logiche mediatrici tra un capitalismo ritenuto inaccettabile e un socialismo giudicato impossibile. E niente più terze o quarte vie da esplorare. La via, ormai, è una sola, dettata dalla storia e resa insostituibile dalla impraticabilità di ogni altra. Insomma si volta pagina davvero, anzi si adottano nuovi libri per leggere quel che nel mondo in cui viviamo accade. Persino il richiamo a Gorbaciov diventa meno robusto di quanto tutte le apparenze sembrano indicare. Un fossato infatti s’è aperto tra un uomo che crede nel socialismo riformato e i comunisti italiani che puntano, invece, sul capitalismo da riformare. E finché il primo dato rimarrà al centro della realtà della nuova Russia improbabili diventano anche i progetti di creazione di una sinistra europea che la inglobi, nonostante le robuste convergenze sulle prospettive di nuovi assetti internazionali ed europei meno precari.

Ma se questo è il punto di arrivo di quasi settant’anni esso è anche un punto di partenza dai contorni sfocati e dall’avvenire problematico. Per i comunisti di Occhetto si tratta, per dirla in sintesi, di incidere nel sistema ormai accetto per indirizzare i frutti del capitalismo verso fini benigni. È un punto di partenza che li inserisce in un arco di forze che va assai al di là delle socialdemocrazie classiche. La consapevolezza, infatti, della necessità di governare, indirizzandoli verso fini benigni, gli sconvolgenti, e spesso perversi processi messi in moto dalle straordinarie conquiste della scienza e della tecnica è oggi pressoché generale nei gruppi dirigenti del mondo capitalistico. È in Agnelli come in Trentin, nella Thatcher come in Mitterrand, in Bush come in Felipe Gonzalez. È in questo orizzonte che ormai i comunisti italiani si situano, con un occhio attento, evidentemente, ai meno favoriti da questi processi, in Italia e nel mondo. E come chieder loro di rinunciarvi? Ha profondamente torto Craxi, perciò, quando crede di poter liquidare con acide e superficiali battute le novità del XVIII Congresso. Nel bene e nel male, infatti, questo è stato un Congresso che assieme a una rottura generazionale ha sancito una rottura politica, culturale, storica con una tradizione che se ha avuto le sue nefandezze ha avuto anche, e non sono state poche, le sue glorie. Più pertinente sembra invece essere la discussione su una certa carica utopistica, su un certo mondialismo affiorati nei lavori del Congresso, e che hanno trovato grande spazio nei discorsi del segretario generale. Ma anche qui sarà bene vedere le cose più attentamente. È davvero utopistica l’ambizione di indirizzare a fini benigni il capitalismo? Ma allora tutte le grandi forze politiche, sociali, culturali che di questo obiettivo fanno il centro della loro azione son condannate a fallire senza nulla governare.

Non è forse vero e non è forse avvertito da masse sterminate di persone che questo è invece il cuore dei problemi dell’epoca nostra? Che i comunisti vi portino una loro carica, un loro contributo, un loro impegno non è forse ancora una prova della loro capacità di guardare al futuro rompendo con il passato? E perché dolersene, se questo significa l’ingresso d’una forza viva, profondamente radicata nel tessuto civile, sociale, umano del nostro paese in un fronte di questa natura e di questa portata? Ancora una volta ha torto Craxi a non vederlo o a vederlo con la lente deformata della ricerca di egemonia che i comunisti legittimamente rifiutano di consegnargli. È vero, il leader socialista ha avuto nel passato buone intuizioni. Gli è mancata, però, quella forse essenziale: la capacità dei comunisti di ritrovare un forte, diffuso contatto con la realtà che cambia. Lo stesso mondialismo che vien loro rimproverato va guardato più da vicino. Si tratta davvero d’una fuga dal qui ed ora? Ma in quale paese d’Occidente il qui ed ora può essere situato completamente fuori da un orizzonte mondialista? È vero, viviamo in un’epoca in cui è più facile immaginare un mondo diverso che fare un paese diverso. Ma questo non è forse dettato dal fatto che nel nostro mondo non vi sono più isole? Lo stesso Gorbaciov, che pure ha dato un forte contributo a far cambiare il mondo, rischia di rimanere impigliato negli scogli che gli si parano davanti nel tentativo di cambiare la situazione economica del suo paese. E d’altronde sarebbe far torto ai comunisti italiani ritenere che essi fuggano dal qui ed ora. Proposte, suggerimenti, idee tutt’altro che astratte, tutt’altro che stravaganti son venute fuori e vengon fuori dalla loro parte. Altri hanno discusso, discutono e discuteranno su ognuna di esse. Ma un fatto è certo. Ed è che da gran tempo è finita l’epoca della inconciliabilità dei linguaggi tra il Partito comunista e le altre forze politiche democratiche. Anche su questo terreno, anzi, il Congresso, salvo che con Craxi, e non certo per responsabilità esclusiva dei comunisti, ha segnato una fase di ulteriore riavvicinamento nell’affrontare, appunto, i problemi del qui ed ora. Cosa significherà tutto questo nel panorama politico italiano è per ora difficile intravedere. Ma è arrivato il tempo di guardare ai comunisti con occhio diverso dal passato. Perché essi sono diversi. Una mutazione s’è compiuta. Frutto, certo, della sconfitta storica del mondo da cui essi provengono. Ma anche della loro capacità di coglierne il significato, e di trarne tutte le conseguenze. Che poi questo si traduca nella nascita di un’aggregazione di forze capaci di governare il qui ed ora e di indirizzare a fini benigni quello che Schiavone chiama il terzo capitalismo è questione aperta. Ma è aperta non solo per i comunisti. È aperta per tutti. E questa non è l’ultima delle verità che il Congresso ha fatto emergere.