La Stampa, sabato 20 novembre 2004 , 21 gennaio 2013
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Il suicidio lento di Anna Maria (Articolo del 20/11/2004)
La Stampa, sabato 20 novembre 2004
«Togliermi la vita, non posso. Ma vorrei che passasse in fretta, che fosse già andata via, che avessi ottant’anni e potessi guardarmi indietro, prima di spegnere la luce. finita, Annamaria, è tutto finito».
Però, non era cominciata così, quando eravamo venuti su, a Ripoli, fra le quattro case appoggiate sulla strada sotto ai costoni che si alzano fra i boschi e i prati, quattro curve in discesa dopo Monteacuto, dove Annamaria Franzoni e Stefano vivevano con il patriarca, nella grande villa davanti allo spiazzo con il parcheggio e le cabine telefoniche. Era un giorno di sole e vento freddo, e anche oggi c’è il sole mentre andiamo via. Splende su un mondo tutto fermo, con gli occhi appesi alle finestre e i suoi vecchi immobili davanti all’aia che ti guardano passare. Annamaria aveva un giubbotto nero e i jeans che le stringevano i fianchi. Gioele, il figlio più piccolo, una giaccavento rossa e si divertiva a sfogliare le caramelle. Stefano portava un maglione grigio. C’era qualcosa che sembrava venire da un quadro sereno, e lei diceva «io cerco di esserlo, mi sforzo, e un po’ credo di farcela», e lei diceva «lo devo a Davide e Gioele», e le donne preparavano da mangiare, e gli uomini aprivano le bottiglie di vino, e ogni tanto a qualcuno scappava da ridere attorno al grande tavolo. Nel pomeriggio, le mamme del paese sono andate su tutte assieme a fare la passeggiata al Santuario, e Annamaria tirava la carrozzella, e il giorno dopo hanno fatto un giro al parco giochi, un prato con lo scivolo, le altalene e la salita per far correre i bambini dietro al cane di pelo lungo. Annamaria teneva anche i piccoli delle altre mamme e si coccolava Gioele. A guardarla, faceva uno strano effetto pensando come vanno le cose da noi.
La Franzoni è stata appena condannata a trent’anni per avere ucciso il suo bambino. Ed è qui che fa la mamma nella maniera più normale del mondo, come fanno tutte le mamme, chiamando le macchinine «brum brum», dicendo che adesso si va tutti a vedere «i ghingo» mentre li prende per mano e li conduce contro il sole. E le altre, Elisabetta, Maria, Rita, dicevano tutte le stesse cose, che lei è una madre bravissima, che è innocente, che è una vittima, che non ci sono problemi.
All’inizio, era cominciata così, dentro a questo piccolo paese contadino che ha conservato un senso antico, viscerale, o terrigno, della solidarietà, così lontano dalla frenesia e dall’indifferenza delle nostre metropoli, come se fosse poi solo un’espressione naturale di fratellanza. Mentre camminava con le altre mamme, o mentre si sedeva sulla poltrona azzurra dell’ingresso di casa sua, a Ripoli, 60 metri quadri su due piani stretti stretti, con la grande televisione Sony nell’angolo, le cassette video sulla parete bianca, - Balla coi lupi, Il ritorno dello Jedi, La Gabbianella e il Gatto - schiacciate fra i libri di cucina e di ricette, e mentre preparava la pappa per Gioele, Annamaria raccontava di quando aveva conosciuto suo marito Stefano a Cogne, di quell’innamoramento, dei sogni che si realizzavano, di tutte le cose che abbiamo vissuto anche noi, ognuno di noi, e tutti convinti di essere gli unici: «Era troppo bello, ero così felice che credevo di essere la donna più fortunata del mondo». Solo che quelli che nascono con il vento contro devono aver paura quando toccano il cielo. Rischiano di cadere. «Ma sa che l’ho pensato, sono stata troppo bene, una gioia estrema. E la vita non è quella. Non pensavo mai si potesse essere così felici nella vita». Forse, quasi tutti nasciamo così, con il vento contro. il destino dell’uomo. Ma non glielo dico.
Ha già tirato fuori l’album delle fotografie, tre volumi pieni di memorie, per tenere dentro quello che non c’è più. Comincia a sfogliarle davanti a noi. Le montagne di Cogne, «questo è il giardino», pieno di fiori, «perché a me è sempre piaciuto piantarli, colorare la mia casa». E questa è la cucina, la sala, Samuele vicino al camino, e di nuovo sul prato davanti alla villetta, con i gerani, le rose, i vasi, come in un giardino delle fiabe. Il bambino sotto le lenzuola, la testolina che viene fuori dalle coperte come da una cuccia, Samuele che guarda Davide che gioca, affacciato nel cortile, sulla discesa, nella piscina piccola in giardino, «gliela mettevamo perché giocasse con l’acqua». Chiediamo: chi faceva le fotografie? Lei, «io» dice, «mi è sempre piaciuto». Il ritratto di una famiglia felice nella normalità. quello che in parte avevamo pensato di vedere fino ad adesso, anche qui. Ma il quadro si sta spezzando, ed è solo una ricerca illusoria che perde i suoi veli, perché esistono due Annamaria, una pubblica che rincorre la serenità, e una privata, che convive con il suo suicidio, con tutto il suo dolore disperante. E mentre andiamo avanti la voce si incrina, Davide e Samuele che litigano per un fazzoletto, e Samuele che fa il bagno, persino dentro un cassetto, o seduto nel lavandino. Diciamo: davvero un bel bimbo, tristemente catturati dai suoi occhioni neri. E lei, come si risvegliasse, oh sì, «ma io me lo guardavo, sa?, e me lo dicevo: sei proprio bello. E ricordo d’averlo abbracciato anche il giorno prima del delitto, quando eravamo andati ad Aosta per prendere i vestiti di carnevale, e lui era tutto fiero con quello nero dell’uomo mascherato, e io me l’ero stretto. T’ha fatto proprio bello tua mamma».
E adesso comincia a parlare del delitto, a ripetere le ossessioni, e «se facevo questo, se facevo quell’altro, se lo portavo nell’altra camera, ma lui adesso non lo difende nessuno, di me non m’importa», mentre passano le altre foto, come una memoria impietosa, le gite in montagna, Samuele sul cocuzzo, e quella volta che l’ha chiamata, «mamma fotografami adesso!, e poi l’agosto 2001, quando aveva quasi tre anni, e tutta la famiglia Franzoni riunita, e il nonno che taglia l’anguria poggiata sul masso lungo la passeggiata verso il rifugio Sella. E mentre incombe il febbraio del 2002, e lei dice «io mi divertivo con i miei bambini, la casa l’avevo fatta per loro, per farli stare bene. Non avevo nient’altro da chiedere alla mia vita». Poi tira fuori dal portafoglio, una foto di Samuele con un disegno: «Questa la tengo io. Perché la maestra mi raccontava sempre che quando faceva i disegni non voleva lasciarli a nessuno: questi sono per la mamma, diceva. Se li metteva in tasca e li portava a casa. Questo è l’ultimo che ha fatto».
Arriva Gioele, e lei lo imbocca, gli dà la minestra. Un’amica se lo porta fuori a giocare. Dice: «Gioele è un altro bambino. Ci aiuta ad andare avanti, a vivere. Però, ne manca sempre uno. Oggi avrebbe compiuto sei anni». A Davide, racconta, hanno dovuto dire tutto: «Non gli ho nascosto niente, purtroppo gli abbiamo dovuto dire tutta la verità, anche come è morto suo fratello». Davide è uno strano bimbo, con gli occhi da grande e un sorriso triste, amaro.
Ormai il paese è chiuso fuori, e quando vengono a bussare per chiamarla a cena, lei dice «dopo, vengo dopo», e spiega che per un anno non ci ha mai creduto che puntassero a lei, che era apatica, che dentro di sé pensava che non era vero, che era un trucco per stanare il vero colpevole, anche quando l’hanno portata in carcere, e che solo quando ha letto la sentenza della Cassazione s’è svegliata all’improvviso e s’è accorta di tutto: «C’era scritto lucida assassina, ma questa sono io. Pensano che sia io».
Adesso tira fuori lo zainetto di Samuele, e lo spiega come se fosse una persona, «queste sono le ciabattine che si metteva all’asilo perché dentro non si poteva portare le scarpe», e fa vedere le mutandine con scritto Samuele, la felpina, la maglietta. «Ogni tanto lo apro e vado a toccarlo e mi sembra di averlo qui». Comincia a piangere, non si ferma più. «A Gioele metto i vestiti di Samuele, ma le scarpe no. Quelle sono solo sue, io le sfioro ogni tanto come se potessi avere ancora lui». Ricorda che ha sempre sperato che riuscisse a vivere, «mentre lo portavano all’ospedale e dicevo forse i medici ce la fanno, ma avevo nelle mie mani un pezzo di cervello suo che m’era rimasto quando l’avevo sfiorato per sollevarlo. Dovevo rendermi conto che era impossibile». C’è un inviato della Rai, Roberto Pozzan, che non sa come fare per fermare il suo pianto. Se vuole andiamo, sussurra. E lei, «vi prego no. Non posso farlo con i miei bambini. E anche con Stefano perché lui soffre di più. Mi lasci sfogare». Un camioncino di legno, con la gru, «l’ultima cosa che abbiamo fatto assieme. Non ci lascio giocare nessuno, neanche Gioele». Lo tiene sopra il caminetto. Ecco. Singhiozza. C’è Samuele che sorride su una poltrona. Era l’Epifania 2002. Lui voleva dare il biberon a un cuginetto. «Io gli ho detto: aspetta. Sono corsa a prendere la macchina e gli ho fatto la foto». L’ultima foto sua. Poi la vita è cambiata, e non ci sono più foto.
«Togliermi la vita, non posso. Ma vorrei che passasse in fretta, che fosse già andata via, che avessi ottant’anni e potessi guardarmi indietro, prima di spegnere la luce. finita, Annamaria, è tutto finito».
Però, non era cominciata così, quando eravamo venuti su, a Ripoli, fra le quattro case appoggiate sulla strada sotto ai costoni che si alzano fra i boschi e i prati, quattro curve in discesa dopo Monteacuto, dove Annamaria Franzoni e Stefano vivevano con il patriarca, nella grande villa davanti allo spiazzo con il parcheggio e le cabine telefoniche. Era un giorno di sole e vento freddo, e anche oggi c’è il sole mentre andiamo via. Splende su un mondo tutto fermo, con gli occhi appesi alle finestre e i suoi vecchi immobili davanti all’aia che ti guardano passare. Annamaria aveva un giubbotto nero e i jeans che le stringevano i fianchi. Gioele, il figlio più piccolo, una giaccavento rossa e si divertiva a sfogliare le caramelle. Stefano portava un maglione grigio. C’era qualcosa che sembrava venire da un quadro sereno, e lei diceva «io cerco di esserlo, mi sforzo, e un po’ credo di farcela», e lei diceva «lo devo a Davide e Gioele», e le donne preparavano da mangiare, e gli uomini aprivano le bottiglie di vino, e ogni tanto a qualcuno scappava da ridere attorno al grande tavolo. Nel pomeriggio, le mamme del paese sono andate su tutte assieme a fare la passeggiata al Santuario, e Annamaria tirava la carrozzella, e il giorno dopo hanno fatto un giro al parco giochi, un prato con lo scivolo, le altalene e la salita per far correre i bambini dietro al cane di pelo lungo. Annamaria teneva anche i piccoli delle altre mamme e si coccolava Gioele. A guardarla, faceva uno strano effetto pensando come vanno le cose da noi.
La Franzoni è stata appena condannata a trent’anni per avere ucciso il suo bambino. Ed è qui che fa la mamma nella maniera più normale del mondo, come fanno tutte le mamme, chiamando le macchinine «brum brum», dicendo che adesso si va tutti a vedere «i ghingo» mentre li prende per mano e li conduce contro il sole. E le altre, Elisabetta, Maria, Rita, dicevano tutte le stesse cose, che lei è una madre bravissima, che è innocente, che è una vittima, che non ci sono problemi.
All’inizio, era cominciata così, dentro a questo piccolo paese contadino che ha conservato un senso antico, viscerale, o terrigno, della solidarietà, così lontano dalla frenesia e dall’indifferenza delle nostre metropoli, come se fosse poi solo un’espressione naturale di fratellanza. Mentre camminava con le altre mamme, o mentre si sedeva sulla poltrona azzurra dell’ingresso di casa sua, a Ripoli, 60 metri quadri su due piani stretti stretti, con la grande televisione Sony nell’angolo, le cassette video sulla parete bianca, - Balla coi lupi, Il ritorno dello Jedi, La Gabbianella e il Gatto - schiacciate fra i libri di cucina e di ricette, e mentre preparava la pappa per Gioele, Annamaria raccontava di quando aveva conosciuto suo marito Stefano a Cogne, di quell’innamoramento, dei sogni che si realizzavano, di tutte le cose che abbiamo vissuto anche noi, ognuno di noi, e tutti convinti di essere gli unici: «Era troppo bello, ero così felice che credevo di essere la donna più fortunata del mondo». Solo che quelli che nascono con il vento contro devono aver paura quando toccano il cielo. Rischiano di cadere. «Ma sa che l’ho pensato, sono stata troppo bene, una gioia estrema. E la vita non è quella. Non pensavo mai si potesse essere così felici nella vita». Forse, quasi tutti nasciamo così, con il vento contro. il destino dell’uomo. Ma non glielo dico.
Ha già tirato fuori l’album delle fotografie, tre volumi pieni di memorie, per tenere dentro quello che non c’è più. Comincia a sfogliarle davanti a noi. Le montagne di Cogne, «questo è il giardino», pieno di fiori, «perché a me è sempre piaciuto piantarli, colorare la mia casa». E questa è la cucina, la sala, Samuele vicino al camino, e di nuovo sul prato davanti alla villetta, con i gerani, le rose, i vasi, come in un giardino delle fiabe. Il bambino sotto le lenzuola, la testolina che viene fuori dalle coperte come da una cuccia, Samuele che guarda Davide che gioca, affacciato nel cortile, sulla discesa, nella piscina piccola in giardino, «gliela mettevamo perché giocasse con l’acqua». Chiediamo: chi faceva le fotografie? Lei, «io» dice, «mi è sempre piaciuto». Il ritratto di una famiglia felice nella normalità. quello che in parte avevamo pensato di vedere fino ad adesso, anche qui. Ma il quadro si sta spezzando, ed è solo una ricerca illusoria che perde i suoi veli, perché esistono due Annamaria, una pubblica che rincorre la serenità, e una privata, che convive con il suo suicidio, con tutto il suo dolore disperante. E mentre andiamo avanti la voce si incrina, Davide e Samuele che litigano per un fazzoletto, e Samuele che fa il bagno, persino dentro un cassetto, o seduto nel lavandino. Diciamo: davvero un bel bimbo, tristemente catturati dai suoi occhioni neri. E lei, come si risvegliasse, oh sì, «ma io me lo guardavo, sa?, e me lo dicevo: sei proprio bello. E ricordo d’averlo abbracciato anche il giorno prima del delitto, quando eravamo andati ad Aosta per prendere i vestiti di carnevale, e lui era tutto fiero con quello nero dell’uomo mascherato, e io me l’ero stretto. T’ha fatto proprio bello tua mamma».
E adesso comincia a parlare del delitto, a ripetere le ossessioni, e «se facevo questo, se facevo quell’altro, se lo portavo nell’altra camera, ma lui adesso non lo difende nessuno, di me non m’importa», mentre passano le altre foto, come una memoria impietosa, le gite in montagna, Samuele sul cocuzzo, e quella volta che l’ha chiamata, «mamma fotografami adesso!, e poi l’agosto 2001, quando aveva quasi tre anni, e tutta la famiglia Franzoni riunita, e il nonno che taglia l’anguria poggiata sul masso lungo la passeggiata verso il rifugio Sella. E mentre incombe il febbraio del 2002, e lei dice «io mi divertivo con i miei bambini, la casa l’avevo fatta per loro, per farli stare bene. Non avevo nient’altro da chiedere alla mia vita». Poi tira fuori dal portafoglio, una foto di Samuele con un disegno: «Questa la tengo io. Perché la maestra mi raccontava sempre che quando faceva i disegni non voleva lasciarli a nessuno: questi sono per la mamma, diceva. Se li metteva in tasca e li portava a casa. Questo è l’ultimo che ha fatto».
Arriva Gioele, e lei lo imbocca, gli dà la minestra. Un’amica se lo porta fuori a giocare. Dice: «Gioele è un altro bambino. Ci aiuta ad andare avanti, a vivere. Però, ne manca sempre uno. Oggi avrebbe compiuto sei anni». A Davide, racconta, hanno dovuto dire tutto: «Non gli ho nascosto niente, purtroppo gli abbiamo dovuto dire tutta la verità, anche come è morto suo fratello». Davide è uno strano bimbo, con gli occhi da grande e un sorriso triste, amaro.
Ormai il paese è chiuso fuori, e quando vengono a bussare per chiamarla a cena, lei dice «dopo, vengo dopo», e spiega che per un anno non ci ha mai creduto che puntassero a lei, che era apatica, che dentro di sé pensava che non era vero, che era un trucco per stanare il vero colpevole, anche quando l’hanno portata in carcere, e che solo quando ha letto la sentenza della Cassazione s’è svegliata all’improvviso e s’è accorta di tutto: «C’era scritto lucida assassina, ma questa sono io. Pensano che sia io».
Adesso tira fuori lo zainetto di Samuele, e lo spiega come se fosse una persona, «queste sono le ciabattine che si metteva all’asilo perché dentro non si poteva portare le scarpe», e fa vedere le mutandine con scritto Samuele, la felpina, la maglietta. «Ogni tanto lo apro e vado a toccarlo e mi sembra di averlo qui». Comincia a piangere, non si ferma più. «A Gioele metto i vestiti di Samuele, ma le scarpe no. Quelle sono solo sue, io le sfioro ogni tanto come se potessi avere ancora lui». Ricorda che ha sempre sperato che riuscisse a vivere, «mentre lo portavano all’ospedale e dicevo forse i medici ce la fanno, ma avevo nelle mie mani un pezzo di cervello suo che m’era rimasto quando l’avevo sfiorato per sollevarlo. Dovevo rendermi conto che era impossibile». C’è un inviato della Rai, Roberto Pozzan, che non sa come fare per fermare il suo pianto. Se vuole andiamo, sussurra. E lei, «vi prego no. Non posso farlo con i miei bambini. E anche con Stefano perché lui soffre di più. Mi lasci sfogare». Un camioncino di legno, con la gru, «l’ultima cosa che abbiamo fatto assieme. Non ci lascio giocare nessuno, neanche Gioele». Lo tiene sopra il caminetto. Ecco. Singhiozza. C’è Samuele che sorride su una poltrona. Era l’Epifania 2002. Lui voleva dare il biberon a un cuginetto. «Io gli ho detto: aspetta. Sono corsa a prendere la macchina e gli ho fatto la foto». L’ultima foto sua. Poi la vita è cambiata, e non ci sono più foto.
Pierangelo Sapegno