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 2013  gennaio 03 Giovedì calendario

Borse felici, ieri, per via dell’accordo che negli Stati Uniti ha evitato il cosiddetto fiscal cliff o baratro fiscale

Borse felici, ieri, per via dell’accordo che negli Stati Uniti ha evitato il cosiddetto fiscal cliff o baratro fiscale. Nessuno ha fatto caso, tra gli operatori, al fatto che sostanzialmente democratici e repubblicani hanno rinviato la faccenda di due mesi e che dunque il precipizio non è per niente evitato. In ogni caso: per noi la notizia più bella è la discesa dello spread a 283 punti, meglio dell’auspicio di Monti, che puntava a 287, numero fortemente simbolico dato che, nel giorno del suo ingresso a Palazzo Chigi, lo spread valeva esattamente il doppio. In Borsa sono andati forti i bancari, come sempre quando lo spread scende: le nostre banche sono piene di Btp, e la discesa del differenziale con i Bund tedeschi li rende più solidi, quindi più cari. Teniamo conto che lo spread al 31 dicembre era ancora a 320. Milano ha chiuso a +3,81; Londra a +2,2; Parigi a +2,55 eccetera eccetera. Tutte le piazze sono andate forte, a cominciare da quelle asiatiche, le prime ad apprezzare l’intesa americana, raggiunta nel cuor della notte

Resta che abbiamo bisogno di una rinfrescata su questo fiscal cliff. Lo so che lo ha già spiegato…
Prendiamola alla lontana. Al tempo dei tempi ogni volta che il governo Usa si voleva indebitare doveva andare in Parlamento e chiedere il permesso. La cosa, specie a un paese dinamico come gli Stati Uniti, sembrò a un certo punto troppo farraginosa. Nel 1917 si decise di cambiare metodo: il Parlamento avrebbe fissato un tetto e fino a quel tetto il governo avrebbe potuto contrarre debiti a suo piacimento. Solo per infrangere quel limite ci sarebbe stato bisogno del sì di Camera e Senato. Nel corso dei decenni, la cosa è filata liscia come l’olio. Tanto per dire: da Truman in poi (1945-1953) tutti i presidenti hanno chiesto e ottenuto che il tetto venisse innalzato. Reagan 18 volte, Clinton 8, George Bush jr. 7, Obama 4.  

Come mai gli americani, così ricchi, hanno bisogno di indebitarsi?
Ma gli americani vivono al di sopra dei propri mezzi come tutto l’Occidente, concetto che fatica a entrare nelle teste di tutti noi. Ogni volta hanno bisogno di soldi per pagare, tra l’altro, gli stipendi pubblici, le spese della difesa, quelle della scuola ecc. Con quello che resta, rimborsano poi il debito in scadenza. Oggi hanno 16.394 miliardi di dollari, otto volte più debiti di noi, senza il nostro welfare e con una popolazione che è sei volte la nostra. Il loro Pil è in gran parte determinato dai consumi, i loro principali creditori sono cinesi e giapponesi, eccetera eccetera. Non mi faccia cambiare discorso. Stavamo parlando del fiscal cliff.  

Andiamo avanti.
Con Obama s’è verificata la condizione di una Camera a maggioranza repubblicana e un Senato a maggioranza democratica. Nel 2011 il presidente aveva bisogno di un tetto più alto all’indebitamento e i repubblicani ne hanno approfittato per fare a Barack lo stivaletto malese. Gli Stati Uniti sintetizzano mirabilmente i nostri concetti di “destra” e di “sinistra”. I repubblicani (destra) non vogliono tasse e dicono che lo Stato deve spendere meno, ritirandosi dal gioco del mercato e tagliando la spesa pubblica. I democratici (sinistra) insistono sulle tasse, specialmente per i più ricchi, e per finanziare un minimo di welfare. Il democratico Obama ha vinto le elezioni promettendo di aumentare la pressione fiscale sull’1% più ricco della popolazione. Il repubblicano Bush restò alla Casa Bianca tra il 2001 e il 2008 inzeppando di agevolazioni quelli che avevano più soldi. C’era il pericolo del fiscal cliff anche l’anno scorso, e Obama ne uscì concordando un pacchetto-monstre di tagli e tasse che sarebbero scattati automaticamente il 1° gennaio del 2013 se democratici e repubblicani non avessero trovato un nuovo accordo. Il tetto del debito venne fissato a questi ormai famosi 16.394 miliardi, livello che è stato raggiunto la notte del 31 dicembre.  

Come ne sono usciti?
In realtà hanno rinviato il problema di due mesi, e sono già all’opera per tentare un nuovo accordo. Per ora sono stati stangati i redditi individuali sopra i 400 mila dollari l’anno e quelli delle famiglie superiori ai 450 mila dollari (passano da un’aliquota del 35% a una del 39,6%). Tagli consistenti alla sanità pubblica (Medicare). Per ora restano gli sgravi fiscali al ceto medio. Ma, alla fine di febbraio, senza un accordo, verranno tagliati automaticamente servizi sociali e istruzione (cari ai democratici) e investimenti sulla difesa (cari ai repubblicani). I calcoli sono controversi, ma l’insieme di questi automatismi manderebbe a quanto pare il Paese in recessione e determinerebbe un calo del Pil del 6%. Con conseguenze gravi sul resto del Pianeta: gli americani smetterebbero di comprare merci italiane, cinesi, tedesche eccetera.  

Di quali altre lezioni si può far tesoro osservando questa vicenda americana?
Come sempre, io sono impressionato dalla velocità con cui quel sistema prende le sue decisioni e dalla disponibilità di quegli uomini politici a lavorare (hanno passato a votare la notte di Capodanno). Inoltre: Obama deve governare con una Camera nemica, cosa che probabilmente si verificherà anche da noi tra poco. Questo però non paralizza il sistema e non fa venir voglia di cambiare la legge elettorale. L’opposizione è molto dura, ma non tanto dura da mandare tutto a remengo. Terza considerazione: è ovviamente illusorio pagare i debiti con i debiti, ed è ugualmente illusorio ragionare in termini di sviluppo infinito del Pil. L’intesa americana che ha evitato il fiscal cliff e l’euforia dei mercati nel primo giorno del 2013 non significano affatto che siamo fuori dalla crisi.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 3/1/2012]