La Gazzetta dello Sport, 5 novembre 2012
Obama è in vantaggio, anche se i sondaggi continuano a sputare pareggi o lievi preferenze per Romney
Obama è in vantaggio, anche se i sondaggi continuano a sputare pareggi o lievi preferenze per Romney. Potremmo persino azzardare il pronostico che il presidente in carica resterà alla Casa Bianca…
• Basandosi su quali elementi?
Basandoci su tre elementi piuttosto solidi: primo, gli allibratori inglesi sono certi che vincerà Obama, Paddy Power, uno dei più importanti del Regno Unito, avrebbe addirittura cominciato a pagare chi ha puntato su Barack, tanto la vittoria gli appare fuori discussione (gli scommettitori inglesi hanno puntato su Obama tre volte su quattro); secondo, l’ “Economist” e il “Financial Times”, benché conservatori e tradizionalmente più vicini ai repubblicani, hanno deciso di appoggiare Obama, di cui è stata soprattutto lodata la prudenza in politica estera e nella gestione della crisi; Romney, secondo i due grandi quotidiani, non ha invece idee molto chiare in economia; terzo, gli ultimissimi sondaggi assegnano Florida e Ohio a Obama. Come abbiamo già scritto ieri, non è tanto importante il computo delle preferenze nazionali, quanto la vittoria negli stati in bilico, dato che, col sistema maggioritario, chi vince anche per un solo voto in uno stato si prende il cento per cento dei suoi elettori. Le elezioni del 2012 da un lato potrebbero concludersi con un gigantesco contenzioso dovuto al risultato finale di quasi parità (come avvenne nel 2000 tra Bush jr. e Al Gore). Dall’altro, potrebbero far segnare il raro caso di un candidato che complessivamente ha preso più voti del suo avversario, ma ciononostante ha perso. È già successo, e dipende dal sistema elettorale maggioritario: le vittorie troppo larghe in un singolo Stato, quelle che sbancano il conteggio nazionale, sono del tutto inutili ai fini della vittoria finale.
• Senta, lo so che siamo tutti concentrati sul voto per la Casa Bianca, però, quasi contemporaneamente, si svolgerà a Pechino il 18° congresso del Partito comunista e pure lì ci sarà una rivoluzione ai vertici.
Ha ragione, anzi è saggio tenere d’occhio tutti e due gli eventi, e se possibile confrontarli. Non solo Cina e Stati Uniti sono le due principali potenze mondiali (il cosiddetto G2), ma le legano rapporti economico/finanziari piuttosto complessi e che alla fine influenzano la vita di tutti noi. Basti ricordare il ciclo dell’indebitamento americano: gli Stati Uniti chiedono soldi in prestito mettendo in vendita, come tutti, dei titoli a uno, cinque o dieci anni. Chi compra questi titoli, nella maggior parte dei casi? La Cina. La Cina dunque presta soldi agli Stati Uniti. E che cosa fanno gli Stati Uniti con i soldi ricevuti in prestito? Comprano, la maggior parte delle volte, merci cinesi. Questo giro, abbastanza pazzesco, ha riempito di dollari le casse di Pechino, per cui la Cina è seriamente interessata alle politiche finanziarie del suo dirimpettaio, perché non può permettere, per esempio, che il dollaro perda valore, evento che immiserirebbe anche le sue casse. Nello stesso tempo, vuole imporre sui mercati mondiali la sua moneta, lo yuan, o almeno una moneta virtuale che sia magari la media di altre monete mondiali escluso il dollaro. Tenga conto che per comprare petrolio, ancora adesso, bisogna rifornirsi di dollari…
• Tutto questo rende fondamentale il passaggio di poteri cinesi. Che cosa sappiamo?
Pochissimo, ed è il primo tratto distintivo tra le vicende cinesi e quelle statunitensi. Sappiamo praticamente tutto della competizione americano, poco più dei nomi in ballottaggio di quella cinese. I due nuovi potenti di quel paese si chiamano Xi Jinping, che diventerà presidente, e Li Keqiang, a cui toccherà la poltrona di premier. I due prenderanno in mano, per il momento, i vertici del partito e il prossimo marzo gli sarà assegnata la guida del Paese. Xi, piuttosto somigliante al giovane Mao, ha quasi sessant’anni, è figlio di un maoista della prima ora (Xi Zhongcun), ha sposato in seconde nozze una cantante, ha una figlia che forse studia a Harvard. È un liberale? Un conservatore? È troppo azzardato rispondere a queste domande e forse queste domande non hanno neanche senso: i due sono cooptati dal vecchio gruppo dirigente, dunque danno garanzie ai poteri cinesi e saranno in genere abbastanza cauti per promuovere solo i cambiamenti strettamente necessari e solo quando non più rinviabili.
• Su Li Keqiang non mi dice niente?
Li, più giovane di Xi, sarebbe un riformista, aperto a concessioni in campo sociale, favorevole a una ristrutturazione dell’economia del Paese… Mah, aspetterei prima di sottoscrivere queste righe della sua biografia ufficiale. Ha sposato una professoressa di Economia dell’Università di Pechino. Suo suocero era un pezzo grosso della gioventù comunista.
• Anche in Cina sono divisi tra progressisti e conservatori?
Sì, naturalmente. E cominciano ad avere problemi sociali seri. Il 10 per cento della popolazione controlla il 60 per cento della ricchezza, su internet – benché censuratissima – appaiono di continuo insulti della gente comune alla classe politico-burocratica, una classe notoriamente corrotta e prepotente. La fuga di capitali all’estero è incessante, i venti di una possibile rivoluzione generale soffiano pericolosamente, le illusioni egualitariste del passato sono tramontate per sempre. Noi guardiamo con attenzione e simpatia a Washington. Ma sarà bene, nello stesso tempo, non perdere d’occhio Pechino.
[Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 5 novembre 2012]