14 agosto 2012
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Ecco la sceneggiatura del film che John Huston aveva scritto sulla vita dell’attrice
• Nata il 1° giugno 1926, nel reparto di maternità dell’Ospedale di Los Angeles, Norma Jean fu accolta 12 giorni dopo in una casa nella vicina Howthorne. Fu messa nelle mani di Ida Bolender. Lei e suo marito Albert le fecero da madre e padre per otto anni. A dieci mesi, la violenza entrò nel mondo della piccola quando sua nonna, Della Monroe, impazzì.
• Raramente sola, Norma Jean visse però in un instabile mondo di parentele transitorie. Tredici fratelli e sorelle di latte venirono e andarono. Crescevano, apparivano, sparivano. Era difficile rendersi conto di cosa fosse reale, in che cosa aver fiducia, persino per quanto riguarda i genitori. Più tardi, è M. stessa che racconta, «una mattina mi rivolsi alla donna chiamandola “mamma” e lei mi rispose: “Non sono tua madre, chiamami... zia, magari”. Ma il solo a interessarsi di me era suo marito; così dissi: “Bene, allora lui è mio papà”. Ma lei disse: “No”». Verso i nove anni, Norma Jean andò a vivere con la sua vera madre che aveva potuto pagare una casa vicino all’Hollywood Bowl; il mobile di maggior pregio era un pianoforte bianco.
• Marilyn: «Noi abbiamo tenuto la casa solo per... circa... oh, non credo fossero più di tre mesi! Poi lei fu portata via, mia madre».
• John Huston: Il paradiso era perduto. Gladys Baker svanì dietro l’oscura barriera della malattia mentale. Oggi, una grigia, piccola donna gironzola sotto la guida di Inez Melson, la sua badante, nel sanatorio dove vive, grazie ai lasciti di Marilyn. Ma M. stessa, per lei, non è altro che un oscuro ricordo.
• La nuova casa di M. fu un orfanotrofio privato a Hollywood. Adesso era una bambina, sola, in mezzo ad altri 60 bambini.
• Il mondo di Norma Jean era monotono e confuso. Ma già nei suoi sogni a occhi aperti scintillavano le favolose torri del Grauman’s Chinese Theatre di Hollywood. Esternamente stava già imparando a essere ciò che gli altri volevano che fosse. La sua vera vita però si svolgeva in questo mondo interiore, del quale, come lei amaramente disse, «voi stessi tracciate i confini».
• Un’amica di sua madre, Grace McKee, divenne sua tutrice. Quando Grace sposò Ervin Doc Goddard portò Norma Jean nel loro ranch a Van Nuys. Ma tra le molte case nelle quali dovette vivere nei pochi anni seguenti, il suo più caldo ricordo rimase quello dei mesi passati con la zia di Grace McKee, Ana Lower. Zia Ana aveva preso per lei l’unico simbolo della vita con sua madre, il pianoforte bianco. Oggi qui, domani lì, sempre estranea, Norma riusciva comunque ad avere, a scuola, voti medi. Ma improvvisamente non fu più Norma Jean, la magrolina. Le ragazze le rivolgevano occhiate invidiose, i ragazzi fischiavano. Alle superiori Norma si rivelò molto vivace, le piaceva molto correre. Non prese però mai la licenza.
• James Dougherty, istruttore della polizia di Los Angeles, aveva 21 anni quando sposò la ragazza sedicenne che viveva in fondo alla strada.
• Jim Dougherty: «Ben e Grace dovevano amdare a Huntington, nel West Virginia, dove Doc era stato trasferito. Norma avrebbe dovuto tornare all’orfanotrofio, così mia madre e Grace pensarono che forse era una buona idea che io e Jean ci sposassimo. Mi pare che il giorno dopo o lo stesso giorno mia madre mi chiese se mi sarebbe piaciuto sposarla. Il pensiero che mi venne in testa fu: “È proprio una bambina, troppo giovane”. A 21 anni un ragazzo si sente già uomo fatto. Accettai, comunque, pur pensando che presto sarei dovuto andare al servizio militare. Ma lei sarebbe stata a casa con mia madre, finché io ero via. Si adattò molto bene a questa idea, per una ragazza di 16 anni. Credo pensasse che tutto questo era bellissimo. Io stesso lo pensavo. Era una buona cuoca e ricordo che le piaceva sempre mescolare carote con piselli, a causa dei colori, non perché le piacesse mangiarli, proprio solo per i colori. Apparivano belli sul piatto.
«Sapete, io non ho mai conosciuto Marilyn Monroe. Io ho conosciuto Norma Jean Baker, Norma Jean Dougherty. Ma Norma Jean e Marilyn erano due persone differenti. Norma era... mia moglie. Marilyn una famosa stella del cinema. Non le ho mai parlato. Proprio non l’ho mai conosciuta».
Quando venne la guerra, Dougherty andò nella marina mercantile. Norma Jean divenne operaia in un impianto di difesa. Lì la lampadina di un flash diede il via a un racconto meraviglioso. Cigno in mezzo alle altre operaie, fu scelta per una fotografia pubblicitaria del tempo di guerra. Quell’immagine trovò la strada fino a un’agenzia per modelle.
• J.H.: «Zelante, decisa a imparare. Norma ottenne rapidamente successo come modella. Il suo volto e il suo corpo erano stati scoperti, potevano essere il suo biglietto da visita per il mondo. Non era ancora del tutto la personalità che sarebbe stata poi, ma lavorava per diventarlo. Quando Dougherty fece obiezioni sulla nuova carriera, divorziò. Adesso era libera, aveva 20 anni e aveva trovato la sua strada. Nel 1946 la sua apparizione su cinque copertine di riviste in un mese la portò a un contratto con la 20th Century Fox. Riluttante, cambiò il suo nome per uno nuovo, Marilyn Monroe. Incontrò però subito molte difficoltà. Intrepida, non desistette dalla lotta. Finalmente negli Studios della Columbia lesse una parte e ottenne il ruolo di ingenua in una commedia musicale. Con Ragazze del coro M. si aggiunse alla lista senza fine delle starlets di Hollywood. Alcuni uomini presero a portarla da un night club a un altro, e anche la Columbia la trascurò. Fece un passo indietro e una breve apparizione in Love Happy con Groucho Marx. Per i primi tempi fu solo la bionda oca tutto sesso, un ruolo al quale non sarebbe più veramente sfuggita.
• «Groucho Marx: C’è qualcosa che posso fare per lei? Che situazione ridicola!
«Marilyn: Mr Grant, voglio che mi aiutate.
«Groucho Marx: Quale è il problema?
«Marilyn: Alcuni uomini mi seguono.
«Groucho Marx: Davvero? Non capisco perché!».
J.H.: «Benché la sua carriera non la portasse da nessuna parte, M. guadagnava importanti alleati. [...] Nel frattempo, però, era stata costretta ad accettare lavori ai margini del mondo teatrale.
Fu durante quei giorni di fame che il fotografo Tom Kelly scattò le immagini diventate poi famose in tutto il mondo: il calendario con i nudi di Marilyn».
Tom Kelly: «Quando le chiesi per la prima volta di fare questa foto, lei si rifiutò. Ma dopo averci pensato su per qualche giorno, tornò da me e disse: «Io ... io vorrei farlo». Penso che questa decisione fosse in parte un favore. Le avevo fatto un piacere tempo prima, e poi lei aveva veramente bisogno di denaro in quel periodo. Questa è una negativa del calendario di Marilyn, del quale furono vendute otto milioni di copie. È stata proprio una gran bella fotografia, ma io ne do tutto il merito a lei!»
J.H.: «Nel 1949 era a un passo dall’essere dimenticata. Ma allora interpretò la parte della mantenuta nel film Giungla d’asfalto, film che io diressi, e ne scaturì una scintilla: tra lei e gli spettatori. Ricordo che mi impressionò più sullo schermo di quanto lo avesse fatto fuori. Emanava qualcosa di sconvolgente e di supplichevole al tempo stesso. E questo, naturalmente, fu quello che la gente alla fine vide sullo schermo, ciò che li commosse.
«Così da quel momento, in pochissimo tempo, cominciarono i gossip, le esibizioni, evviva, la pubblicità. Per rilanciarla, fu inventata la star “fabbricata a tavolino”, il suo bellissimo corpo fu continuamente messo in mostra.
«Nei quattro anni seguenti, M. recitò, danzò e cantò in 16 film di sempre maggior importanza. Il suo ruolo restava sempre lo stesso, la bionda svampita. Le riviste la trattavano come un capriccio, un divertimento. Ma la sua popolarità crescente riuscì a riflettersi in una successione di premi».
• Uno della American Legion Award: «È con onore, orgoglio e piacere che le consegno questo diploma».
Marilyn: «Grazie».
• Lauren Bacall: «Ho il piacere di offrirle il premio Look per la migliore nuova attrice del 1952».
Marilyn: «Grazie, Lauren».
• Nicols: «Come la migliore giovane personalità, Miss Marilyn Monroe».
Marilyn: «Grazie, Mr Nicols».
• Sims: «Marilyn Monroe, gli spettatori di cinema d’America, hanno votato per lei come la più popolare attrice dell’anno. Le mie congratulazioni».
Marilyn: «Grazie, Mr Sims».
J.H.: «Il fanatismo ha trasformato un marciapiede nel pantheon degli dei di Hollywood. Adesso, con Jane Russel, Norman Jean ritorna al Grauman’s Theatre. Come l’eroina delle sue fantasie di ragazzina, Marilyn affida la sua immortalità al cemento.
«Un altro eroe invece era già immortale: Joe Di Maggio, campione di baseball dei Yankee Clipper, che Marilyn chiamò sempre “Il mio pigrone”. Dopo un primo appuntamento a Hollywood, egli la seguì nei teatri di prosa, tra la curiosità asfissiante dei giornalisti a caccia di pettegolezzi. Di Maggio voleva sposarsi. I giorni della gloria erano dietro di lui, sognava ora di sistemarsi.
«Avrebbe scoperto che i giorni di successo e acclamazioni per M. erano appena cominciati. Il loro matrimonio fu un evento internazionale. La loro luna di miele, che li portò in Giappone, diede un colpo alla loro vita privata, sconvolta dalla serie di rumorose accoglienze. Mentre Di Maggio rimase solo a Tokio, Marilyn andò a intrattenere le truppe in Corea. Onde di frenetica adorazione salivano attorno a lei. Ciò costituiva, come lei stessa disse, un abbraccio.
«Dopo il ritorno a Hollywood, il ritmo veloce della carriera portò M. a interpretare il ruolo principale nel film Quando la moglie è in vacanza. I riflettori da diva del cinema fecero impallidire la domestica, modesta cena a lume di candela che Di Maggio avrebbe voluto. Per Marilyn era più facile piacere alla folla. L’invocazione della silenziosa infanzia di Marilyn era stata: “Guardatemi! Vedetemi! Sono una persona!”. Adesso tutti potevano vederla e bene in alto. Ma era ormai un’altra persona.
• Joe Di Maggio dopo soli nove mesi di matrimonio, divorziò davanti alla folla di microfoni e alle macchine fotografiche della stampa, frettolosamente chiamata a raccolta dal capo del servizio pubblicità della Fox, presso l’avvocato di Joe Di Maggio. Di Maggio lasciò ogni dichiarazione a Marilyn che a sua volta lasciò la parola al famoso consulente di Hollywood, Jerry Giesler.
M. stava imparando che il pubblico è una creatura possessiva e selvaggia; accarezzatelo e farà le fusa; respingetelo e potrà divorarvi. Avrebbe invaso l’ultimo rifugio della sua vita privata, avrebbe considerato le sue angosce come una sciarada, sarebbe comparso davanti al suo letto di morte... Marilyn avrebbe udito ancora il ruggito della fiera.
Alla 20th Century Fox si stavano creando tensioni tra gli studios e l’attrice. La bionda svampita cominciava a non interessare più ma la produzione non vedeva ragioni per cambiare. Marilyn si sentì prigioniera di una stupida maschera sessuale. Lei era una persona, ripeteva, non una merce.
Nel dicembre del 1954, chiedendo la rottura del contratto, M. fuggì a New York e si rifugiò presso il fotografo Milton Greene e sua moglie. Fresca come un blocco di argilla che ognuno avrebbe voluto modellare e a cui si sarebbe voluto dare impronta e forma, Marilyn aveva trovato un nuovo Pigmalione. Come partner nella sua nuova società, Greene cominciò a creare la «nuova Marilyn».
L’attrice ne emerse in qualche modo più libera, più aperta e semplice. Senza trucco, spesso sembrava una ragazzina. New York era una scoperta. Aveva cominciato le penose, intime giornate presso lo psicanalista e ora stava timidamente frequentando il rinomato Actor’s Studio. I suoi attori «residenti» divennero la sua nuova famiglia. Il suo direttore, Lee Strasberg, e sua moglie Paula le figure familiari che d’allora in avanti avrebbero dominato la sua carriera.
Lee Strasberg: «M. aveva sempre sognato di diventare attrice. Non sognava così, per caso. Voleva essere una vera interprete, e aveva sempre vissuto con questo sogno. E questa è la ragione per cui, benché fosse una delle più eccezionali ed eminenti attrici di tutti i tempi, non fu mai soddisfatta. Quando arrivò a New York cominciò a intravedere una possibilità concreta di realizzare il suo sogno: diventare, appunto, una vera attrice. Quando era qui allo Studio sedeva sempre allo stesso posto, che era lì nell’ultima fila».
J.H.: «Marilyn stava imparando che le esperienze della sua infanzia non l’avevano distrutta. Capite ed accettate, potevano diventare parte del suo linguaggio di attrice, della sua identità come persona.
«Se mai ci fu calda estate nella vita di M. fu proprio quella che stava cominciando. Incontrò famosi autori e artisti, molti dei quali divennero suoi amici.
«Carl Sandburg era un compagno devoto; Edith Sitwell chiacchierava volentieri con lei; Truman Capote ballava con lei. Lo scrittore Arthur Miller le diede una lista di letture, spiegandole le parole difficili e disse di lei: «È viva». Dopo 14 mesi M. ritornò a Hollywood per recitare la parte della cantante nel film Bus Stop, un’interpretazione che le procurò lodi entusiastiche. La Fox le aveva incredibilmente poi fatto importanti concessioni.
«Cinque mesi più tardi si diffuse per New York un annuncio improvviso: Arthur Miller aveva scambiato il ruolo di insegnante per quello di innamorato e marito. Angoloso, serio, Miller non sembrava l’eroe gentile che aveva perso la testa per la dea del sesso. Gli scettici li chiamarono il gufo e la gattina, e pronosticarono per il matrimonio una breve vita. Ma il gufo era rapito e la coppia era affiatata.
«Chissà se nei genitori Miller, Marilyn trovò un affetto sicuro e durevole. Lei e Arthur fecero in modo di celebrare non un solo, tranquillo matrimonio, ma due: uno civile e uno ebraico. Determinata a essere una moglie completa per Arthur, lei prese lezioni sulla religione ebraica, imparò il giardinaggio e perfino a cuocere la zuppa di pollo.
«La felicità dell’unione fu interrotta dagli impegni professionali. Con Miller Marilyn volò a Londra, dove la bionda svampita di Hollywood sarebbe apparsa nella sua stessa produzione, il film Il principe e la ballerina, col celeberrimo attore inglese Laurence Olivier.
« Tra Marilyn e Olivier, che era anche il regista, si creavano di tanto in tanto momenti di tensione. Ma ciò che il mondo vedeva sullo schermo e sui giornali sembrava uscito dai racconti delle fate. Come in un valzer, Marilyn turbinava sempre più in alto, sempre più veloce, finché, come in tutti i racconti delle fate, l’orfanella incontrava la regina. Sembrava anche, a differenza dei racconti di fate, che l’orologio non avrebbe mai battuto la mezzanotte».
• «Ritornati a Londra, i Miller presero casa non a Hollywood ma a New York. Nel loro appartamento sull’East River, Marilyn si accinse al ruolo di padrona di casa, e spesso passeggiava nel giardinetto lì vicino, invaso di bambini e bambinaie. «I bambini sentivano il suo amore all’istante», diceva il marito. Di fatto, sperava di poter avere lei stessa dei figli.
«Ma calò come un’ombra oscura. [...] Alcuni aborti scossero la sua fede, rinnovarono le antiche paure. All’inizio della sua carriera, M. si era affidata ai barbiturici per dormire, [...] adesso cercava sempre più una pietosa anestesia.
«Cadute le sue speranze di diventare madre, decise di tornare al lavoro, in una commedia: A qualcuno piace caldo. L’entusiasmo iniziale fu presto scosso dall’indecisione di Marilyn e dal suo bisogno di rifare continuamente le scene. [...] Imprecisa o no, la sua rappresentazione fa un nuovo successo. Nella parte dell’eroina che dava la caccia a Tony Curtis credendolo un milionario, la «bionda oca» impersonata da Marilyn si rivelò un’invenzione profondamente comica invece del solito cliché. Col marito che non sorrideva mai, alla prima di Some Likes it Hot Marilyn si pavoneggiò davanti ai fan. Aveva ragione. Il film fu un successo. Lei ottenne il dieci per cento degli incassi. La vita con Marilyn, però, comportava una serie di difficoltà. «Era», dice Miller, «come vivere nella vasca dei pesci rossi». Avendo avuto così poco affetto nella sua infanzia, il bisogno da parte di M. era distruttivo e sfinente. M. fece costruire per Miller uno studio isolato dai rumori, ma in cinque anni egli portò a termine solo un lavoro, il soggetto per un film che io diressi in Nevada nella calda estate del 1960: The Misfits.
«Nella pellicola M. recitò accanto a un veterano del cinema, Clark Gable, il “re”, il cui ultimo film sarebbe stato proprio questo. Ci furono momenti di allegra tenerezza. M. stessa aveva bizzarre qualità infantili, qualcosa di innocente e di puro. Ma il tempo e la vita le avevano fatto considerevoli danni. Prendeva talmente tante pillole per dormire che al mattino era costretta ad assumere degli stimolanti per svegliarsi, e questo la devastava. Infine crollò e dovetti mandarla in ospedale per una settimana, prima di poter riprendere a girare. L’eroina di Miller, naturalmente, somigliava molto a Marilyn. [...]
• «Marilyn: Perché lo uccide?
«Gable: Sta lontana, tesoro.
«Marilyn: Va bene, avete vinto... avete vinto!
«Gable: Andiamo con quella fune... va via! Avanti Keeto... sta zitta e tira quel cavallo!
«Marilyn: Assassino! Assassino! Sei felice solo quando puoi vedere qualcosa di morto. Perché non uccidi te stesso per essere felice? Tu e il tuo dio! Ti odio... orribile uomo... assassino! Ti odio!»
• J.H.: «The Misfits divenne l’epitaffio di Miller. Seguì un divorzio messicano, voci di suicidio tentato da Marilyn. Nei mesi successivi, fu ricoverata due volte in ospedale psichiatrico. All’uscita, dovette affrontare la sfida della stampa.
• Marilyn: «Mi sento molto meglio, adesso, grazie».
Intervistatore: «Bene».
• J.H.: «Marilyn fuggì in Florida. Nei mesi della sua crisi, un vecchio amico era riapparso al suo fianco. Protetta da Joe Di Maggio, M. cercò di ritrovare le sue forze.
«Si sentiva stanca. [...] E adesso davanti a lei l’ultimo film in cantiere per la Fox sembrava invalicabile come la cima dell’Everest.
«M. ritornò a Hollywood e, incoraggiata dalle cure presso un nuovo psicanalista, comprò una casa. Mrs Eunice Murray, incaricata dal dottore di M. come assistente e compagna, aiutò M. ad arredarla.
«In aprile, in un’atmosfera di cauto ottimismo, Something’s Got to Give cominciò a essere girato dalla Fox. Ma improvvisamente ripresero le vecchie storie. Col pretesto di varie malattie M. stava lontana dal lavoro. Apparve però alla festa di compleanno del presidente Kennedy al Madison Square Garden.
• Peter Lawford: «Signor Presidente, in occasione del suo compleanno, questa bella signora si è rivelata non solo affascinante ma anche puntuale.
«Signor Presidente... Marilyn Monroe. Una donna che non ha bisogno di presentazioni. Lasciatemi però almeno dire: «Eccola». [...] Nella storia dello spettacolo non c’è forse mai stata una donna che abbia significato tanto, che abbia fatto di più, signor Presidente, Marilyn Monroe... in ritardo!».
• Marilyn: «(canta gli auguri al Presidente) Grazie, signor Presidente, per tutte le cose che avete fatto, per le battaglie che avete vinto, per il modo in cui avete fortificato gli Stati Uniti e per come avete trattato i nostri problemi. Vi ringraziamo moltissimo. Tutti. Felice compleanno.
«Annunciatore: Signore e signori, il Presidente degli Stati Uniti!
«John Kennedy: Grazie. Posso adesso ritirarmi dalla vita politica dopo aver avuto un Happy Birthday cantato in maniera così dolce e sincera».
• J.H.: «Due settimane più tardi, dopo altre assenze, la Fox fermò la produzione e intentò causa. Su 31 giorni di lavorazione, Marilyn era apparsa sul set solo 12. [...] Mentre il suo avvocato cercava di rimediare alla rottura con la Fox, il suo psichiatra la vedeva giornalmente. Marilyn tentò di reagire, concesse alcune interviste, ma i suoi umori cambiavano rapidamente. Flaconcini di pillole riempivano il suo tavolino da notte. In sei settimane spese 2.300 dollari tra parrucchiere ed estetista, per affrontare sia le interviste sia le cene con amici. Più facilmente passava le giornate in uno stato di continuo assopimento.
«Il 4 agosto alle otto e mezzo Marilyn diede la buona notte a Mrs Murray e si ritirò col suo telefono privato. All’insaputa del suo psichiatra, aveva 25 pillole di Nembutal. Nelle ore successive le avrebbe prese tutte.
• Signora Murray: «Circa un’ora più tardi, ci fu una chiamata telefonica da parte dell’avvocato di Marilyn. Mi chiese se M. stesse bene e io risposi: «Sì, per quanto ne so». La luce nella sua camera era accesa, il cordone del telefono passava sotto la porta e questi erano segni che lei era ancora sveglia. Verso le due del mattino, quando vidi che la luce era ancora accesa nella sua camera, il mio primo pensiero fu che qualcosa non andava. Perciò provai ad aprire la porta, ma era chiusa. Bussai alla porta chiamando Marilyn per nome parecchie volte, ma non ottenni risposta».
• J.H.: «Non ci fu risposta. Alle 3.35 il dottore dichiarò la sua morte. Poi, subito, i reporter, le domande. Marilyn era sempre vissuta sull’orlo di un precipizio, ma vi si era gettata o vi era caduta? Il verdetto ufficiale fu consegnato al coroner».
• Coroner: «Miss Monroe era sofferente di disturbi psichici da lungo tempo. Aveva espresso il desiderio di smettere, di ritirarsi e persino di morire. In più di un’occasione, nel passato, aveva tentato il suicidio ingerendo sedativi. Dalle informazioni raccolte sugli avvenimenti della sera del 4 agosto, è nostra opinione che lo stesso tentativo fu ripetuto e che non fu soccorsa. È nostra opinione che si tratti di un caso di probabile suicidio».
• J.H.: «Nelle strade silenziose, la folla attende. Al cimitero, Lee Strasberg legge l’orazione funebre».
• Strasberg: «Marilyn Monroe era una leggenda. E io non ho parole per descrivere un mito e una leggenda. Non ho mai conosciuto questa Marilyn Monroe. Noi siamo riuniti qui oggi per ricordare la vera Marilyn, una persona calda, impulsiva e timida, sensibile nella sua paura di non essere accettata, ma sempre avida di vita e tesa verso la sua realizzazione».
• J.H.: «Il corteo funebre era costituito da un insieme di persone estranee, i suoi ultimi consulenti professionali, poche, rare figure del passato. Come le disperse parti della sua vita, uno conosceva a malapena l’altro. Marilyn era morta a 36 anni, in cammino verso un destino che non avrebbe mai raggiunto. Stava cercando di realizzare il più antico dei sogni, essere se stessa e non aver paura. [...] Norma Jean, così ricca di sogni, vive ora nei sogni degli altri. Nel corso della sua vita questa specie di adorazione non le fu sufficiente. Tra i suoi oggetti quotidiani vi era solo un pezzo anomalo [...]: il pianoforte di seconda mano comprato da sua madre, simbolo di un’infanzia mai vissuta».
Marilyn canta I Want to Be Loved by You.
• J.H.: «Altre sono state bellissime e subito dimenticate. Ma Marilyn era una donna infelice. Forse ci commuoveva perché noi, suoi possibili soccorritori, avremmo voluto metterla in guardia contro ciò che lei in fondo sapeva: che siamo sempre vulnerabili nei nostri sogni e che anche le bambole possono morire».
Marilyn canta I Want to Be Loved by You.