5 luglio 2012
Un monaco sporco, volgare, intrigante, assetato di potere, sensuale e violento
Corriere della Sera, 8 aprile 2008
Rasputin è rivalutato nella corte di Putin. Effettivamente chi meglio di quel monaco sensuale incarnava i valori mistico-slavofili della vecchia Russia, gli stessi di Tolstoj e Dostoevskij? La sua stessa morte, tramata dall’ala più europeista della nobiltà, sembra avere tragicamente profetizzato la caduta di quel mondo. Mi chiedo come sia stato possibile per un uomo venuto dal nulla, in fondo armato solo del suo carisma, diventare fidato consigliere dello zar. Che cosa temevano i congiurati appartenenti all’aristocrazia liberale?Filippo Testa
filites@tiscalinet.it
Caro Testa,
Non credo che Putin voglia rivalutare la memoria del terribile monaco che sembrò dominare per qualche anno la vita pubblica russa. Rasputin, ormai, è soltanto una pagina assurda e folcloristica dell’era zarista. La sua straordinaria popolarità a corte fu dovuta al «male dei re», l’emofilia, che affliggeva sin dalla nascita lo zarevic Alessio. Bastavano un piccolo taglio o una brutta caduta durante una corsa nei giardini imperiali perché l’emorragia divenisse incontrollabile. Durante una delle crisi più gravi, mentre i dottori sembravano incapaci di salvare il piccolo principe, la granduchessa Malica (sorella di Elena del Montenegro, regina d’Italia) suggerì all’imperatrice Alessandra di tentare la sorte con un monaco che aveva la fama di essere un miracoloso taumaturgo.
Quando Rasputin arrivò a corte, Alessandra fu colpita dai suoi occhi e dalla straordinaria combinazione di dolcezza e fermezza che sembrava emanare dal suo sguardo. Le sembrò un uomo del popolo, semplice, naturale, brusco, ma ispirato da Dio e capace di grandi affetti. Il monaco si sedette accanto ad Alessio e cominciò a raccontargli vecchie favole russe: il cavallo con la gobba, il cavaliere senza gambe e quello senza occhi, l’imperatrice infedele che diventa un’anitra bianca, la strega Baba Jaga. Alessio dimenticava il dolore, le ferite che non si rimarginavano, i dottori spaventati intorno al suo capezzale quando nessuno riusciva ad arrestare le sue emorragie. Il «miracolo » si ripetè durante una visita in Polonia nel 1912 quando Alessio fu vittima di un’altra crisi. I dolori allo stomaco erano insopportabili e ogni più piccolo movimento era, per il suo piccolo corpo, una insopportabile tortura. Rasputin, allora, era in Siberia. Alessandra gli mandò un telegramma e gli chiese di pregare per lo zarevic. Poche ore dopo ricevette la sua risposta: «Dio ha visto le vostre lacrime e ascoltato le vostre preghiere. Non addoloratevi. Il Piccolo non morirà. Non permettete ai dottori di infastidirlo troppo». Poche ore dopo Alessio cominciò a migliorare. Il giorno seguente l’emorragia fu arrestata. Da allora Rasputin divenne l’eminenza grigia della corte imperiale, il consigliere segreto a cui Nicola II e Alessandra affidavano persino delicati incarichi politici.
Peccato tuttavia che il monaco taumaturgo fosse, agli occhi di coloro che ebbero occasione di incontrarlo, alquanto diverso. Era sporco, volgare, intrigante, assetato di potere, sensuale e violento. La polizia raccoglieva spesso le confessioni di donne piangenti che gli avevano fatto visita per chiedergli una grazia e lamentavano di essere state toccate, spogliate, violentate. Nei salotti di Pietroburgo si cominciò a mormorare che il monaco aveva plagiato la famiglia imperiale ed esercitava una intollerabile influenza sugli affari pubblici del Paese. Ma la protezione di Alessandra e Nicola gli garantiva una sorta d’impunità. Le circostanze cambiarono durante la Grande guerra. I circoli dell’aristocrazia nazionalista, guidati dal principe Jusupov, poterono sostenere che Alessandra, nata tedesca ma convertita all’ortodossia, tramava nell’ombra a favore della sua vecchia patria e che Rasputin era un agente del Reich guglielmino. Attirato una sera nel palazzo di Jusupov, il monaco fu dapprima avvelenato, poi ucciso a colpi di pistola, e il suo corpo fu gettato in un canale. Affranti, Alessandra e Nicola vollero che venisse sepolto in un angolo boscoso del grande parco imperiale di Tsarskoe Selo. L’imperatrice chiese che nella bara venissero collocate una icona firmata da tutti i membri della famiglia e una lettera di suo pugno che diceva, a quanto pare: «Caro martire, dammi la tua benedizione e fa che rimanga sempre con me lungo la triste e desolata via che ancora dovrò percorrere in questo mondo. E ricordami da lassù nelle tue sante preghiere». Si dice che dopo la rivoluzione di febbraio del 1917 un gruppo di militari ammutinati sia entrato nel parco, abbia dissotterrato la bara, buttato i resti di Rasputin su una pila di rami d’albero e appiccato il fuoco dopo averli cosparsi di benzina. Si sparse la voce che il cadavere abbia bruciato per sei ore e che soffiasse nel frattempo un gelido vento.
Sergio Romano