18 luglio 1978
Vincitori e vinti (I retroscena delle elezioni)
Panorama, 18 luglio 1978
Abito bianco, in mano il cappello con la tesa, pipa in bocca, Sandro Pertini si aggirava brontolante per i corridoi di Montecitorio. Ce l’aveva col segretario del suo partito Bettino Craxi, che, secondo lui, aveva assai gradito la sua rinuncia alla candidatura per il Quirinale, formalizzata un paio d’ore prima alle due del pomeriggio di giovedì 6 luglio.Commenti a voce alta si era rifiutato di farne: aveva solo chiesto, dopo aver annunciato la sua imminente partenza per la Francia, stanco di giochi tortuosi e snervanti, di rivedere la registrazione televisiva con Craxi che annunciava il suo ritiro. E davanti al monitor, non aveva resistito, beffardo, a tirar fuori di tasca, con un sorriso, un fazzoletto di lino e portarlo agli occhi come per asciugarli, nel sentire il segretario socialista esprimere rammarico per la rinuncia. «Ma l’avete sentito?», aveva poi esclamato, infuriato, e di passo svelto se n’era andato via.
Nemmeno ventiquattro ore dopo, il segretario del Psi, forse ancora incredulo anche lui, si precipitava a casa sua, vicino alla fontana di Trevi, per bloccarlo e dirgli che proprio lui, Sandro Pertini, 82 anni, stava per diventare il primo presidente socialista della Repubblica, con i voti quasi di tutti: solo l’estrema destra si era rifiutata di approvare il suo nome. Era la fine a sorpresa della lunga guerra del garofano per il Quirinale: dieci giorni di rancori, colpi bassi, polemiche, ma soprattutto di aspri scontri politici con in palio equilibri di governo, alleanze storiche, complessi rapporti fra i gruppi.
Dietro le apparenze di una battaglia sui nomi, per dieci giorni si è giocata una partita incandescente fra linee politiche contrapposte: l’unità fra le forze politiche contro le suggestioni di alleanze senza i comunisti; la riaffermazione dell’individualità socialista contro le tentazioni di un innaturale raggruppamento di democristiani e Pci; le velleità di riaffermazione di un’egemonia integralista dc contro le riequilibrate alleanze volute con paziente decisione soprattutto da Aldo Moro.
Che cosa ha voluto dire l’elezione di Sandro Pertini? Chi ha vinto? Chi ha perso? Qual è, insomma, il vero bilancio della battaglia e quali sono stati i veri protagonisti? Panorama ha cercato di ricostruirlo.
Il trionfatore. Appena si è insediato al Quirinale, tra fanfare, corazzieri e bandiere, sotto il sole di domenica 9 luglio, tutti l’hanno subito ribattezzato il papa Giovanni laico. Schietto, alla mano, irascibile quel che basta, una storia da medaglia d’oro alle spalle, migliaia di ricordi puntuali di carcere, confino e antifascismo, onesto e puntiglioso, Sandro Pertini, nuovo capo dello Stato, sa anche essere prudente.
Sabato 8 è rimasto a lungo assorto, nel suo attico sulla piazza della fontana di Trevi, per trovare la formula giusta per indirizzare un saluto al suo predecessore dimissionario, Giovanni Leone, che al mattino aveva lasciato il suo rifugio delle Rughe per venire a votarlo presidente. Ha telefonato un po’ in giro, ha chiesto consiglio ai leader politici più fidati. Poi, dopo un po’ di riflessione, ha trovato la formula perfetta: un pensiero all’ex-presidente che ora se ne sta, ha scritto, in «amara solitudine». Un dato di fatto indiscutibile.
«L’immagine di un Pertini troppo impulsivo, che molti propagandano, non è esatta», spiega l’ex-segretario del Psi, Giacomo Mancini, che dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica è stato uno dei registi. «È un uomo anzi che sa prendere bene le misure. Ha sempre avuto, e il suo successo lo dimostra, i rapporti politici giusti: vero socialista autonomista, spesso in polemica aspra con il Pci, non si è mai tinto di anticomunismo. Un suo chiodo fisso è sempre stata l’unità delle sinistre. Così come ha sempre considerato un rapporto necessario quello fra i cattolici e i socialisti. La correttezza dei suoi modi personali gli aveva consentito, per esempio, di avere ottimi contatti anche con Alcide De Gasperi, oltre che, più recentemente, con Giulio Andreotti». Un successo quindi per la politica di unità nazionale. E questa certo l’etichetta che il Psi, assieme a Pci, Dc e a tutti gli altri partiti, alla fine concordi nel voto dopo giorni d’at- tacchi reciproci, hanno messo ufficialmente sull’operazione Pertini.
Gli strateghi segreti. Ma chi ha portato veramente Pertini al trionfo (832 voti a favore su 955 elettori presenti: un record in 30 anni di Repubblica)? La sera di venerdì 7 luglio, appena è stato chiaro che per lui l’elezione a capo dello Stato ormai era cosa fatta, subito sono fiorite le leggende: è stata una corsa di leader noti e meno noti a mettersi in fila per attribuirsi il merito dell’operazione.
In realtà i veri manovratori non sono stati più di quattro o cinque:
Giacomo Mancini, Pertini in persona, un pizzico di Alessandro Natta, un po’ di Gian Carlo Pajetta e una spinta finale (ma molto finale) di Giulio Andreotti. Oltre, naturalmente, all’intervento, talvolta controverso e, nel momento decisivo, a tratti forse anche distratto, dell’alta dirigenza Psi, da Craxi a Claudio Signorile a Gianni De Michelis.
Il primo a fare in pubblico il nome di Pertini come possibile presidente della Repubblica era stato Mancini il 21 giugno in una intervista al quotidiano Paese sera. Il nome era piaciuto subito ai comunisti. Pajetta era corso in piazza del Gesù a chiedere a Zaccagnini, alla vigilia dell’inizio delle votazioni a Montecitorio, di schierarsi a favore di Pertini, Anche Pertini si era dato da fare: Craxi l’aveva inserito ufficialmente nella rosa dei candidati Psi e lui era andato a trovare Zaccagnini, si era incontrato con molti comunisti. Per la Dc certo era presto per decidere: ma a Zaccagnini, ricorda Pajetta, Pertini non dispiaceva, anzi lui personalmente diceva di sì. Ma il partito era incerto: un socialista al Quirinale non era proprio detto che andasse bene.
I comunisti avevano fatto circolare il nome. Si erano associati i radicali, Democrazia proletaria, Pdup. Ai socialdemocratici non andava male. E Craxi? Aveva proclamato a ripetizione che un socialista al Quirinale doveva proprio andarci. «Sarebbe contento», fu chiesto al segretario socialista, «se Pertini fosse eletto?». «Contento e anche commosso», ribatté pronto Craxi. Pertini lo seppe e commentò malizioso: «Speriamo che la commozione non sia così grande da mettere in difficoltà il partito».
Domenica 2 luglio a mezzogiorno Craxi lanciò ufficialmente la candidatura Pertini: era lui il personaggio da votare. A sinistra, annotava il leader socialista, lo vogliono tutti: che lo voti amichevolmente allora anche la Dc. I comunisti sussurrarono che questo era un sistema per bruciare Pertini, presentato come uomo delle sinistre da imporre alla Democrazia cristiana, Pertini sa della dichiarazione del suo segretario e corre a cercare per telefono Flaminio Piccoli, presidente dei deputati dc: gli vuole dire che lui il discorso del segretario non solo non lo conosceva, ma neppure lo condivide. Lui vuole essere candidato di tutti, non di una parte.
Alessandro Natta, presidente dei deputati comunisti, legato a Pertini dalla comune origine ligure e dal lavoro svolto in parlamento con reciproco rispetto e simpatia quando l’esponente socialista era presidente della Camera, annuisce alla mossa dell’amico ma la Dc non molla. Anzi.
Quando Giovanni Galloni, vicesegretario democristiano, la sera di domenica si presenta all’assemblea dei deputati per fare il punto della situazione, un suo tentativo di lasciare aperto uno spiraglio per la soluzione Pertini cade sotto i colpi degli onorevoli infuriati: a insorgere è la destra che quel candidato «frontista» proprio non lo vuole. Bocciatura per Pertini.
Pajetta, infuriato, al mattino presto telefona a Zaccagnini e lo affronta: «Sei un romagnolo o uno che è stato alla scuola dai preti come Galloni?». Zaccagnini borbotta che a scuola dai preti non c’è mai stato. «Devi essere di parola», insiste Pajetta. «Votiamo Pertini». Zaccagnini non risponde. «Ti ho svegliato?», chiede Pajetta. «Sì», bofonchia Zac. «Sono contento», è la replica. E la telefonata si conclude.
Per Pertini è il momento del silenzio. Le sue quotazioni sono a zero. Lo sopravvanzano altri cavalli, altre manovre. È la confusione. Scontri, progetti politici alternativi. In casa socialista nessuno gli fa più molto caso. Gli occhi sono tutti puntati su Giuliano Vassalli prima, poi su Antonio Giolitti (il candidato del cuore della segreteria, sostenuto con la massima intensità dalla sinistra di Claudio Signorile). Le scariche polemiche sono tutte contro Ugo La Malfa, sceso in campo a contrastare i socialisti. È il momento dei veti reciproci.
Pertini nei corridoi di Montecitorio brontola e s’imbroncia, ma non rinuncia a fare dichiarazioni distensive verso la Dc («Se in campo ci fosse Zaccagnini», arriva a dire, «io lo voterei, anche se il mio segretario non fosse d’accordo»). Nessuno gli dà peso: «folklore», è il commento di molti e passano avanti. L’attenzione è tutta sui vertici fra i segretari dei partiti che diventano risse, sugli scontri fra Craxi e Biasini, sui sospetti, le manovre, le voci di accordi segreti tra socialisti e blocchi democristiani (Toni Bisaglia, generale a metà dei dorotei, Carlo Donat Cattin, forse Arnaldo Forlani).
Pertini intensifica le sue visite, la mattina presto, a Natta, a Montecitorio. Lo stallo in aula è completo: la Dc non vota, la sinistra è ferma, sono previste lacerazioni e crisi di governo.
Mentre nessuno lo sta a guardare, Pertini vince con una mossa. D’essere stato rifiutato non gli piace. In tasca ha, fin da mercoledì 5 luglio, la lettera di rinuncia dalla corsa. «La presento», minaccia. Mancini, sornione, gli consiglia di aspettare. Lo stesso, raccontano, fa anche Natta. Alle 13 di giovedì Emanuele Macaluso, della direzione del Pci, va in tv e invita a portare in aula Pertini per votarlo e vedere come va a finire. «Ripeschiamolo. Votiamo, insomma, muoviamoci», è il suggerimento. Fulmineo, Pertini manda la lettera al suo segretario di partito; lui non ci sta. Non vuole essere, ripete, il candidato di una parte.
È un’uscita vincente. D’un colpo alla Dc si è spuntata l’arma di Pertini candidato frontista. Ora Pertini non lo è più: anzi è un uomo che si è ritirato proprio perché i comunisti volevano votarlo, unilateralmente.
Una manovra perfetta, astutissima? Pertini sul momento se ne rende conto? Più probabilmente è solo una manovra fortunata. Ma nessuno sul momento se ne accorge. Escluso Natta, che a chi gli chiede come andrà a finire, cita a memoria un verso d’Orazio che annuncia la resurrezione di cose già cadute. Nessuno afferra.
Ufficialmente il duello appare fra Giolitti e La Malfa: è un braccio di ferro spaventoso. Da una parte Craxi e mezza Dc, dall’altra repubblicani con ampie fette democristiane. Si minacciano crisi di governo. Craxi attacca, La Malfa risponde durissimo. La previsione è di uno sfascio generale. I comunisti, per non rompere con i socialisti, fanno capire che loro Giolitti lo voterebbero. Pertini annuncia che sta preparando le valigie per la Francia. È venerdì 7 luglio. Tocca alla Dc scegliere quale laico votare: Giolitti o La Malfa.
La Democrazia cristiana non può più rinviare la decisione. Claudio Signorile assicura che passerà Giolitti. Nino Neri, fedele di Craxi, attraversa il transatlantico dicendo che è fatta. Craxi parla di Europa e pensa a Giolitti. In parlamento esultano apertamente Massimo De Carolis, ultra democristiano, e gruppi di dorotei.
Contemporaneamente (è quasi la fine della mattinata) Franco Evangelisti, aiutante di campo di Andreotti, ha una conversione: sembrava che gli andreottiani fossero per Giolitti, ma il presidente del Consiglio ha capito che così sarebbe caduto forse il governo. Evangelisti s’incontra con Fernando Di Giulio, vicepresidente del gruppo comunista: parlano fitto fitto. Rimbalza il nome di Pertini. Lo fa anche Mancini con una dichiarazione a un’agenzia. Lo ripete Zaccagnini in direzione. Lo sussurra Flaminio Piccoli.
Lo dice Riccardo Misasi. Antonio Gava ci arriva dopo un giro di parole. Donat Cattin deve dire di sì. Con la Dx che indica Pertini tutto è salvo: niente più guerra in campo fra repubblicani e socialisti (La Malfa che, furente, aveva mandato ai suoi una lettera destinata anche alla Dc pretendendo una scelta a suo favore e attaccando aspramente il Psi, deve ritirarsi: la sua candidatura era stata presentata a condizione che non ci fosse più in gioco Pertini), il Psi non può dire di no perché chi sta per essere eletto viene dalla sue file, il Pci e tutti gli altri di sinistra sono dieci giorni che hanno detto di sì. I socialdemocratici e i liberali accorrono entusiasti. Tutto quadra. Il governo è salvo. L’unità di tutti alla fine ha vinto.
Restano solo una formalità e un problema. La formalità: i grandi elettori dc, gli stessi che 5 giorni prima avevano fischiato Galloni che voleva lasciare aperto uno spiraglio a Pertini, devono approvare la decisione dei loro leader. Cinque ore di discussione, qualche battibecco, decine d’interventi. Alla fine schiacciante maggioranza per Pertini i fanfaniani che si squagliano e Umberto Agnelli, partigiano di La Malfa, che prima del voto lascia l’aula.
Il problema, l’ultimo, è fermare il numero appena uscito della Discussione, il settimanale ufficiale di Democrazia cristiana. È pieno di attacchi contro Pertini, considerato ancora un candidato frontista. Non c’è nulla da fare: le copie sono già nelle edicole. Solo Guglielmo Zucconi, direttore e deputato, annuncia che in aula voterà scheda bianca. Per non rimetterci del tutto la faccia. Craxi e Signorile corrono a festeggiare Pertini. Natta, in transatlantico, spiega sorridente cosa aveva voluto dire citando Orazio. Anche se ormai l’hanno capito tutti.
Gli sconfitti. Sono un esercito. Diviso fra vinti palesi e vinti nell’ombra. Capofila del secondo schieramento Amintore Fanfani, con i suoi immancabili sostenitori (Giuseppe Bartolomei, presidente dei senatori dc, impacciato e tetro davanti alla conclusione della vicenda; il fedelissimo Giampaolo Cresci, che ha mosso un po’ di acque solo per telefono, senza mai farsi vedere a Montecitorio; ed Ettore Bernabei, ricomparso per l’occasione nei corridoi della Camera a distribuire sorrisi e strette di mano e a raccogliere gli umori dei deputati, nettamente catastrofici per il suo leader).
Vere o presunte che fossero le smanie presidenziali di Fanfani, e certo che eventuali sue aspirazioni non hanno trovato spiragli. Una candidatura dc per il Quirinale poteva passare solo attraverso il dilaniamento di tutti i pretendenti laici, una contrapposizione frontale con i socialisti che non dimostravano nessuna intenzione di mollare la loro richiesta di arrivare in porto con un loro candidato, drammatiche e torbide votazioni in aula, con rotture insanabili di tutto il tessuto politico.
Era una strada che la segreteria Zaccagnini, dopo giorni di incertezze tattiche, ha dimostrato di non voler percorrere. Chiudendo così ogni possibilità anche a quanti sostenevano la necessità di portare Zac al Quirinale e a Evangelisti che fino all’ultimo non ha abbandonato l’idea di accompagnare Andreotti su quello che, forse dopo il caso Leone, il presidente del Consiglio chiama «l’unico colle ancora fatale di Roma». Il percorso sarebbe stato lo stesso, visto che il Pci, favorevole almeno in teoria a sostenerlo, era deciso a non abbandonare il suo legame con il Psi.
Seccamente sconfitti anche il ministro delle Partecipazioni statali, Antonio Bisaglia, Donat Cattin e la destra dc (con qualche scottatura leggera forse anche per Forlani), che in una stretta alleanza con i socialisti a favore di Giolitti contrapposto alla candidatura repubblicana avevano visto la possibilità di mettere in crisi il governo Andreotti (abbandonato prevedibilmente dal Pri, difficilmente avrebbe retto), mettere in crisi senza difficoltà la segreteria Zac, fare un grosso dispetto al Pci (se fosse passato, anche se con l’appoggio forzato dei comunisti, Giolitti non era certo il candidato ideale del Pci: al suo passato di ex-comunista uscito dal partito dopo l’intervento dell’Urss in Ungheria nel 1956 univa le personali teorizzazioni sull’alternativa di sinistra, in contrasto aperto con la strategia comunista) e preparare le basi di un accordo politico di prospettiva, destinato a privilegiare al massimo il rapporto con il Psi ai danni del Pci.
Dopo una serie di pronunciamenti segreti a favore di Giolitti (l’ultimo la mattina di venerdì 7, nella sede della corrente con capi e luogotenenti schierati al completo) i dorotei di Bisaglia hanno fatto una precipitosa rigirata. E di fatto sono stati sconfitti senza neppure essersi battuti.
Tra i vinti palesi, oltre gli incolpevoli candidati massacrati prima ancora di essere votati in aula, nell’asfissiante gioco dei veti contrapposti (la Dc che dice no al Pertini prima maniera, il Psi che rinnova un ferreo blocco a La Malfa, il Pci che si oppone al socialista Giuliano Vassalli), molti non solo nella Dc, comprendono anche il vicesegretario del partito, Giovanni Galloni. Le accuse: incerto, ondeggiante, senza una strategia precisa fin dalla partenza, tatticamente debole.
Inizialmente Galloni ha giocato al massacro dei laici, cancellando d’un colpo la rosa socialista. Poi si è imbarcato nell’operazione Vassalli, andando insieme a Piccoli e Bartolomei a trovare Craxi all’hotel Raphael e assicurandogli tutto l’appoggio dc se il Psi avesse confermato il nome del penalista socialista fra i candidati. Un’operazione filtrata casualmente in casa comunista, con conseguenze polemiche violente: attacchi personali a Vassalli, sui quali probabilmente si pronuncerà anche l’ordine degli avvocati (Armando Cossutta, della direzione del Pci, era arrivato a dire che votare Vassalli «equivaleva a votare Lefebvre», visto che il candidato socialista figura come difensore dei fratelli accusati di corruzione nel processo Lockheed).
Naufragata la candidatura Vassalli, con il ritiro furente del giurista, Galloni, dopo qualche ondeggiamento su La Malfa, è andato ad attestarsi su Giolitti, salvo poi convergere naturalmente su Pertini. Uno zig-zag del quale sono in molti, anche fra i sostenitori della segreteria, quelli intenzionati a chiedergli pubblicamente conto.
I vincitori. Fuori da Montecitorio, il segretario socialista Bettino Craxi ha fatto una splendida figura: aveva chiesto, impetuosamente, un socialista al Quirinale e l’ha avuto. Pertini è popolarissimo, molta gente già gli vuole bene. È una fetta di storia del Psi al vertice dello Stato. Anche se è una fetta di storia un po’ diversa dai piani del segretario: unità a sinistra, mentre Craxi predica la diversificazione (con polemica aspra) dal Pci.
Indipendente, suscettibile, da tempo in aperto contrasto con Craxi, Pertini (clamorosa la sua presa di posizione contro l’atteggiamento del partito sul caso Moro) è una pedina che esce da eventuali programmi di potere del segretario del Psi. Per questo, conducendo con forza la guerra del garofano, Craxi ha dimostrato a centinaia di deputati a Montecitorio di avere puntato in realtà su altri candidati, soprattutto Giolitti. E di averlo fatto in contatto, assieme a Claudio Signorile e ad altri esponenti della sinistra, con alleati democristiani giudicati soprattutto dai comunisti insidiosi e scomodi.
Grazie al colpo di reni finale dell’allineamento su Pertini, con il rifiuto al momento decisivo della linea dello scontro, anche la segreteria Zaccagnini, a eccezione di Galloni, se non proprio vittoriosa o rafforzata, se n’è uscita con la logica del minor danno e, soprattutto, con la conferma della linea morotea del dopo 20 giugno 1976. Ha ceduto il Quirinale, ma ha salvato il quadro generale dei rapporti fra i partiti.
Un risultato che ha finito col rafforzare anche la guida, sul Pci, di Enrico Berlinguer, scossa durante la guerra del Quirinale da contrasti almeno tattici, che sono stati avvertiti anche all’esterno (le uscite di Cossutta contro Vassalli, accompagnate da feroci strali di Pajetta, sono state definite da Paolo Bufalini, durante un incontro fra le delegazioni del Psi e del Pci, «posizioni personali» e non del partito).
Il sorriso di Pertini ha finito sul momento per ricomporre tutto. Anche se non è riuscito a cancellare i tanti rancori di un difficile dopoguerra appena cominciato.
Maurizio De Luca