Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1978  luglio 18 Martedì calendario

Questa elezione insegna che...

Panorama, 18 luglio 1978

È stata lunga e travagliata la gravidanza che ha dato all’Italia il presidente degli anni ’80. Mai, anzi, come questa volta il congegno elettorale è apparso lento, inconcludente, defatigante. Perché? Le spiegazioni che si leggono sono diverse e incolpano ora le regole del gioco, ora l’inadeguatezza dei partiti che le hanno utilizzate.
Secondo alcuni – lo ha scritto SilvanoTosi su La Nazione – è il congegno a essere sbagliato, perché si ispira ancora alparlamentarismo individualistico dell’Ottocento, mentre ormai a decidere sono ipartiti. Il senatore Giuseppe Branca diceinvece che i partiti sono troppo ingombranti e che occorrerebbe garantire di più la libertàdei singoli grandi elettori.
Coloro che guardano meno agli aspetti istituzionali e più alla sostanza politica appaiono altrettanto divisi. Alberto Sensini scrive che l’elezione presidenziale è stata ritardata dal fatto che «mai come in questo momento i tre partiti maggiori sono stati così intrecciati nel controllarsi, ma anche così distanti nelle tattiche e nelle strategie». Gaetano Scardocchia non trova invece nulla di anomalo nella situazione politicache ha fatto da cornice all’elezione del presidente. Alcontrario, si sarebbero riflesse in questa le usuali anomalie della nostra vita politica, a partire dall’ambiguità e dall’oscurità di propositi dei maggiori partiti. Sono spiegazioni – come si vede – palesemente contrastanti l’una con l’altra e questo dimostra da soloche ciascuna di esse coglie dei sintomi, al più dellecause laterali del problema, che è enorme. E il problema è quello, molto semplice, della impossibilità diarrivare a decisioni rapide ed efficaci se per farlosono in troppi a doversi accordare.
La disputa che oppone il principio maggioritario eil principio unanimistico è antica, attraversa la storia.
Ed è un insegnamento della storia che il principiounanimistico ha usualmente prevalso nei regimi deboli, condannandoli a condizioni di ulteriore debolezza,grazie alla ridda dei voti che ciascuno oppone agli altri, paralizzando così tutti quanti. La dieta polaccaè l’esempio più noto di questa progressiva paralisi,ma anche gli storici del Duecento tedesco possono dircene delle belle sui sei principi che dovevano accordarsi per l’elezione del re. Un accordo lo trovavano sempre, ma uno di loro rimaneva regolarmentescontento e sentendosi defraudato si lasciava poi andare a guerre e rappresaglie.
Tutto ciò è soltanto inevitabile e sono proprio iprecedenti ad ammonirci contro interpretazionifrettolose di quanto abbiamo visto in questi giorni. Ilmalumore dell’opinione pubblica si è facilmente tradotto in pesanti giudizi sulle qualità intellettuali emorali di buona parte della nostra dirigenza politica.Lo abbiamo notato tutti che i candidati al Quirinale si accettavano o si scartavano in base all’unico requisito di essere o non esserein una data «rosa». Ed è comprensibileche molti si siano domandati se chi cidirige merita davvero di stare al suo posto, quando adotta decisioni con criteridel genere.
Ma questo è un giudizio che finisce per essere ingiusto, perché la incapacità di discutere gli argomenti importanti non eradelle persone, ma derivava da un sistemache farebbe comportare allo stesso modoanche persone diverse. Chi ha esperienzadi riunioni internazionali conosce benissimo la regola secondo cui più sono leparti rappresentate attorno al tavolo, piùil discorso diventa generico. E in simili riunioniè un risultato spesso rimarchevole arrivare a unaccordo sulla data di quella successiva. Il fatto èche quando la decisione deve trovare d’accordo persone e gruppi che hanno interessi profondamente diversi, sono questi a pesare e a neutralizzarsi a vicenda. L’eletto è che il merito della questione viene soltanto sfiorato ed è affrontato in un contesto che ne deforma i significati reali.
Ben diversa è la situazione quando la decisione èaffidata a una maggioranza. Intanto le componenti di questa hanno di solito una omogeneità sufficiente a discutere senza imbarazzo argomenti chein una sede allargata non è diplomatico toccare. Così, se si tratta di scegliere un candidato, ci sono moltemeno remore a valutare l’età, lo stato di salute, il carattere più o meno bizzoso, le competenze dimostratedalle persone in gioco. In più, una maggioranza sabene che mette in gioco se stessa se fa una sceltacattiva e ha perciò tutto l’interesse a non farla, proprio per non pagarne gli effetti. Al contrario, nel caso di decisione che deve essere unanime, non c’ènessuno con questo interesse e la scelta sbagliata è coperta paradossalmente dalla stessa impunità che caratterizza le decisioni in un sistema dittatoriale.
Hanno allora ragione quanti dicono che per il nostro presidente sarebbe bene cambiare sistema e farlo eleggere o ancora dal parlamento, ma col ballottaggio finale, o, più drasticamente, dallo stesso corpo elettorale? Sì, hanno ragione, purché sia chiaroche il correttivo non può riguardare il solo presidente, ma deve investire l’intero sistema istituzionale.Sono le rotelle complessive di questo che devono essere cambiate e rese idonee a distinguere fra lorouna maggioranza o un’opposizione, invece di farleregolarmente incastrare l’una nell’altra.
Se quest’episodio servisse a far riflettere con la dovuta serietà su una riforma in grado di dare alle nostre istituzioni la capacità di decidere e di scegliere,sarebbe, almeno sotto questo profilo, un episodio felice.

Giuliano Amato