19 luglio 1978
Epoca, 19 luglio 1978 Roma, luglio I corpo fragile («ma come avrà fatto», si domanda la gente, «a resistere alle percosse dei fascisti?») chiuso in un impeccabile abito scuro, la pipa nella mano sinistra che di tanto in tanto si porta alle labbra, Sandro Pertini esce dal suo studiolo al primo piano della Camera e si avvia, circondato da una piccola corte di segretarie e di amici, verso il salone della Lupa, dove lo aspetta il presidente della Camera, Pietro Ingrao
Epoca, 19 luglio 1978
Roma, luglio
I corpo fragile («ma come avrà fatto», si domanda la gente, «a resistere alle percosse dei fascisti?») chiuso in un impeccabile abito scuro, la pipa nella mano sinistra che di tanto in tanto si porta alle labbra, Sandro Pertini esce dal suo studiolo al primo piano della Camera e si avvia, circondato da una piccola corte di segretarie e di amici, verso il salone della Lupa, dove lo aspetta il presidente della Camera, Pietro Ingrao. È il primissimo pomeriggio di sabato luglio, da poco gli hanno comunicato l’elezione alla presidenza della Repubblica. Dice: «Davanti al tribunale speciale che mi condannava al carcere ho gridato; “Viva il socialismo”».
E adesso?
«Adesso è diverso. C’è un po’ di amarezza».
Che cosa significa?
«Non posso non essere realista, non pensare alla mia età».
È emozionato?
«Un po’, e chi non lo sarebbe?».
Poi fa una domanda e insieme una constatazione: «Quanti voti ho preso? 832, mi pare. Vuoi dire che non mi hanno votato il Msi e i demonazionali. Sono contento che non mi abbiano votato i fascisti».
Forse anche qualcuno della Dc non l’ha votato.
«Può darsi, ma che vuole? È umano, è logico. Ciascuno vota secondo coscienza». Queste sono le prime parole di Pertini settimo presidente della Repubblica italiana, che il cronista di Epoca ha raccolto. Gli è capitato di venire eletto a 82 anni di età, e forse l’idea per un momento gli è pesata, anche se si è sempre considerato «giovane fra i giovani». È uno dei padri di questo nostro paese, nel dopoguerra, e uno dei pochissimi politici di cui possiamo andare fieri. Chi sia il nuovo inquilino del Quirinale, dopo l’infelice periodo Leone, siamo in grado di farlo raccontare da lui stesso, grazie ad una intervista che Pertini aveva concesso ad Epoca. In questo colloquio c’è tutto Pertini: l’uomo, le sue idee, le sue collere, il suo passato. E soprattutto la sua sostanziale onestà, spinta fino allo scrupolo. Quell’onestà che gli fa dire: «L’importante è di essere in pace con la propria coscienza».
Per due difficili legislature, lei è stato presidente della Camera. Ha nostalgia di quel periodo?
«Certamente, e sarebbe inutile negarlo. Ne ho nostalgia perché mi sentivo all’interno di un corpo vivo».
Qual è il suo migliore ricordo?
«Quando ho dovuto affrontare l’ostruzionismo sul decretone economico. Fu una seduta durata ininterrottamente 105 ore, spesso arroventata. Ma riuscii a superare la prova».
E il ricordo più amaro?
«La vicenda dei superstipendi al personale della Camera, io non ne avevo colpa, quella situazione l’avevo semplicemente ereditata. Tuttavia mi dimisi perché ho sempre pensato che chi sta in un certo posto debba pagare di persona, mai trincerandosi dietro alle responsabilità di altri».
Una volta lei accusò i socialisti di anarchia...
«La verità è che noi deriviamo da Bakunin. Il socialismo italiano ha più una derivazione libertaria che una derivazione veramente marxista. Siamo un po’ tutti anarchici. Nenni è un romagnolo anarchico. Per la verità lo sono un po’ anch’io, individualmente intendiamoci». Sorprende la sua incredibile vitalità.
Come organizza la propria giornata?
«Mi alzo presto al mattino, e non faccio mai tardi la sera. Inoltre prendo pasti frugalissimi: carne e verdura a mezzogiorno, e soltanto verdura la sera».
Quali sono le sue distrazioni?
«Le gallerie d’arte. Le frequento regolarmente, specie le migliori, come la Ca’ d’oro di via Condotti, il cui proprietario è mio amico. Fa sempre piacere ritrovarsi fra amici. Vado anche allo stadio per le partite di calcio, e la sera, a teatro. Mi piacciono gli incontri di boxe. Questi li seguo alla televisione».
Dei suoi anni di presidenza alla Camera sono rimaste famose anche le esplosioni di collera, le collere di Pertini...
«È vero. Quante persone ho investito con le mie ire improvvise, i miei atteggiamenti rigidi, le mie interruzioni. Compagni di partito, colleghi... chi è stato investito da me non immagina certo quanto me ne rammarichi e quanto me ne sia rammaricato. A discolpa posso dire soltanto che la mia passionalità è stata sempre d’ordine morale, non fisico. La mia violenza è sempre stata verbale, non materiale. Ho preso tante legnate dai fascisti, ma non gliele ho mai restituite. Ritengo giusto che un uomo di fede abbia momenti di violenza perché quando una cosa non va bene, l’uomo di fede deve denunciarla con violenza. Però, quando capita a me, dopo me ne dispiace. Così all’”ora dei lupi” come la chiama Ingmar Bergman, cioè l’ora in cui ci troviamo soli con noi stessi, e non possiamo mentire, brontolo: “Accidenti, ho fatto male a farmi trascinare dall’ira con quel mio compagno, con quel collega, oggi gli offro un caffè, cercherò di farmi scusare”. Sono umano, non ho mai fatto intenzionalmente male a nessuno, fuorché a me stesso. Non so cosa sia il cinismo. Forse per questo sono un cattivo politico». Il grande amore della sua vita è Carla, la moglie tanto più giovane di lui. «Per questo sulle prime non la volevo sposare», ricorda. La signora Pertini ha un solo difetto agli occhi dei giornalisti: non ama farsi fotografare. «Sapesse quante volte ho cercato di indurla a cambiare idea. Niente. Se incontra anche casualmente un fotografo si mette la mano sulla fronte per coprirsi. Tempo fa perorai la causa di un giornalista più insistente di altri. Lei mi rispose minacciando il divorzio. Le pare che possa perderla alla mia età? Fosse brutta... Pazienza. Ma è una gran bella donna, e intelligente, viva. Tre anni fa si è laureata in Scienze sociali come me».
Ma lei, non è avvocato?
«Sì, sono avvocato, ma ho due lauree». Durante gli anni del fascismo, quando non era al carcere o al confino, Pertini era all’estero, dove per vivere faceva l’imbianchi-no, l’operaio, il muratore. Partecipò a due insurrezioni, quella diFirenze nell’estate del ‘44 e fu il principale animatore di quella di Milano del ‘45. La televisione ha rievocato rincontro di Pertini con Mussolini nell’Arcivescovado per trattare la resa di Milano.
Come ricorda il Mussolini di quelle ore?
«Un vecchio in uniforme circondato da gerarchi. Un vecchio molto pallido, molto scavato».
Prova ancora odio per lui?
«lo combatto il nemico quando è in piedi, non quando è caduto». In quegli stessi giorni dell’aprile ’45, un fratello di Pertini, Eugenio, veniva fucilato nel campo di concentramento di Flossenburg in Germania. Meno nota è la vicenda di un altro fratello, Pippo, che militò dal lato opposto della barricata. «Questo mio fratello era ufficiale di carriera. Dopo la guerra, la prima guerra mondiale, venne insultato stupidamente: il solito, madornale errore di chi rendeva gli ufficiali responsabili della guerra. Uno dei motivi che portò tanti reduci nelle file del fascismo. Noi due eravamo amici, avevamo combattuto insieme. Ci divise l’adesione che lui, vilipeso e umiliato, diede alle camicie nere. Quando sapevo che in casa c’era lui, non andavo. Anche questo fu un dramma per mia madre. Nella nostra famiglia, la vita non è stata facile, abbiamo pagato molto. Mio fratello uscì dal fascismo quando fui mandato all’ergastolo di Santo Stefano. Morì a 41 anni, di crepacuore. A me è rimasta l’angoscia di non avere fatto in tempo a riconciliarmi con lui».
Cos’è più importante per lei?
«Essere in pace con la mia coscienza».
Insieme con Nenni e con Saragat, lei è uno dei capi storici del socialismo italiano. Chi preferisce dei due?
«Rapporti di stima e di amicizia ne ho con tutti e due, anche se spesso abbiamo dissentito violentemente. Però... non è che Saragat mi sia meno simpatico di Nenni, ma io ho sempre sentito un maggior affetto per Nenni. Non per la scissione di palazzo Barberini, anche se quella conta, Ma perché Nenni ha una carica umana che Saragat non ha. Purtroppo non posso dire di essere stato ripagato, perché per Nenni il grande legame non è con me, ma con Saragat. Si amano così fin dai tempi dell’esilio in Francia. Guardi, posso raccontarle un episodio della mia evasione dal carcere di Regina Coeli nell’inverno ’43-’44. Una vicenda che spiega benissimo i rapporti tra Nenni e Saragat. Saragat ed io eravamo stati condannati a morte. Eravamo in cella con altri quattro detenuti politici, tutti ufficiali badogliani. Un giorno i compagni ci fecero sapere di avere organizzato la nostra evasione, la mia e quella di Saragat. lo puntai i piedi: o tutti e sei, o nulla. Lo riferirono a Nenni, e quello, spazientito, disse: “Ma fate uscire Peppino. Sandro il carcere lo conosce, c’è abituato, Peppino, no, poveretto, fate uscire Peppino. Poi penseremo a Sandro”. Andò bene ugualmente, i compagni riuscirono a farci uscire tutti e sei. Ma appena mi incontrai con Nenni glielo dissi chiaro:”Pietro, cos’è questa storia del ‘fate uscire Peppino tanto Sandro al carcere c’è abituato’? Che significa? Siccome al carcere c’ero abituato ci dovevo morire?”».
Qual è il problema che l’appassiona di più?
«Quello dei giovani, ed è logico che sia così. Sono un uomo che ama la vita anche se so di doverla, fatalmente, perdere un giorno. Per questo mi appassiona il problema dei giovani, cioè di coloro che saranno anche il mio domani».
Che sentimenti prova nei confronti dei giovani?
«Di collera quando sbagliano, di gioia quando hanno ragione».
I giovani sbagliano spesso?
«Sì, purtroppo. Ma so anche che le loro capacità di recupero sono infinite». Soffrì profondamente nei giorni della vicenda Moro; fu allora che uscì, in contrasto con il suo stesso partito, con una famosa dichiarazione che concludeva: «La libertà non può essere barattata». Sono le stesse parole che ha detto nel suo primo messaggio al paese, aggiungendo: «Moro, non io, se fosse vivo, parlerebbe oggi a voi». C’erano, in questa frase, tutta la straordinaria umiltà di Pertini e insieme la sua fiducia negli uomini, nella loro capacità di capire.
Raffaello Uboldi