1 giugno 2012
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Biografia di Rossana Rossanda
• Pola (Croazia) 23 aprile 1924. Dirigente politico e giornalista. Fondatrice del Manifesto, per il quale ha scritto fino al 2012. «Nessuna delle mie idee aveva funzionato, troppo presto o troppo tardi che fosse».
• Giovanissima antifascista, brillante allieva del filosofo Antonio Banfi, fino alla fine degli anni Sessanta fu dirigente del Pci. Chiamata da Togliatti, prima donna in Italia, a dirigere la Casa della cultura di Milano, nel periodo in cui fu deputata (1963-1968) si occupò in modo particolare dei problemi della scuola e della cultura. Nel 1968 uscì il suo L’anno degli studenti (De Donato), nel 1969, dopo il XII Congresso nazionale del Pci (Bologna), promosse - insieme a Lucio Magri, Luigi Pintor e Aldo Natoli - la nascita della rivista il Manifesto: il tentativo di rimettere in discussione la cultura politica del Pci, e di «uscire da sinistra» dallo stalinismo, si concluse con la radiazione dal partito. Da allora, la vita politica di Rossanda ha coinciso con quella del giornale, diventato quotidiano (vedi PARLATO Valentino).
• Tra i suoi libri: Un viaggio inutile (Il Saggiatore 1962), Le altre (Bompiani 1979), Appuntamenti di fine secolo (Manifestolibri 1995, con Pietro Ingrao), soprattutto La ragazza del secolo scorso (Einaudi 2005).
• «Sono nata a Pola, in una terra di frontiera. Sono venuta su in una famiglia che aveva un’idea della convivenza non nazionalista. Negli Anni Venti e Trenta, prima che me ne andassi via, si parlava tedesco, sloveno, italiano, in una quotidianità plurilingue, ancora priva di tensioni etniche» (da un’intervista di Alessandra Longo).
• «Io sono stata tra i primi a criticare l’Unione Sovietica e per questo sono stata espulsa dal Pci, insieme agli altri compagni fondatori del manifesto. Fu un provvedimento giusto perché ormai non eravamo più d’accordo su niente. E poi non cademmo nel vuoto, ma nelle braccia del Movimento in un periodo di grande fermento sociale. Questo non toglie che quell’espulsione fu una delle mie grandi perdite. Tutta la mia vita ne è stata scandita. A cinque anni persi la mia casa di Pola, una bella villa con giardino, perché mio padre, che faceva il notaio e aveva investito tutti i suoi denari nelle cave di pietra istriane, fu travolto dalla crisi del 1929. La mia vera strada era quella di storica dell’arte, un interesse che mi sembrò totale finché non vinse quello per la politica. Più tardi, nel 1963, mi pesò molto non fare più la funzionaria di partito a Milano ma la parlamentare a Roma. Non era il posto per me. Intanto avevo perso due genitori ancora giovani. Sono una donna del Nord, ho fatto un lavoro da uomo e non mi piace mettere le viscere per terra. Ma non sono fredda, ho sempre frequentato le passioni. E le delusioni. Sa quando mi vennero i capelli bianchi? Nel 1956, durante l’invasione sovietica dell’Ungheria. Tutta quella vicenda si è coagulata nella mia mente attraverso una foto che mostrava un funzionario impiccato a un fanale, il volto scomposto, e sotto di lui alcuni operai della fabbrica in rivolta che ridevano. Mi dissi: ci odiano. Non i padroni, i nostri ci odiano. Avevo 32 anni e mi ritrovai di colpo sbiancata. Non sono stata bella e non mi ci sono mai sentita. Del resto i modelli della mia giovinezza erano Greta Garbo e Norma Shearer, mentre io ero grassottella e con i capelli dritti. Due matrimoni. Il primo con Rodolfo, figlio del filosofo Antonio Banfi, mio maestro. Siamo stati sposati vent’anni, un po’ separati in casa ma molto amici. Ora è morto ed è stato un grande dispiacere. Quando avevo 40 anni ho poi incontrato Karol» (da un’intervista di Stefania Rossini).
• «Rossana Rossanda è nata antipatica in una famiglia di borghesi orgogliosi, era perfetta per diventare comunista e infatti lo è stata precocemente. Di suo ha aggiunto da subito una certa monumentalità conferita da sé medesima per non dar torto al proprio cervello: “Eravamo intellettuali, frequentavamo libri”. “Avrei letto e scritto”. S’accorse tardi del fascismo in cui era immersa sin dalla culla e quando arrivò il giorno, nel luglio del 1943, l’evento la lasciò frastornata. La pienezza del suo ego le consente oggi d’assolversi» (Alessandro Giuli).
• Il 6 giugno 2008, in occasione del restyling del Manifesto, fece uscire un editoriale, firmato insieme con Valentino Parlato, durissimo col governo in carica: «L’Italia va incontro ai tempi più oscuri da quando è nata la repubblica. Ha mandato spensieratamente a Palazzo Chigi un governo di fascistoidi, bugiardi e corruttori. Fascistoidi non solo perché siamo il solo paese in Europa la cui Camera è presieduta da un ex missino e la capitale idem, ma perché il peggio della destra - razzismo, superomismo, arroganza, disprezzo per la democrazia, vaghe idee ma ostili alla Costituzione, populismo, «noi tireremo diritto», balle tipo trecentomila fucili pronti a sparare, il ricatto come metodo dei rapporti - sta dilagando senza fare scandalo, come se un po’ di fascismo quotidiano fosse ovvio e comunque disinnescato. E poi, bugiardi, una cosa dicono oggi e ritirano domani, nella persuasione che basti affermarla due volte ergendo il petto perché sia vera. E corruttore il loro leader, scampato alla giustizia solo in grazia alle prescrizioni perseguite dai suoi avvocati, il più vanesio e ridicolo dei capi di stato del continente - e non è che ne manchino (...)». Molto severa anche con l’opposizione: «(...) Sarebbe un governo pessimo come altri, se ci fosse una opposizione come altre, che non si felicitasse con il premier ogni due giorni, ricevendo in cambio congratulazioni per le sue buone maniere. Ratzinger, che da giovane ne ha viste altre, fa sapere di essere tutto contento per il «clima» che vige oggi in Italia. Trovarne uno che alle prodezze della Lega sbotti: Ma questa è una vergogna! (...)». Sbrigativo invece il giudizio su di sé e sulla propria parte politica, spazzata via dal voto del 13-14 aprile: «La tempesta elettorale ha solo reso evidente, e incarognito, un processo di egoismo, che ha portato l’Italia a essere il solo paese d’Europa che ha tutta la destra al governo e tutta la sinistra fuori dal parlamento. Non ce ne sono altri. E se questo è successo, qualche responsabilità l’avremo avuta pure noi nel nostro piccolo. Per distrazione, per sufficienza, perché «rivoluzione o niente», per stanchezza - siamo in campo da quasi quarant’anni, troppo modesto distributore di contravveleni». All’indomani dell’anniversario della strage di Bologna (2 agosto 1980), la sua tesi innocentista rispetto alle responsabilità di Mambro e Fioravanti - simile a quella espressa da Gianfranco Fini - fece discutere ma trovò anche inaspettati consensi nella sinistra radicale. «La sentenza della Cassazione lascia molti dubbi. Come il processo Sofri non ha risolto niente, così quello per la strage di Bologna lascia molte ombre. E questo anche se non ho nessuna simpatia né per Mambro né per Fioravanti...», disse alla Stampa. Si guadagnò, sull’altro fronte, l’apprezzamento di un ultraliberale come Piero Ostellino: «Per quanto possa apparire sorprendente, non è la prima volta che la sinistra radicale (lo hanno fatto anche esponenti di Rifondazione) si rifiuta di confondere l’appartenenza a una parte politica con la verità e manifesta una maggiore capacità, rispetto a quella moderata, di analizzare le contraddizioni e le conseguenze di una visione ideologica della storia. Era già accaduto, e clamorosamente, con la nascita del gruppo del Manifesto e con la successiva espulsione dal Pci della stessa Rossanda, di Luigi Pintor, di Valentino Parlato e di altri, al XII congresso del partito. Anche allora, l’ala radicale ancora militante nel Pci aveva manifestato la propria insofferenza - peraltro assai diffusa in vasti strati del partito - per l’ortodossia ufficiale (...) Alla Rossanda dobbiamo anche il conio di un’espressione (“L’album di famiglia”) che è rimasta nella memoria politica del Paese e che servì a far luce sulle continuità tra le ideologie della sinistra terzinternazionalista e i proclami delle Br. Oggi, che - come dice Paolo Guzzanti - “alla sentenza per la strage di Bologna nessuno crede e ci si divide solo tra chi ha il coraggio di dirlo e chi lo nega, ma solo per motivi politici”, la Rossanda e altri della sua parte politica sono fra quelli, a torto o a ragione che sia, che dicono che il re è nudo. Si sottraggono all’uso strumentale delle verità giudiziarie e si interrogano in piena libertà su cosa sia realmente accaduto».
• Nel 2012 addio polemico al manifesto: « “Con il giornale che ho fondato non c’è più dialogo. Non voglio condividere più la responsabilità di quanto viene scritto. Ho diritto di esprimermi dove e quando voglio senza dover partecipare a un progetto politico che non è il mio”. Non vuole gettare altra benzina sul fuoco, però una mezza frase la dice: “Io non sono per l’antipolitica”. Dunque, il manifesto è accusato di strizzare l’occhio a Grillo» (a Riccardo Barenghi). «Non siamo noi ad essercene andati. È il manifesto ad averci cacciato. L’abbiamo perso. Non voleva più saperne di noi, e noi ci siamo ritirati».
• Nel 2011 accompagnò Lucio Magri in Svizzera che andava a morire volontariamente: «un’esperienza terribile. Però è una scelta che rispetto, e capisco. Vivere per vivere non ha molto senso. Se non ci fosse Karol (il marito malato, morto poi nell’aprile del 2014 – ndr) non avrei alcun interesse a vivere».
• Con La ragazza del secolo scorso arrivò vicina a vincere lo Strega (150 voti su 370 contro i 177 del vincitore, Sandro Veronesi).