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 2012  giugno 01 Venerdì calendario

Biografia di Luca Ronconi

• Susa (Tunisia) 8 marzo 1933 – Milano 21 febbraio 2015. Regista. Dal luglio 1998 direttore artistico del Piccolo Teatro di Milano. «Mi è sempre piaciuto più mascherarmi che spifferarmi».
• Luca Ronconi è morto al Policlinico di Milano verso le 21 del 21 febbraio 2015, stroncato da una polmonite che lo aveva costretto al ricovero qualche giorno prima. Il regista era da tempo malato. L’attore Enrico Lucherini: «Luca era un uomo che tre volte alla settimana, soffrendo come un cane, si sottoponeva alla dialisi. E nonostante questo mai un fiato, mai un cedimento, mai una defezione» [Malcom Pagani, Fat 22/2/2015]. Ultimo successo la Lehman Trilogy.
• «Se non avessi potuto lavorare mi sarei ucciso» [Maurizio Porro, Cds 22/2/2015].
• Il suo battesimo teatrale avvenne a 4 anni, come spettatore, ma fu buttato fuori dalla sala poco dopo l’intervallo: la madre, infatti, lo aveva portato ad assistere a una commedia, e gli aveva promesso che la scena sarebbe cambiata nel secondo atto. Rialzatosi il sipario, quando il bimbo rivide gli stessi, logori arredi del primo tempo, iniziò a strepitare e lamentarsi, tanto da essere cacciato dalla platea [Camilla Tagliabue, Fat 22/2/2015]. Ricorda Ronconi: «La mia prima volta da spettatore non l’ho mai dimenticata, è fra le mie memorie più vive. Mia madre mi portò in un teatro di Roma a vedere una commedia. Non saprei dire che cosa fosse. Era una commedia in genovese con Gilberto Govi. Ricordo che si parlava di una gallina, ricordo che mia madre me ne parlava, ricordo che ero in uno stato di sovreccitazione».
• «Ho imparato a conoscere il mondo attraverso il teatro. Da adolescente ero completamente chiuso su me stesso. Poi facendo il regista, non l’attore, ho imparato a conoscere gli altri e me stesso» [Cirio cit.].
• «Mia madre era professoressa di lettere, per passione mi leggeva Dante, e riteneva, come allora forse era in voga, che i figli dovessero arrivare alla maggiore età con un corredino di sapere. Che so, conoscere la differenza tra saggio e romanzo, tragedia e farsa...».
• Nato in Tunisia, i genitori si separarono quando era molto piccolo: «Lui e la madre lasciarono l’Africa. Aveva sette anni quando scoppiò la guerra: “Era una situazione estrema che non tutti vivono allo stesso modo. Mio padre morì in quegli anni. Mia madre lavorava fuori Roma. Forse fu per questo motivo che mi mandò a studiare in un collegio svizzero. Ma ricordo poco di allora, e non perché fossero particolari sgradevoli”» (Osvaldo Guerrieri).
• «Avevo dieci anni quando cominciai a capire qualcosa, quando “seppi” che là sarei finito, pur non immaginando come. Non sapevo se avrei fatto l’attore, il regista, lo scenografo, l’attrezzista. Ma sapevo che qualcosa avrei fatto. Studiavo poco, ero distratto. Mi ricordo le letture fatte a casa ma non quello che ho studiato. Leggevo i classici russi e francesi, soprattutto tanto teatro. Il fatto è che a scuola mi sentivo infelice e sempre inadeguato, perché temevo di non arrivare a maneggiare le materie che si studiavano. Per iscrivermi all’Accademia d’arte drammatica dovetti combattere. Mia madre non era felicissima. Alla fine cedette ma mi ordinò: prendi la laurea. Fu così che mi iscrissi a Legge. Riuscii a dare due esami. Poi ho incominciato a lavorare e mi è andata abbastanza bene».
• Non ancora diciottenne fece gli esami all’Accademia d’arte drammatica di Roma: «Invece di fare tre anni di apprendistato ne feci solo 2. Venni infatti scritturato dal regista Luigi Squarzina come attor giovane vicino al già famosissimo Vittorio Gassman nello spettacolo scritto dallo stesso Squarzina Tre quarti di Luna. Funzionò, me la cavai discretamente, anche se dopo la prima dissi: “Questo mestiere non fa per me, non posso fare l’attore, non mi sento a mio agio”. I miei amici più maliziosi ricordano invece il manifesto dello spettacolo dove io, giovane seminarista, pugnalavo alle spalle il preside Vittorio Gassman. Loro, ovviamente, vogliono dare a quest’immagine un valore simbolico, ma non è vero niente. Da parte mia c’è sempre stata grande ammirazione per Vittorio attore e regista, e gli sono molto grato non solo per avermi preso con lui, ma soprattutto per aver accettato il ruolo di protagonista del Riccardo III di Shakespeare, una delle mie prime regie» (da un’intervista di Giuliana Calandra).
• Esordi da attore: «Odiavo quel mestiere così noioso». Lina Sotis: «“Quando lo dirai – perché lo dirai – sii generoso”. Questa frase il più tormentato, famoso, ispido, tenebroso dei nostri registi non se la dimenticherà mai. È infatti la frase chiave della sua prima vita: quella di attore, quando ancora pensava che il suo futuro fosse sul palcoscenico, non dietro il palcoscenico. Luca Ronconi, il regista della fantasia senza orario (uno spettacolo può durare anche sei ore), colui che portò in giro per le piazze Orlando Furioso, con cui si consacrò regista di fama internazionale, esordì come attore in una commedia di Olga Villi. Faceva lo studente sedotto dalla tardona e questa frase – detta dalla protagonista – chiudeva la commedia (era Tè e simpatia di Robert Anderson – ndr). Ronconi aveva allora quell’aria intellettuale che ancora si porta appresso, ma negli anni Cinquanta, quando iniziò a calcare le scene, non andava di moda. Ai tempi piacevano i bulli con l’aria scanzonata e mascalzona e Corrado Pani gli rubò tutte le parti. Il Luca Furioso, scippato del suo lavoro, si consolava per Roma con i suoi scalmanati amici di allora: Enrico Lucherini, Flora Clarabella, Roberto Capucci, Paolo d’Espagnet. Una banda che faceva scherzi telefonici e di notte girava per via Veneto con affacciato al finestrino della vettura il posteriore, nudo, di Lea Tuzzi. A tanta voglia di osare si contrapponeva il volto intellettuale del Luca Furioso. La sua ultima performance teatrale fu in Anna Frank, copione considerato dagli altri registi congeniale alla sua faccia. In quei tempi difficili, diviso fra dolce vita e umiliazioni, Ronconi era un giovinotto economicamente accorto e i suoi primi guadagni li investì in una casetta, a Zagarolo. Lì, alle porte di Roma, viveva il grande regista. Lì, a Zagarolo, affinò il suo pollice verde e quando non faceva casino con gli amici annaffiava, ossessivamente, le sue piante. Poi un viaggio a Londra e la grande idea: girare un testo elisabettiano dentro un manicomio. Esordì così, come regista, nei Lunatici. Fu subito un grande, discusso successo. Un successo al quale si adattava proprio bene la sua faccia da intellettuale. Una faccia da bulletto ginnastico-abbronzato non avrebbe combaciato con quella regia, quelle scene, quella recitazione. Così, con una compagnia povera e dei costumi un po’ rabberciati, anche se da Umberto Tirelli, cominciò la fortuna registica di quell’attore con la faccia troppo intellettuale per i tempi. “Mi avessero detto che diventavi un regista di successo non ci avrei creduto mai”. Disse, amorosamente sfottendolo, la sua amica Flora Clarabella, ormai accasata con Marcello Mastroianni» (Lina Sotis).
• «Io e Luca siamo stati grandissimi amici sullo sfondo di una Roma stracciona e spensierata che non esiste più. Una città di bighellonari di professione, di sognatori, di artisti squattrinati, di espedienti e ristoranti aperti fino a tardi., simili a quello del Re della mezza porzione messo in scena da Scola in C’eravamo tanto amati. Ci siamo amati molto, come fratelli, anche io e Luca. Di quell’amore che nasce dalla frequentazione disinteressata, dalla comune esperienza sul palco in Accademia, dalle nottate passate in machina su e giù per le vie della Dolce Vita con Giancarlarosi, Flora Clarabella, già signora Mastroianni, Roberto Capucci e il meraviglioso culo di Lea Tuzzi – si può dire culo? – che si affacciava dal finestrino di via Veneto, proprio come quelli dei militari nei film di John Malius, facevano mostra di sé per turbare i passanti» (Enrico Lucherini a Malcom Pagani) [Fat22/2/2015].
• Dopo I lunatici (1966) seguirono Misura per misura (Shakespeare) e Riccardo III (con Vittorio Gassman), La tragedia del vendicatore di Tourneur (solo interpreti donne), Partita a scacchi di Middleton (i ragazzi dell’Accademia usati come pedine), Il candelaio di Giordano Bruno (le parti dei marioli contestatori affidate ad attori non professionisti), quindi l’enorme successo in tutto il mondo dell’Orlando furioso, ridotto e volto in prima persona da Edoardo Sanguineti nel 1969 (azioni in simultanea; gli spettatori, a diretto contatto con i personaggi, spingono i palcoscenici mobili e i carrelli: non essendo possibile vedere in una sola volta l’intero spettacolo, ciascuno si sceglie un proprio percorso come se sfogliasse le pagine d’un libro).
• In seguito girò l’Europa. «La Svizzera (leggendaria nel 1972 la Katchen von Heilbron di Kleist sul lago di Zurigo, letteralmente: montata su galleggianti dove stavano attori e pubblico, poi vietata per motivi di sicurezza), la Germania, Vienna, Belgrado dove ancora nel ’72 realizza una delle più grandiose Orestea che si ricordino, dentro un parallelepipedo “global” di Job fornito di scale e perfino due ascensori. Sono gli anni più radicali della sua riflessione sul senso e sul valore dell’esperienza teatrale, oggi oggetto di decine di libri, saggi, enciclopedie. Anni cui seguirono le dodici ore di Ignorabimus, sconosciuto drammone di Arno Holz, con cinque attrici in panni maschili tranne una, nell’86; I dialoghi delle carmelitane, dell’87, con cinquanta cambi di scena per emulare le sequenze cinematografiche; L’Affare Makropoulos, del 93, dove fa invecchiare di centotrent’anni Mariangela Melato, una delle sue attrici feticcio, che farà ringiovanire (sei anni di età) in Maisie nel 2002... L’apice resta l’invenzione del Laboratorio Teatrale di Prato, dal ’76 al ’78, ancora oggi la più avanzata esperienza di sperimentazione teatrale mai fatta in Italia. Tutte cose difficili, spesso faticate, dove convivono la foga anche un po’ fanciullesca di osare con il teatro, un po’ come il bambino fa con i pezzi del Meccano, e la più matura riflessione sulle possibili articolazioni del linguaggio drammaturgico contemporaneo, che è l’ossessione di Ronconi» (Anna Bandettini).
• Sul rapporto con Strehler: «Non è vero che tra noi c’era gelosia. Ci vedevamo poco. Avevamo dodici anni di differenza, ma di fatto eravamo coetanei. Il conflitto tra noi era una leggenda: eravamo solo diversi, lui era la personalità che tutti sappiamo, io mi tengo più in disparte. Mi piace credere che all’ammirazione e rispetto che ho sempre avuto per lui corrispondesse una stima se non per le cose che faccio, per il modo con cui affronto il mio lavoro, anche nel teatro che lui fondò».
• «Si è inventato Santa Cristina. È il suo centro teatrale in Umbria, un luogo da sogno. In un riparato casale immerso nel verde, tra biblioteche e sale prove, gli attori lavorano, studiano e vivono assieme, dormono in stanzette da due, mangiano nella sala soggiorno, provano. Una cosa a metà tra scuola d’eccellenza e follia perché sta in piedi con i soldi del regista e poco altro. “Ho voluto creare Santa Cristina per dare ad attori giovani professionisti uno spazio aperto dove fare esperienze non necessariamente finalizzate a rappresentazioni. È importante che i giovani sappiano che lo spettacolo ‘cotto e mangiato’ è negativo soprattutto per loro. Studiano una cosa, la dicono male ed è già fatta. No. Recitare è un lavoro di scavo, di studio, ricerca. Mi fanno tenerezza – e lo vedo anche tra gli allievi della scuola del Piccolo – i giovani che vorrebbero fare Macbeth pensando: ‘Finora l’hanno fatto così, io lo faccio in un altro modo’. Mi sforzo di far capire loro che andare controcorrente vuol dire rompere un codice estetico, non fare quello che ci pare”» (Anna Bandettini) [Rep 19/6/2011].
• Non amava mettersi in mostra. «Chi se ne importa di esprimersi. Il teatro è divertirsi a leggere: un testo, un autore, un attore... E gli attori e le attrici sono contenti, sa, quando c’è chi è curioso di loro». Non le farebbe piacere che qualcuno “leggesse” anche lei prima o poi? «Preferisco di no. Sapere chi sono non piace neanche a me» [Anna Bandettini, Rep 4/1/2013].
• «Era riservatissimo. Ti guardava con complicità, con partecipazione, con pienezza di senso, ma fuori dal tran tran lavorativo era più laconico, o comunque sviava dagli argomenti interpersonali. Quando era a teatro, invece, e si impegnava a fondo in una messinscena, era persino emozionato, senza nascondere le lacrime agli occhi. E senza minimamente vergognarsi di essere così coinvolto. Solo se costruiva uno spettacolo, e ne plasmava il cantiere con noi attori, gli vedevi i colori dell’anima. Ed era un fatto bellissimo. Noi ci conoscevamo da una vita...» (l’attore Massimo De Frankovich a Rodolfo Di Giammarco) [Cds 22/2/2015].
• «Luca, le sue origini non le aveva dimenticate. Origini semplici. Di cui non si vergognava. Di certo poi, Luca era tra le persone più felicemente testarde e determinate con cui fossi mai entrato in contatto. Mai lamentoso, mai cupo e mai professorale, nonostante i successi e il rispetto della critica» (Enrico Lucherini a Malcom Pagani) [Fat22/2/2015].
• «Non era un traditore di autore, non cambiava le date, ma conosceva il senso profondo dell’emozione quella che arriva da lontano e diventa materia contemporanea» (Maurizio Porro) [Cds 22/2/2015].
• Cominciò a dedicarsi al teatro lirico negli anni Settanta in un periodo in cui, «eletto ormai regista delle macchine e dell’impossibile» (dopo un’Orestea di otto ore considerata improponibile in Italia), si era per reazione autoesiliato dal teatro di prosa. Accanto alla frequentazione dei classici della lirica italiana (Norma, Nabucco, Traviata, Trovatore ecc.), di Wagner (Walkiria e Sigfrido alla Scala) e del repertorio rossiniano (Il barbiere di Siviglia dell’Odéon, Il viaggio a Reims a Pesaro con Abbado ecc.), ha lavorato con esiti particolarmente apprezzati sui terreni meno battuti del teatro musicale: dal barocco italiano (l’Orfeo di Luigi Rossi alla Scala e quello di Monteverdi a Firenze) al «vertiginoso Caso Makropulos di Janacek contemporaneo all’originale in prosa di Čapek con Mariangela Melato». Nel 1999 e 2001 un Lohengrin che fece discutere: «Una parte rumorosa del pubblico ha fischiato Ronconi. Peggio per loro: hanno fischiato uno spettacolo bellissimo» (Dino Villatico); «La sensazione è che Ronconi firmi ormai le regie liriche con la stessa distrazione con cui certi stilisti firmano le linee secondarie, occhiali, piastrelle per bagno o profumi. Un po’ più di fantasia, per piacere, dal geniale regista di Orlando Furioso. Si ispiri a Guerre Stellari, ai romanzi fantasy, al teatro Kabuki o ai Pokémon. Ma Wagner come Sturmtruppen del povero Bonvi, per cortesia, mai più» (Sergio Trombetta).
• Nel gennaio 2007 Il ventaglio, spettacolo d’apertura delle celebrazioni del Piccolo per il tricentenario di Carlo Goldoni: al debutto milanese seguirono 150 recite tra Italia ed estero e il premio della critica francese come migliore spettacolo straniero. Altre messe in scena: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury («Niente effetti speciali. In teatro si può mettere in scena il futuro solo tramite la parola»), Inventato di sana pianta di Hermann Broch, Odissea: doppio ritorno di Omero ecc. Alla Scala è stato contestato (molti «buu» e «vergogna») il suo Trittico di Giacomo Puccini (Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi), applauditi invece la direzione di Riccardo Chailly e gli interpreti Juan Pons, Barbara Frittoli, Leo Nucci. Da agosto 2008, con Ludovico Einaudi e Cesare Mazzonis, ha un teatro, «nuovo di zecca ma pensato all’antica», nel borgo di Solomeo, vicino a Perugia, «uno spazio per sperimentare parola e suono» (Claudia Provvedini): prima messa in scena: Nel bosco degli spiriti, dai racconti anni Cinquanta dell’africano Amos Tutuola.
• Nel 2010 in scena con La compagnia degli uomini di Edward Bond, una commedia che «parla di conflitti familiari in un contesto che, sia pure alla lontana, ricorda The Damned di Visconti ossia La caduta degli dei» [a Enrico Groppali, Grn 27/5/2010].
• Il 27 giugno 2014 al Teatro Caio Melisso ha inaugurò il Festival dei 2 Mondi dirigendo Adriana Asti e Giorgio Ferrara in Danza macabra di August Strindberg. Nel 2013 sono cinque gli spettacoli che portavano la sua firma, tra cui Panico di Rafael Spregelburd: «Talvolta mi sento come uno che vive le vite degli altri. Come questi personaggi a cui sto lavorando, che sembrano sempre stare da un’altra parte, e quando intuiscono che invece la vita è questa, quella che vivi, che ti giochi una volta sola, sono assaliti dal panico».
• Stefano Batezzaghi: «La Lehman Trilogy è la storia bisecolare della famiglia Lehman, dalla fondazione dell’impresa sino al crollo, scritta dal drammaturgo Stefano Massini e apparentemente irrappresentabile. Ma del resto Luca Ronconi è stato il regista del non rappresentative. Rappresentare le relazioni invisibili, i concetti era del resto la sua specialità.
A Milano Ronconi aveva già portato Infinities, una collana di invenzioni fra la matematica e Jorge Luis Borges portata in diversi ambienti di certi vecchi magazzini della Scala, alla Bovisa: la meraviglia di un teatro fuori dal teatro e di una recita i cui protagonisti sono le entità più astratte immaginate dall’uomo. Ora, parlando di astrazioni un tenace equivoco vuole che sollevarsi dalla realtà materiale non possa che raffreddare, sino al gelo del ragionamento logico indifferente a ogni passione. Ronconi funzionava al contrario: questi esperimenti erano condotti sulla base di una concezione del tutto passionale e “calda” del pensiero. Così il suo Don Giovanni mozartiano, addirittura barocco e corporeo. Fu quella rappresentazione una scelta quasi hard: mettere in scena dei lettoni, macchine gigantesche che quasi travolgevano lo spettatore, era proprio questo. La vita che ti porta via, come quei letti a baldacchino dove Don Giovanni consumava i suoi amori» [Rep 22/2/2015].
• L’ultimo spettacolo, quello «che era in scena a Milano, quello su Lehman Brothers, era un capolavoro. E un capolavoro non nasce dal cazzeggio o dal manierismo» (Enrico Lucherini a Malcom Pagani) [Fat22/2/2015].
• Quattro lauree honoris causa e, due anni fa, il Leone d’Oro alla Carriera: «In questo caso la parola "carriera" è sminuente; nel caso di Ronconi dobbiamo parlare di un’intera vita dedicata al teatro, nella quale teatro e vita sono state una cosa sola. Ronconi ha saputo e sa essere un maestro per i giovani, cui ha trasmesso la sua sapienza. Se i più “grandi” riuscissero sempre a far questo, oggi non saremmo a parlare di crisi e i giovani avrebbero vie migliori di quelle che portano a rapide illusioni. In più il maestro ha saputo essere un interprete del proprio tempo, senza mai concedersi al facilmente e immediatamente consumabile, e soprattutto vivendo nella storia del proprio Paese in piena libertà intellettuale» (così il presidente della Biennale Paolo Baratta alla cerimonia di premiazione) [Cristina Tagliabue, Fat 22/2/2015].
• «Non mi sono mai considerato un maestro. Ma certo che se gli altri pensano che tu lo sia devi, in qualche modo, tenerne conto». [Rita Sala, mes 22/2/2015].
• «Non ne fui mai amico nella vita. Ma lui spesso mi capiva, e mi comunicava. Il rapporto, lo ripeto, era diversamente intenso quando si era in prova. (...) Fu un maestro particolarissimo, premuroso, raro. Ricordo una cosa sconvolgente e molto intima quando si lavorava per il Re Lear. C’è la scena importante e celebre della pazzia, una scenamadre difficilissima, e io proprio non la facevo come voleva lui. Mi venne vicino. Decise che gli altri dovevano uscire tutti, e rimanemmo io e lui da soli. Si appoggiò al palcoscenico, e la fece tutta intera, la parte. Rigo per rigo, parola per parola. Quasi denudandosi, come vuole Shakespeare. Una cosa impressionante, fuori dal normale. Lo seguii paralizzato, ipnotizzato. Una cosa sconvolgente e irripetibile. Ne feci tesoro, ma poi non recitai in nessun caso alla sua altezza. Ma fui conscio d’averlo avuto accanto a me come non era mai successo, e come non riaccadde mai. Fu un privilegio artistico» (l’attore Massimo De Frankovich a Rodolfo Di Giammarco) [Cds 22/2/2015].
• «Non mi interessava tanto la condizione dell’attore, quanto i problemi relativi alla recitazione dell’attore. Recitare non mi piaceva, perché mi mancava quel tanto di piacere esibizionistico indispensabile a qualsiasi attore (...) Mi piace che l’attenzione degli altri vada a quello che faccio più che a quello che sono» (Ronconi).
• «Snob, poco incline alla familiarità, polemico senza strepito, coltissimo. Ronconi amava ripetere: «Si sopravvive meglio, se le direzioni sono una sola, ma diverse» [Rita Sala, mes 22/2/2015].
• «La sua forza era quella di non ripetersi mai. Moderno, mai sopra le righe. Si documentava su tutto. Non amava farsi vedere in giro, ma leggeva avidamente libri e giornali» (la scenografa Margherita Palli a Pierluigi Panza) [Cds 22/2/2015].
• Leggeva molto. «E poi rileggo, serve a prendere le distanze da com’eri quando hai letto la prima volta un testo» [Rita Cirio, Esp 8/3/2013].
• «Luca era una della poche persone che era capace di avere lo stesso tono sia che parlasse con Sergio Corbucci, sia che fosse al cospetto di Luchino Visconti. Non era un trombone, Luca. E i tromboni li disprezzava» (Enrico Lucherini a Malcom Pagani) [Fat22/2/2015].
• «Uno come lui, che ha lavorato ogni ora che ha vissuto, che ha avuto dedizione serena, serenissima, fino a sacrificarsi ovunque come un negro, ma con immancabile gioia, sempre pieno di progetti, di attenzioni...» (Massimo Frankovich a Rodolfo Di Giammarco) [Cds 22/2/2015].
• «Lo spettacolo lo tengo a mente tutto. Mi faccio in testa le possibilità di un lessico scenico che poi in parte è mantenuto, in parte è a perdere... Quaderni di lavoro? Diari? Ma no, non ho niente da scrivere. Se scrivessi, crederei troppo a quello che faccio. E se ci credessi perderei la curiosità di andare avanti. Anche per i grandi spettacoli ho fatto così» [a Anna Bandettini, Rep 19/6/2011].
• «Non avrei potuto far altro che teatro. Che ritengo il lavoro più bello del mondo. È un’attività anche terapeutica... Per me il teatro era l’unico territorio in cui potessi respirare naturalmente» (a Gianfranco Capitta) [Cristina Tagliabue, Fat 22/2/2015]. Ma «mi piacciono i boschi, le lepri, i campi coltivati, le volpi, i torrenti, i cinghiali, gli ulivi, le stelle. Ed è per questo che sono andato a vivere in una casa in Umbria, in un paesino che si chiama Casa del Diavolo, dove posso vedere tutte queste cose».
• Di calcio non sapeva nulla. Corrado Pani: «Una volta gli chiesi se potevo ritardare le prove perché c’era il derby. Lui mi guardò stupito chiedendomi di che cosa si trattava: non aveva assolutamente capito che stavo parlando della partita Roma-Lazio».
• «Non mi sono mai posto il problema dell’essere cattolico, ma direi un’inesattezza se affermassi che, in tutto quello che succede, non esiste né una finalità, né un disegno. Mettiamola così, posso anche essere religioso, certo non credo nell’immortalità dell’anima» [Luca Bergamin, Iod 18/1/2014].
• Enrico Lucherini: «Eravamo giovani e scalmanati. Facevamo scherzi telefonici nottetempo a qualche incolpevole disgraziato, in un contesto retto da una sola religione. Il famo, famo, famo. C’era la vita e per dirla alla romana, ce la magnavamo a mozzichi» (a Malcom Pagani) [Fat 22/2/2015].