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 2012  giugno 01 Venerdì calendario

Biografia di Alberto Ronchey

• Roma 27 settembre 1926 – 5 marzo 2010. Scrittore. Giornalista. Editorialista del Corriere della Sera. «Ho cominciato a scrivere sulla stampa clandestina durante l’occupazione, e poi feci il cronista, il redattore capo, il corrispondente, l’inviato speciale, il direttore, il professore di sociologia, il ministro, il presidente della Rizzoli... In ogni luogo, in ogni mestiere, ho scoperto cose nuove. Fare sempre lo stesso lavoro diventa una routine».
• È stato direttore della Voce Repubblicana, inviato speciale e poi direttore della Stampa, editorialista di Repubblica. Ministro per i Beni culturali e ambientali nei governi Amato I e Ciampi (1992-1994), dal 1994 al 1998 fu presidente del Gruppo editoriale Rizzoli Corriere della Sera. Tra i libri: I limiti del capitalismo (Rizzoli 1991), Fin di secolo in fax minore (1995), Atlante italiano (1997), Accadde a Roma nell’anno 2000 (1998), Viaggi e paesaggi in terre lontane (2007), tutti editi da Garzanti. Indro Montanelli, in una recensione sul Corriere del saggio Fin di secolo in fax minore: «Credo che Ronchey sia il giornalista europeo che più a fondo ha scavato nei problemi del mondo, che meno ha concesso al sensazionalismo e al colore» [Alberto Ronchey, Cds 17/5/2010].
• «Il 29 ottobre 2002 dal palco del Teatro Olimpico di Vicenza fu lo stesso Ronchey a raccontare perché Gianni Agnelli lo scelse come direttore de La Stampa. “Chiesero un giorno al mio editore perché nel 1968 avesse scelto me alla direzione de La Stampa. L’Avvocato Gianni Agnelli rispose: ‘Perché Ronchey era allora una forza della natura’. Nel 1968 avevo 42 anni. Ora che ne ho 76, purtroppo mi sento uno sforzo della natura”. Il pubblico esplose in un grande applauso mentre a Ronchey gli veniva consegnato il premio giornalistico intitolato a Guido Piovene» (Adnkronos) [adnkronos.com 8/3/2010].
• Inventore del celebre “fattore K” (per indicare l’impossibilità, tutta italiana, di far andare al governo il partito che stava tradizionalmente all’opposizione, dato che si trattava di un partito comunista, notoriamente legato a una potenza straniera teoricamente nemica).
• «Nel 1981 Alberto Ronchey lasciò il Corriere della Sera, di cui era una colonna portante, e si fece convincere a venire a Repubblica. Era in corso lo scandalo della P2 e il quotidiano di via Solferino vi si trovava immerso fino al collo, perdendo copie e firme prestigiose, con grande e legittima gioia di Eugenio Scalfari che cercava di intercettare entrambe. (…) Quando Ronchey si rese disponibile volendosi allontanare dall’ondata di fango che sommergeva il Corriere, Scalfari gli propose la rubrica Diverso parere che già nel titolo voleva dire: l’uomo che scrive è un corpo estraneo a questo giornale che è stato concepito e portato al successo principalmente per catturare un pubblico di simpatizzanti di sinistra, ma proprio per questo il suo diverso parere va visto come un esercizio dialettico, la curiosità di sentire l’altra campana. Eugenio Scalfari mi disse: “Ronchey ha detto che voleva venire da noi perché a piazza Indipendenza c’è il garage a pagamento, mentre quando va al Corriere non riesce a parcheggiare. Gli abbiamo offerto un posto macchina permanente e lui è venuto. Però l’ho avvertito: cerca, se ti riesce, di tener conto di lettori diversi da quelli che ti leggevano sul Corriere. È una sfida: devi mettere a punto un linguaggio e una forma di comunicazione adatta ai diversi lettori, se vuoi che leggano il tuo ‘diverso parere’”. Il Diverso parere di Ronchey su Repubblica fu un fiasco: pubblico scarso e irritato. Accadde così che una delle mie più irresponsabili vocazioni provocasse un curioso incidente. Una sera fui invitato a cena da Giovanni Minoli che abitava in via dei Prefetti. (…) Lì in genere davo il meglio del peggio di me, facendo teatro dal vivo: fattacci del giorno, miserie di redazione, retroscena politici. Il mio arrivo era dunque in genere considerato come l’inizio di uno spettacolo, e in quell’occasione aiutai senza averla programmata l’uscita definitiva di Ronchey da Repubblica. (…) Vidi in un angolo del salotto seduti Giuliano Ferrara, Lucio Colletti (il filosofo marxista che sarebbe passato con Berlusconi) e lui, Alberto Ronchey, che “Fortebraccio”, lo straordinario Mario Melloni corsivista dell’Unità, chiamava sarcasticamente “l’ingegner Ronchey” per il suo maniaco ordine nell’esposizione degli argomenti, la precisione dei concetti e del lessico. Era proprio questo il carattere “di destra” che veniva rimproverato a Ronchey: l’assenza di qualsiasi concessione emotiva alla trattazione di argomenti di politica e ideologia, magari esprimendo disprezzo per le opinioni altrui. La sua asciuttezza ingegneresca, frutto di una documentazione accurata e un senso della logica ferreo, costituivano insieme il suo stile e il suo contenuto. Ronchey non si era affatto curato di compiacere i lettori di Repubblica con un linguaggio a loro gradito, ma li aveva irritati con il suo modo di ragionare rigorosamente pragmatico, dunque “di destra”. Bisognava dunque prendere atto del suo fallimento. Ma i rapporti personali fra lui e Scalfari, le naturali ritrosie e timidezze stavano trascinando la questione per le lunghe. Così, d’istinto, vedendo Ronchey al quale andava tutta la mia simpatia, volli dargli una mano mettendo in scena il principio di realtà, il vero stato dei fatti, come piaceva a lui. Assunsi la postura di Eugenio “con la testa portata come il santissimo”, per usare la definizione del suo amico Carlo Caracciolo, impostai la voce sulla tipica tonalità roca, scandita e con quel particolare romanesco datato e aulico che Scalfari usava nei momenti solenni ma privati e dissi ad alta voce: “Alberto, ma si può sapere che vuoi? T’avevo detto de veni’ ascrive pe’ Repubblica, ma ricordandoti che i miei lettori so’ tutti comunisti. Je dovevi parla’ come parlano loro. E tu, invece, che hai fatto? Hai seguitato a scrivere le cazzate di prima con lo stesso stile di prima. È così che hai mandato tutto a puttane e adesso te toccherà trovare un altro garage per parcheggiare. Ma sai che te dico? Che è mejo che te ne vai affanculo al Corriere della Sera, invece di sta’ a rompe i coglioni da noi”. Una cappa di gelo scese su Ronchey, mentre tutti risero e qualcuno applaudì. Dopo cinque minuti Ronchey prese il cappotto, salutò i pochi con cui aveva chiacchierato e infilò la porta. Il giorno dopo Eugenio mi mandò a chiamare: “Mi dicono che tu nei salotti romani mandi Ronchey affanculo con la mia voce”. Mi strinsi nelle spalle. Eugenio disse: “Me la fai anche a me?”. Riprodussi e Scalfari: “A parte che la voce non somiglia, cerca di trattenerti la prossima volta”» (dal libro Senza più sognare il padre di Paolo Guzzanti, Aliberti 2012).
• Soprannominato “l’Ingegnere” per il tecnicismo di certi suoi articoli. «Nella redazione di Repubblica ancora ricordano le interminabili elencazioni dei popoli sovietici durante le riunioni» (Vittorio Zincone).
• «Alberto Ronchey non sbaglia mai: non una cifra fuori posto, una data inesatta, un riferimento fattuale impreciso, una citazione zoppicante. Lui si schermisce, e dice che qualche volta (molto raramente, beninteso) gli è capitato di sbagliare. Non è vero, e comunque non ci sono prove» (Pierluigi Battista).
• «Non scrive mai a tirar via. È precisissimo. Ha pregevolezza nello stile e sapienza nell’essere freddo. Soprattutto, non ama i pezzi di colore. Preferisce il grigio, la tonalità interstiziale che non ti fa prendere abbagli e non ti dà allucinazioni» (Giuliano Ferrara).
• «Ricordo una meravigliosa risposta di Alberto Ronchey: “Lei è un intellettuale, uno studioso, un giornalista, ora anche un ministro: si sente un tuttologo?”. E lui, magistralmente aveva risposto: “Anche”» (Luca Talese) [Ink 31/10/2013].
• «Ricordo che Pannunzio esortava i più giovani così: mi raccomando, mai l’uso delle espressioni che vanno di moda. E poi: saltare i passaggi, scrittura ellittica, evitare i legami faticosi tra un capoverso e l’altro. Mai essere banalizzanti, ma nemmeno troppo brillanti. Non usare più aggettivi dietro un sostantivo, perché vuol dire che non si è trovato l’aggettivo giusto. Un articolo deve avere una testa, due braccia, magari una coda, ma non può essere un millepiedi».
• «Il suo cruccio e insieme la sua passione è quella di risultare non solo serio ma serioso, talvolta riesce a scampare da quel pericolo, talvolta ci casca dentro ma non se ne dispera, se mi apprezzano – dice – dovranno prendermi così come sono. Adora la concretezza, i problemi, le cifre. In politica detesta gli schieramenti, parola che gli fa orrore. Detesta la passionalità. Detesta gli slogan, palloncini colorati pieni d’aria e di nulla. Detesta le emozioni e la psicologia. Detesta l’improvvisazione. Insomma – diciamolo – detesta la politica perché la politica è fatta di tutte quelle cose che lui vorrebbe lasciare fuori dalla porta. Perciò, avendo eletto la concretezza a regola aurea, finisce con l’essere immerso nell’astrazione più pura visto che privilegia l’“esprit de géométrie” rispetto all’“esprit de finesse”» (Eugenio Scalfari).
• Nel novembre 2006 festeggiò a Roma con l’allora ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli il parziale ritorno di Palazzo Barberini, in gran parte occupato dal circolo ufficiali dell’Esercito, a sede della Galleria nazionale di arte antica, dopo un contenzioso di decenni. Rutelli gli riconobbe la primogenitura di quella battaglia: era stato lui, quand’era al governo, a raggiungere nel 1993 la prima intesa con il ministro della Difesa.
• Sposato con Vittoria Aliberti. Una figlia: Silvia (vedi).