1 giugno 2012
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Biografia di Giovanni Francesco Riina
• Palermo 21 febbraio 1976. Mafioso. Detenuto al 41 bis nel carcere di Terni. Secondogenito di Salvatore Riina, è tutto suo padre da giovane (che lo chiama “Ciccio”). Come i fratelli e le sorelle è nato nella clinica Pasqualino e Noto di via Dante, a Palermo, e come loro ha vissuto da latitante fino al 16 gennaio 1993, quando, a meno di ventiquattr’ore dall’arresto del capo famiglia, si trasferirono con la madre Ninetta a Corleone, in via Scorsone 24, nella casa della famiglia Bagarella. Qui, lui e il fratello più piccolo Salvo presero subito a spadroneggiare: raid per le strade del paese a bordo di moto da cross, sparizioni improvvise perché andavano a trovare lo zio Luchino (Leoluca Bagarella), fratello della mamma e che viveva nascosto a Giambascio, contrada alle porte di San Giuseppe Jato.
• «Il fisico non l’aiutava, impacciato e di eccessiva mole. La salute non perfetta: il ragazzo soffriva di problemi alle gambe, tanto che doveva sottoporsi a lunghe sedute di riabilitazione motoria» (Francesco La Licata).
• Prime imprese: massacrano a colpi di pietra la lapide di Falcone e Borsellino, atto di cui si presero la colpa sei ragazzi di Corleone (il pm scrisse che avevano agito per ordine dei due Riina); lasciano una testa di vitello davanti alla porta del sindaco che invitava ogni primavera don Ciotti (nessun processo).
• Ammazza facile, come il fratello. Ordina di sparare ai due tizi che, a fari spenti, nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1995, hanno percorso a bordo di una station wagon via Scorsone. Un’indagine di zio Luchino accerta che si tratta di Giuseppe Giammona, commerciante, 22 anni, e di suo cognato Francesco Saporito, 21 anni, operaio. Giovanni Riina: « Rumpitici i corna». Tre giorni dopo (28 gennaio) Vincenzo Brusca e Vito Vitale vanno nel negozio di abbigliamento di Giammona e gli sparano in testa quattro colpi di Magnum 357. Vitale e zio Luchino si occupano dell’operaio Saporito il 22 febbraio: con la parrucca in testa, armati di mitra e pistole, affiancano la macchina di Saporito e sparano a lui e alla moglie Giovanna (sorella di Giuseppe Giammona), amnazzandoli. Il figlioletto di due anni viene ferito di striscio. Prima di questo secondo delitto Giovanni, seguendo il consiglio di zio Luchino («tutti devono ricordarsi che stavi passeggiando»), si fa vedere in piazza spavaldo. Si scoprirà poi che Giammona e Saporito, né mafiosi né malavitosi, avevano attraversato senza fari via Scorsone perché si erano dimenticati di accenderli.
• Ha superato la prova di mafiosità il 22 giugno 1995: dovendosi sopprimere Antonio Di Caro, detto il “dottore” perché laureato in Legge, e divenuto secondo zio Luchino confidente dei carabinieri di Agrigento, Giovanni venne incaricato della bisogna. «Prima gli ha dato un calcio al petto e poi gli ha messo la corda intorno al collo, l’ha tirata mentre gli altri gli facevano i complimenti. Il figlio dello zio Totò si era comportato bene, era stato bravo…» (il pentito Giovanni Brusca). Anche questo cadavere fu poi sciolto nell’acido.
• Per i quattro delitti sta all’ergastolo (sentenza definitiva confermata dalla Cassazione il 24 gennaio 2005). I giudici, negando le attenuanti: «Personalità sanguinaria», con «elevatissima inclinazione a delinquere».
• Il pentito Tullio Cannella, proprietario del residence dove Giovanni aveva trascorso una vacanza estiva: «Si lamentava perché gli arancini del bar non erano buoni ed ero preoccupato che il barista potesse fare una brutta fine» (Goffredo Buccini). (a cura di Paola Bellone).