31 maggio 2012
Tags : Gaspare Mutolo
Biografia di Gaspare Mutolo
• Palermo 5 marzo 1940. Pentito, a suo tempo mafioso, uomo d’onore di Partanna Mondello. Detto “Asparino”. Sposato, quattro figli. Mafioso, poi collaboratore di giustizia, sottoposto a programma di protezione.
• La sua vita l’ha raccontata nel 99 a Giovanna Montanaro e Francesco Silvestri, che l’hanno intervistato per il libro Dalla Mafia allo Stato (Gruppo Abele). E poi ad Anna Vinci (Gaspare Mutolo. La mafia non lascia tempo, Rizzoli 2013).
• Padre bigliettaio a bordo dei tram, madre casalinga, malata di mente, che viene chiusa in manicomio quando lui ha dieci anni. «Con le mie sorelle, mio fratello e il mio papà, ogni settimana o quindici giorni andavamo a trovare mia madre in manicomio: a volte la portavano con la camicia di forza». Ad accudire la famiglia ci pensano la sorella più grande e una zia, vicina di casa, finché il padre non trova una nuova compagna, che per quanto affettuosa ha carezze solo per i nuovi nati. Per amici solo ladruncoli del quartiere, con cui passa il tempo a rubare vestiti nelle botteghe o frutta nei campi. Ancora prima di finire gli studi va a lavorare in un’officina (il pomeriggio al ritorno da scuola), ma spesso e volentieri, pur di non tornare a casa, si ferma a dormire in qualche macchina. Il suo datore di lavoro è un mafioso. Due zii, fratelli della madre, sono pure mafiosi. «Ma cosa mi ricordo di queste persone? Che molta gente andava da loro la sera perché il fidanzato non si voleva sposare la fidanzata, perché il marito trascurava la moglie, perché il figlio aveva problemi (...) Secondo la mia mentalità di ragazzo, avevo 17-18 anni, il mafioso era una persona che se diceva una cosa la manteneva, che voleva essere rispettato». A quell’epoca comincia a rubare macchine, e finisce in galera per la prima volta a vent’anni, condannato per associazione a delinquere. Non sopportando gli atti di nonnismo, arriva spesso alle mani e finisce ogni volta in cella di punizione. Dopo due anni di carcere e uno di libertà, ritorna all’Ucciardone, dove conosce Totò Riina, e gli insegna a giocare a dama («Mi affezionai maledettamente a Riina Salvatore»). Dopo 8 mesi nella stessa cella Riina gli dice che quando esce deve presentarsi a Rosario Riccobono (capo della famiglia mafiosa di Partanna Mondello, il suo stesso quartiere), e gli chiede: «Ma quando tu vai a rubare se devi sparare a uno lo fai?». «Se c’è l’occasione», gli risponde Mutolo, al che Riina gli spiega: «Se devi sparare a qualche persona ci vuole un attimo, invece se devi rubare si perde più tempo» (in quell’occasione gli suggerisce anche di leggersi il libro cult dei mafiosi: i Beati Paoli, romanzo di William Galt, alias Luigi Natoli, la storia ambientata a Palermo di una setta segreta del Seicento). Scarcerato e riarrestato, nel 65 finisce di nuovo nella sezione di Riina, ma quando stanno per trasferirlo nel carcere di Augusta, quello gli dà un biglietto da consegnare a un mafioso lì detenuto. Questo fatto gli conferisce una grande importanza, tutti i detenuti gli portano rispetto, altro che il nonnismo della prima carcerazione. Dopo vari arresti e scarcerazioni, nel 73 si dà da fare per contattare quel Riccobono che gli aveva detto Riina, che però è a Marano di Napoli e gli chiede di portargli lì sua madre. Eseguito l’incarico, a Napoli trova anche Riina, che lo combina (cioè lo affilia a Cosa Nostra), col rito della pungitina e della santina bruciata. «Non è che ti dicono: “Vuoi entrare?”. C’è uno studio della persona, ma se lo studio della persona è sbagliato e alla fine uno si rifiuta, lo ammazzano. A volte hanno strangolato persone perché erano nell’incertezza se combinarle o ammazzarle». Dopo il rituale Riccobono gli spiega: «Gaspare, le cose più essenziali di Cosa Nostra sono queste: se un uomo d’onore sbaglia con una donna di un uomo d’onore, con una figlia, con la sorella, il padre, anche con le lacrime agli occhi, deve strangolare il figlio. Un’altra cosa è che non ci può essere mai perdono, anche se passano 30-40 anni: se uno fa lo spione nel letto sicuramente non ci muore, viene ammazzato dalla mafia. Anche se ha cento anni, è un principio, e si fa di tutto per non farlo morire nel letto». Gli spiega anche che la prima cosa che deve fare è sposarsi. Per lui avevano fatto un’eccezione, perché sapevano che non si era potuto sposare perché l’avevano carcerato, però aveva già un figlio e doveva rimediare.
• Diventa il più stretto collaboratore di Riccobono e di Riina, a cui fa anche da autista: «Ero felice e orgoglioso di farlo. Riina Salvatore era ancora più dolce di Provenzano, che era grezzo, invece Riina nella sua ingenuità è stato sempre un po’ dolce».
• «Quando entro in Cosa Nostra comincio a occuparmi di quello di cui si occupano tutti i mafiosi importanti, cioè omicidi, estorsioni, atti dinamitardi. Io ero uno operativo, non ero tanto portato al dialogo. In seguito, per alcuni periodi sono stato anche un grosso trafficante di droga (...) Si guadagnava moltissimo. Io dopo alcuni mesi che sono entrato in Cosa Nostra avevo già un appartamento, poi stavo costruendo un palazzo. Quando non eravamo implicati nel giro della droga, ci siamo dedicati ai sequestri di persona. Tutti i mafiosi di quel periodo lo facevano. In Sicilia, per una facciata di comodo, non si dovevano fare sequestri, quindi si partiva, chi andava a Milano, chi a Brescia, chi a Roma o a Torino. Io ho fatto due sequestri. Non era più una mafia che si accontentava, voleva le comodità. Io avevo già la casa e il terreno. Si pensava più al fattore economico e non alla mentalità».
• Nell’82, quando Riccobono viene ammazzato dai corleonesi durante la seconda guerra di mafia, Riina gli salva la vita. Arrestato altre volte, quando non è in carcere è al soggiorno obbligato in Toscana. Il 16 dicembre 1987, all’esito del maxiprocesso, viene condannato a dieci anni di reclusione.
• Nel settembre dell’88 è sconvolto dal fatto che nell’attentato a Giovanni Bontade sia stata uccisa anche la moglie (vedi Pietro Aglieri). «Comincio a preoccuparmi per mia moglie e i miei figli (...) Questo mi sconvolge la mente, perché io evitavo di sparare se vedevo che le persone erano in compagnia».
• Finisce in carcere l’ultima volta verso la fine degli anni Ottanta (neanche lui ricorda la data).
• Nel 91 Giovanni Falcone gli propone di collaborare. «Io avevo fiducia ciecamente solo in Falcone e, anche se l’avevo visto sempre dall’altra parte del tavolo, era nata subito una certa cordialità. Io gli facevo sempre la solita cantilena. “Non so niente”. E lui: “Gaspare, qua la dobbiamo finire, non vedi cosa stanno combinando!”». Nel frattempo arrestano anche la moglie («perché durante i colloqui in carcere io le dicevo: “dì a tizio..., dì a caio...”»), e lui si decide a collaborare, ma solo a condizione di parlare con Falcone, che nel frattempo però è stato nominato dal ministro di Giustizia Claudio Martelli capo del dipartimento degli Affari penali. Comincia a parlare all’indomani dell’uccisione di Falcone, davanti a Paolo Borsellino, che lo interroga l’ultima volta due giorni prima di essere ammazzato a sua volta. Testimoniando al processo nei confronti dell’ex generale del Ros Mario Mori, l’1 giugno 2012, ricordò che nell’interrogatorio del I luglio 1992, il magistrato aveva dovuto interrompere perché era stato convocato dal ministro di Giustizia Nicola Mancino, e al ritorno era così nervoso che nella sinistra teneva una sigaretta iniziata e con la destra se ne portava alla bocca un’altra e se l’accendeva (Mancino, imputato per falsa testimonianza nel processo sulla c.d. Trattativa Stato-Mafia, avendo sempre negato, ha ammesso per la prima volta di avere incontrato Borsellino, proprio nel corso del processo Mori). È indicato tra i principali testimoni del processo sulla Trattativa, perché ripeta quanto ha già dichiarato al processo Mori sulla scena a cui ha assistito durante la pausa di un altro interrogatorio: «Borsellino era in un’altra stanza. All’improvviso l’ho sentito gridare. Ho sentito parlare di dissociazione e Borsellino diceva: ma questi sono pazzi! Borsellino era arrabbiato, incazzato e continuava a gridare: “ma che vogliono dire, che vogliono fare”. Si vociferava, si era saputo che c’erano dei personaggi delle istituzioni, parlo dei Carabinieri, ma anche dei servizi segreti, di personaggi che dovevano intercedere per portare avanti il discorso della dissociazione».
• Quando si pente ha un residuo di pena di quasi due anni e un processo in corso a Civitavecchia (invece confessa altri 15-20 omicidi).
• Dopo la collaborazione ha continuato a dipingere (suoi anche i dipinti che si attribuiva in carcere il mafioso corleonese Luciano Liggio).
• «Io sono una persona umile, forse dell’umiltà che m’insegnò Riina. A volte leggo che si conquistano molte cose con l’umiltà e l’educazione».
• «Ora, quando vado nei processi, anche se ci vado raramente, parlo con i mafiosi e cerco sempre di farli ragionare. Ho solo un rammarico che alcune persone dello Stato hanno questa avversità verso i collaboratori: non è onesto e dignitoso che se un collaboratore sbaglia, allora tutti i collaboratori sono accusati di sbagliare».
• Dichiarazioni. Nel processo a carico di Giulio Andreotti ha dichiarato di avere sentito da Riina che a Roma Carnevale (giudice di Cassazione) avrebbe «buttato a terra» il processo, perché Lima aveva parlato ad Andreotti che aveva un’amicizia particolare con il magistrato. Nel processo a carico di Bruno Contrada (vedi scheda) di aver sentito dire da Rosario Riccobono di essere in diretto rapporto con il Contrada (avvicinato per la prima volta da Stefano Bontate per il tramite del costruttore palermitano Arturo Cassina contiguo a Cosa Nostra) e «per scienza diretta» di aver constatato che nel 1981 il Riccobono «aveva diminuito le misure di cautela e circospezione per sottrarsi a controlli e ricerche degli organi di polizia, in questo rassicurato proprio dal Contrada. Nel processo a carico di Corrado Carnevale: «Era il nostro punto di riferimento. Aveva trovato la formula per annullare, cercando il pelo nell’uovo».
• Record. La deposizione resa al processo di Capaci, durata venti ore. All’udienza successiva, il 22 febbraio 1996, Totò Riina chiese di rendere spontanee dichiarazioni: «Questo Mutolo è un poveraccio, un disgraziato, da noi si dice un cane di Vucciria, un canazzo di bancata» (a dire che Mutolo era come i cani che stanno appiccicati ai banconi del mercato palermitano in attesa di ricevere qualche osso).
• “Golden Market”. Nome dell’operazione eseguita dalla Direzione investigativa antimafia nel 97, così chiamata dalle iniziali di Gaspare Mutolo (ordinanze di custodia cautelare eseguite, trenta, per delitti commessi a Palermo tra il 72 e l’84).
• Libri. Nel 2013 è uscito La mafia non lascia tempo, in cui Mutolo ha raccontato la propria vita attraverso la penna di Anna Vinci. La frase più citata del libro: «Senza di noi non ci sarebbe stata la DC e nemmeno Berlusconi». (a cura di Paola Bellone).