Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2012  maggio 31 Giovedì calendario

Biografia di Giuseppe Monticciolo

• San Giuseppe Jato (Palermo) 23 giugno 1969. Pentito, a suo tempo mafioso (era il killer di punta dei corleonesi). Sposato, con figli.
• Ha raccontato la sua vita in un libro pubblicato nel 2007 con il giornalista Vincenzo Vasile, Era il figlio di un pentito, che lui stesso definisce «libro-terapia».
• Tra i suoi avi un nonno mafioso, condannato all’ergastolo per la strage di Portella della Ginestra insieme al bandito Salvatore Giuliano (che il 1° maggio 1947 spara e fa sparare sulla folla riunita per celebrare la festa dei lavoratori, ammazzando sul colpo undici persone, di cui due bambini, e per questo viene condannato all’ergastolo, ma non lo sconta perché nel 50 viene ucciso dal suo luogotenente Gaspare Pisciotta, a sua volta morto avvelenato nel 54, dopo avere annunciato l’intenzione di rivelare i mandanti della strage, tra cui a suo dire l’allora ministro dell’Interno Mario Scelba). Il padre, muratore, è rientrato in Sicilia dopo essere emigrato in Svizzera. «Maledetto il giorno in cui mio padre decise di ritornare dalla Svizzera, dove altrimenti sarei nato e cresciuto come un normale cristiano». Tra gli amici d’infanzia Enzo Brusca (vedi scheda). «Pur non essendo un cervello fine aveva mangiato pane e mafia fin dalla più tenera età. Nella maniera più naturale, ossia giocando, mi stava insegnando la strada attraverso la quale mi sarei arrampicato sulla montagna. Non solo sul monte Jato, ma sulla montagna più alta del mondo mi sarei arrampicato. Avrei raggiunto la Cupola, la mitica vetta alla quale tutti aspirano. Da lì avrei guardato il mondo».
• «Mi piaceva la sensazione di essere riverito, specialmente a San Giuseppe Jato, dove la metà del paese era mafiosa e l’altra metà collusa».
• Imparato il mestiere del padre, diventa così bravo da aprire un’impresa, in società con Enzo (mentre il fratello di Enzo, Giovanni Brusca, gli fa da padrino di cresima).
• Si innamora della sua futura moglie, Laura, a dodici anni (è la figlia di Giuseppe Agrigento, noto capomafia di San Cipirello, paese attaccato a San Giuseppe Jato). Dopo il fidanzamento, non sopportando che uno spasimante tempesti Laura di telefonate, chiede a Giovanni Brusca il permesso di bruciargli l’auto, Giovanni Brusca invece gli ordina di andare con Enzo ad ammazzare « stu figghiu e bottana» (Enzo chiede e ottiene l’onore di farlo lui personalmente).
• Le sue prime prove di mafiosità consistono nel costruire il rifugio di Giovanni Brusca, costretto a darsi alla macchia, e nell’uccidere “Culofino”, uno che per vizio bruciava macchine, finché non scelse quella sbagliata («“Ammazzate Culofino”, ci disse Giovanni, nello stesso modo che avrebbe potuto dire: “Compratemi un chilo di triglie”»).
• Entra così nelle grazie di Giovanni Brusca, ma formalmente risponde dei suoi atti a Leoluca Bagarella, che lo soprannomina “il Tedesco”, per la precisione con cui esegue gli ordini impartiti. «In realtà da tempo Brusca mi aveva addestrato a tal punto che credevo davvero che dopo di lui ci fosse solo dio. E qualche volta dubitavo anche di questo».
• La sua villa diventa base strategica dei corleonesi e, quando arrestano Riina, accompagna Enzo Brusca a scortare la sua famiglia a Corleone. «In poco meno di un anno non esisteva mafioso della Sicilia occidentale che non fosse costretto a parlare con me, darmi informazioni che chiedevo, eseguire gli ordini che impartivo, ricevere messaggi che portavo. Brusca mi aveva trasformato nelle sue orecchie, nei suoi occhi e nella sua bocca, e presto compresi che avrei potuto far pesare questo mio potere per sottomettere anche quelli che difficilmente accettano di sottoporsi a chiunque».
• Un bel giorno Giovanni Brusca gli ordina di portargli un lampeggiante e una paletta come quelli in dotazione alla polizia. Tre settimane dopo scopre che sono serviti, il 23 novembre 1993, per rapire Giuseppe, di anni 13, figlio di Santino di Matteo, che si era pentito come prima di lui Balduccio Di Maggio (la gestione tecnica del sequestro è di Brusca – vedi –, ma dietro c’è la lunga mano di Bagarella ). «L’universo sul quale si reggeva la mia vita crollò come un castello di carte, e cominciarono gli anni più infernali». Brusca lo richiama per coinvolgerlo nella gestione del sequestro di Giuseppe, incaricandolo, di volta in volta, di trasferirlo da un nascondiglio a un altro, e fidandosi di lui più di chiunque altro. Nello stesso periodo gli affida la scorta dei parenti da accompagnare in visita ai latitanti. «Non gli bastava più che gli riferissi le parole che dicevano, pretendeva anche che gi dicessi il tono della voce. Da quel che gli avrei raccontato dipendeva la vita delle persone con cui mi metteva in contatto. Brusca si stava trasformando in un essere tremendamente paranoico e pericoloso (...) Mi trovavo intrappolato in qualcosa cui ancora oggi non so dare un nome. Non esagero a dire che in quel periodo salvai la vita di qualche centinaio di persone».
• Lo sfogo di Brusca quando non trova un solo mafioso disponibile a nascondere il piccolo Giuseppe: « Unni l’amu a mintere, ’u canuzzu?» (Dove lo dobbiamo mettere il cagnolino?»). A quel punto ordina a Monticciolo di costruire un superbunker (a Giambascio). «Sapeva come indurci a fare quello che voleva. Costruire il bunker per eccellenza era stato sempre il mio sogno, e lui mi stava ordinando di realizzarlo».
• Eseguito l’ordine, la soddisfazione di Monticciolo: «Io, piccolo muratore di San Giuseppe Jato, avevo costruito un bunker antiatomico senza l’aiuto né di geometri, né di ingegneri».
• La creazione di Monticciolo fu l’ultimo nascondiglio di Giuseppe, ucciso l’11 gennaio 1996 (vedi Santino Di Matteo). Monticciolo ricevette di persona l’ordine di ucciderlo e trasportò l’acido per sciogliere il cadaverino.
• «Dio, quanto ti prego di dare un poco di pace alla mia anima tormentata, che io viva o muoia nella certezza che anche per me, pentito, ci sia un posto, anche l’ultimo, in paradiso. Non potevo fare altro, e Tu lo sai, non avevo nessuna altra scelta. Non c’era solo la mia vita in gioco, c’era tutta la mia famiglia che sarebbe stata sterminata. Non avevo la potenza che ora Brusca mantiene anche da “collaboratore di giustizia”, ero solo e tutta la collera dei lupi sarebbe ricaduta su di me e sulla mia famiglia. Perdona la mia vigliaccheria».
• Liberato dalla custodia di Giuseppe, Monticciolo è stato incaricato di altri omicidi: del pentito Balduccio Di Maggio (doveva ucciderlo a Bologna, in tribunale, con l’assistenza di Santo Sottile, che per l’occasione pensa bene di portarsi dietro il figlioletto Alessandro, di tredici anni, ma la spedizione fallisce), e degli uomini sospettati di pedinare i figli di Totò Riina (muoiono solo innocenti, vedi Giovanni Riina).
• Viene arrestato il 20 febbraio 1996, e decide di collaborare ancora prima di arrivare in carcere, dando l’indirizzo dell’ultimo nascondiglio dei fratelli Brusca (che riescono però a fuggire prima dell’irruzione della polizia), e del covo di Giambascio (dove viene sequestrato l’arsenale di guerra di Brusca).
• «Con le sue prime dichiarazioni (...) ha permesso lo smantellamento dell’area cosiddetta corleonese di Cosa Nostra consentendo, non solo il sequestro del più micidiale e fornito arsenale di cui Cosa Nostra abbia mai avuto la disponibilità, la cattura di latitanti del calibro di Bernardo Bommarito e Biagio Montalbano, l’arresto e la condanna a decine di ergastoli e ad alcune centinaia di anni di reclusione dei responsabili di efferatissimi fatti di sangue (...). Ma soprattutto l’acquisizione di preziosissimi dati informativi in merito alle dinamiche, alle alleanze e alla composizione del sodalizio mafioso nel periodo compreso tra il 1993 e il 1996» (Pietro Grasso, in una relazione al giudice di sorveglianza di Bologna, il 30 ottobre 2003, quando è a capo della Direzione distrettuale antimafia di Palermo).
• Condannato a vent’anni di reclusione, per l’uccisione di Giuseppe Di Matteo e altri delitti, ne ha scontati in carcere solo cinque, essendogli stati concessi gli arresti domiciliari per il resto. Il programma di protezione gli fu revocato nel 99, quando si allontanò dalla località segreta dove risiedeva per un viaggio in Kenya coi familiari e dopo un po’ di insistenza rientrò e si lasciò arrestare. Vive in una località fuori dalla Sicilia e continua a collaborare con gli investigatori.
• È tra i testimoni del processo sulla c.d. Trattativa Stato-mafia, iniziato a Palermo nel maggio 2013. Circostanza su cui dovrà deporre: l’incarico dato da Giovanni Brusca a Vittorio Mangano (morto il 23 luglio 2000), di contattare Marcello Dell’Utri per arrivare a Silvio Berlusconi e ottenere la sostanziale abolizione del carcere duro. (a cura di Paola Bellone).