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 2012  maggio 31 Giovedì calendario

Biografia di Alda Merini

• Milano 21 marzo 1931 – Milano 1 novembre 2009. Poetessa. Nel 1996 vinse il Viareggio-Rèpaci, nel 2006 la Rosa Camuna della Regione Lombardia. Nel ’96 candidata al Nobel dall’Académie Française. «Ma lei cosa vorrebbe? “Uomini”».
• «Sono nata a Milano il 21 marzo 1931, a casa mia, in via Mangone, a Porta Genova: era una zona nuova ai tempi, di mezze persone, alcune un po’ eleganti altre no. Poi la mia casa è stata distrutta dalle bombe. Noi eravamo sotto, nel rifugio, durante un coprifuoco; siamo tornati su e non c’era più niente, solo macerie. Ho aiutato mia madre a partorire mio fratello: avevo 12 anni (…). A Vercelli ci ha ospitato una zia che aveva un altro zio contadino, ci ha accampati come meglio poteva in un cascinale (…). Non andavo a scuola, come facevo ad andarci? Andavo invece a mondare il riso, a cercare le uova per quel bambino piccolino: badavamo a lui, era tutto fermo, c’era la guerra. Stavo in casa e aiutavo la mamma, andavo all’oratorio, ero una brava ragazza io. Io sono molto cattolica (…). Pregavo da bambina, ero sempre in chiesa, sentivo sette, otto, dieci messe al giorno, mi piaceva, però non ci vado più dai tempi del manicomio. Ho trovato una tale falsità nella Chiesa allora, in manicomio vedevo le ragazze che venivano stuprate e dicevano di loro che erano matte. Stuprate anche dai preti, allora mi sono incazzata davvero (…). Sono tornata a Milano quando è finita la guerra, siamo tornati a piedi da Vercelli, solo con un fagotto, poveri in canna, e ci siamo accampati in un locale praticamente rubato, o trovato vuoto, di uno straccivendolo. E ci stavamo in cinque. Abbiamo ripescato anche mia sorella che era partita con i fascisti, con i tedeschi, aveva imparato, si metteva in strada, tirava su le gonne, i tedeschi andavano in visibilio e le regalavano il pane, si sfamava così, si alzava solo la gonna, era bellissima.
In questo stanzone stavamo tutti e cinque, accampati, con delle reti, allora sono andata con il primo che mi è capitato perché non ce la facevo più. Avevo 18 anni, dove dormivo scusate? Così poi l’ho sposato, nel 1953. Era un operaio, è morto nel 1983, un lavoratore. Si chiamava Ettore Carniti, io sono zia del sindacalista Pierre Carniti e anche mio marito era sindacalista. Un bell’uomo. Ho avuto quattro figlie da lui (…). Poi abbiamo preso una panetteria in via Lipari, non è che proprio facevamo il pane, era solo una rivenditoria. Mi chiamavano la fornaretta. Ho avuto la mia prima bambina nel 1955, Emanuela, poi nel 1958 è nata anche Flavia. Avevo 36 anni quando è nata la mia ultima figlia, Simona, e prima ancora era arrivata Barbara» (a Cristiana Ceci).
• Studi professionali all’istituto Solera Mantegazza (dovette lasciare il liceo Manzoni «per colpa dei logaritmi»), fu scoperta a 16 anni da Giacinto Spagnoletti, che fu il primo a pubblicarla (Il gobbo, Luce). Nel 1947 fu internata per un mese nel manicomio di Villa Turro, a Milano. Nel 1951 l’editore Scheiwiller stampò, su suggerimento di Eugenio Montale, alcune sue poesie, poi pubblicò La presenza di Orfeo, Paura di Dio, Nozze Romane. Nel 1965 iniziò il periodo degli internamenti al Paolo Pini, nel 1972 tornò a scrivere sull’esperienza del manicomio (La Terra Santa). Morto nell’83 Ettore Carniti, si unì al poeta Michele Pierri e si trasferì a Taranto per tre anni. Fra le sue opere: La gazza ladra, L’altra verità, Diario di una diversa, Fogli bianchi, Testamento, Delirio amoroso, Vuoto d’amore, Aforismi, La pazza della porta accanto, La vita facile.
• «Mio padre lavorava nella vecchia mutua Grandici e faceva l’assicuratore. Era un uomo coltissimo e padrone della lingua italiana. E anche molto bello, talmente bello che lui e mia madre sembravano una coppia di attori. Era anche un tenore di grazia. Cantava nelle operette e io già da bambina ebbi una grande dimestichezza col palcoscenico. Erano talmente innamorati l’uno dell’altra, i miei genitori, che io crebbi in un clima di amore e di musica unico al mondo. Lui era bello come Robert Taylor, ma era un uomo chiuso e molto garbato. Fu un grande educatore, mio padre. Amò i suoi figli teneramente e aveva mani così ben curate che sembravano persino femminili. Mio nonno era maestro d’organo e in casa mia non ci furono mai né parolacce né offese, e mio padre aveva un tale rispetto per sua moglie che per tutta la vita io credetti che il matrimonio fosse la vera felicità. Mio padre si chiamava Nemo, perché mio nonno era un appassionato lettore di Giulio Verne. Mio padre, che non era cattolico, sposò mia madre solo quando nacqui io, per intervento di un nostro cugino che voleva santificare quell’unione così perfetta (ma io avevo il diavolo in corpo e non volevo santificarmi). Solo mio padre, così paziente e generoso, riusciva a calmarmi, e a lui confidavo tutto, anche i miei baci, i miei primi baci».
• «Oltre che poeta di meravigliosa intensità, è una donna che si è lasciata alle spalle (ma fino a che punto?) una sofferenza enorme: quella del manicomio. Vi è stata reclusa per una decina d’anni a partire dal 1965, ma, miracolosamente, in quella succursale dell’inferno è riuscita a preservare la nobiltà dell’intelletto con la sola forza della parola poetica» (Osvaldo Guerrieri).
• «Diceva Raboni: “Il poeta è l’interprete delle inquietudini”, non solo delle proprie ma di quelle del mondo. Noi siamo antenne: alle prime avvisaglie, quando le nubi ancora si addensano sull’umanità, avvertiamo la tempesta e facciamo da ripetitori per gli altri uomini. Sentiamo più forti i dissesti, gli odi, captiamo le voci delle moltitudini che ci richiamano, ma tutto ciò devasta alla fine il poeta» (da un’intervista di Lucia Bellaspiga).
• «Si è fatta ritrarre a seno nudo da Giuliano Grittini per Canto di spine degli Altera, una band prodotta da Franz Di Cioccio della Pfm. Non è nuova a queste provocazioni: sempre lo stesso fotografo, un suo amico, l’aveva ritratta senza veli per illustrare L’altra verità. Diario di una diversa, riedizione del 1997 di una sua raccolta di poesie. Allora spiegò così la sua decisione: “Per buttare il mio corpo al macero, a significare che per la psichiatria il corpo non vale, viene annientato, soltanto la mente è terreno di studio”» (Corriere della Sera).
• «Quando qualcuno mi dice “poveretta”, magari per consolarmi, non sa che anche in manicomio si può fare esperienza della vita. Ho imparato molto, in quegli anni. Anche gli elettroshock (e ne ho subiti molti - 46 in quindici anni, raccontò in un’intervista - ndr) mi sono serviti. L’abbandono è la morte, ma anche la perdita dei condizionamenti. A me non importa più nulla delle convenzioni. Vivo per quel che sono».
• «Scrivo quando non ho più soldi. Allora scrivo anche su committenza: per un matrimonio o un funerale».
• Fondamentale la sua storia con Manganelli: «Quando lo violentai, lui rimase senza parole... per mesi e mesi, finché si decise a prendere in mano la penna. Fui io che feci di Manganelli un grande scrittore» (questo a 16 anni, lei era una poetessa già apprezzata, lui aveva venticinque anni ed era sposato con un figlio - ndr).
• Maria Corti: «Ogni sabato pomeriggio lei e Manganelli salivano le lunghe scale senza ascensore del mio pied-à-terre in via Sardegna e io li guardavo dalla tromba della scala: solo Dio poteva sapere che cosa sarebbe stato di loro. Manganelli più di ogni altro la aiutava a raggiungere coscienza di sé, a giocarsi bene il destino della scrittura al di là delle ombre di Turro» (introduzione a Vuoto d’amore della Merini).
• Tommy Cappellini: «Alla fine del 1953 qualcosa si ruppe irreparabilmente tra la Merini e Manganelli. Questi non riusciva, stando alle parole scritte da Alda, a ottenere un divorzio consensuale dalla moglie. Fuggì allora su una Lambretta alla volta di Roma. Ma si trattò di fuga? Il racconto della figlia di Manganelli, Lietta, è più verosimile: suo padre e sua madre vivevano a Milano in una casa di dieci stanze, perfetta per chi non poteva soffrirsi. Un giorno Giorgio arriva a casa, trova delle valigie pronte e dice alla consorte: “Oh che bello, viene a trovarci tua madre?”. “No, sei tu che te ne vai”». Manganelli: «Preso da un’incompatibilità affettiva con il grigiore di Milano, mi sono autodeportato a Roma».
• Nel 2004 sue poesie messe in musica da Giovanni Nuti furono cantate da Milva in uno spettacolo al Teatro Strehler, ripreso successivamente. Se ne fece anche un album, Sono nata il 21 a primavera. Musicato sempre da Nuti, il suo Poema della Croce venne proposto nel Duomo di Milano. Avrebbe voluto partecipare in prima persona al Festival di Sanremo 2007, ma la commissione artistica guidata da Pippo Baudo la escluse. Diede poi dello stupido a Simone Cristicchi, che vinse quella edizione con Ti regalerò una rosa, perché parlava «di manicomi, un mondo che non conosce». Le incomprensioni si risolsero con l’album Rasoi di seta (testi suoi, musica di Nuti) in cui Cristicchi è ospite. Tra le canzoni anche Sull’orlo della grandezza, che avrebbe dovuto portare a Sanremo. Spiegò che non ce l’aveva con Baudo: «Mi ha aiutata tanto, mi ha pagato una bolletta del telefono di 6 milioni di lire, non posso volergli male».
• Nel settembre 2007 telefonò a un amico minacciando di farsi esplodere con il gas e l’Aem le staccò la fornitura per tre mesi. Parlò di un malinteso: «Sono troppo vigliacca per uccidermi. Eppoi io sono una poetessa».
• Nell’ottobre 2007 l’Università di Messina le conferì la laurea magistrale honoris causa in Teorie della comunicazione e dei linguaggi. Si rammaricò che non fosse arrivata dalla sua città. In novembre fu ricoverata al Policlinico per una ischemia coronarica.
• Viveva a Milano, casa sui Navigli. «Milano non l’amo più come una volta. È una città disorientata. Volevo venire qui con un bel paltò, mi mancavano 100 euro per riuscire a comprarlo e me lo hanno negato. Ecco, questa è Milano. Sono stufa, presidente. Lei mi può aiutare» (a Roberto Formigoni alla consegna della Rosa Camuna 2006).
• Fumava 70 o 80 sigarette al giorno, Diana Rosse (buttandone i mozziconi, senza spegnerli, sul parquet della sua casa (Dario Cresto-Dina).
«Quando mi dicono che la mia casa è in disordine, e lo è (la sovraccarico di roba), non immaginano che ho provato il peggio e quindi me ne strafrego dell’ordine e del disordine. L’essenziale è avere un tetto».
• «Nostra madre si è spenta il 1° novembre 2009 all’ospedale San Paolo di Milano, in seguito ad un tumore, fumando le sue amatissime ed inseparabili sigarette, una dietro l’altra fino all’ultimo, incurante dei divieti» (le figlie sul sito aldamerini.it).
• «Gli anziani dovrebbero poter morire a casa loro. L’ospizio è un manicomio».
• «Io la vita l’ho goduta tutta, a dispetto di quello che vanno dicendo sul manicomio. L’ho goduta perché mi piace anche l’inferno della vita e la vita è spesso un inferno…per me la vita è stata bella perché l’ho pagata cara».
• Non le piacevano i comunisti.